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Cile al bivio: una vittoria di Kast sarebbe un salto indietro autoritario

A poche ore dal ballottaggio del 14 dicembre, il Cile è chiamato a scegliere tra il progetto sociale e democratico della comunista Jeannette Jara e l’ultradestra di José Antonio Kast, che minaccia i diritti con un possibile ritorno della dittatura.


Cile al bivio: una vittoria di Kast sarebbe un salto indietro autoritario

Alla vigilia del ballottaggio presidenziale del 14 dicembre, il Cile è sospeso tra due progetti di società agli antipodi. Da un lato l’ultradestra di José Antonio Kast, che cavalca paura, xenofobia e nostalgie pinochettiste; dall’altro la candidata comunista Jeannette Jara, espressione di un programma sociale e democratico che punta ad ampliare diritti, redistribuire ricchezza e difendere la memoria delle lotte popolari.

La campagna elettorale delle ultime settimane ha ulteriormente chiarito che il secondo turno non è un semplice scontro di stili di governo, ma un referendum sul futuro del Paese: avanzare su un sentiero di riforme sociali, salari dignitosi, rafforzamento dello Stato e riconoscimento dei diritti umani, oppure imboccare la strada di un autoritarismo “di mercato” che promette ordine a colpi di espulsioni di massa dei migranti, impunità per i criminali di Stato e mano dura contro i soggetti più vulnerabili.

Al momento, i sondaggi danno Kast in vantaggio, approfittando del malcontento verso il governo uscente di Gabriel Borić, che ha fortemente deluso l’elettorato progressista che lo aveva sostenuto con entusiasmo quattro anni fa, e della forte campagna mediatica della destra. Proprio per questo, la battaglia politica attorno alla candidatura di Jara assume un valore che va oltre i confini cileni e interessa tutto il movimento comunista e progressista latinoamericano.

La vera natura di Kast: xenofobia, paura e minacce contro i migranti

Se c’è un campo in cui il volto autoritario di Kast è apparso in tutta la sua brutalità, è quello della politica migratoria. In un video diffuso sui social, il leader repubblicano ha lanciato un ultimatum ai migranti in situazione irregolare: “Vi restano 111 giorni per lasciare il Cile volontariamente”, fissando come scadenza l’11 marzo, data in cui dà per scontata la sua investitura alla presidenza. In caso contrario, ha promesso di “detenerli, trattenerli, espellerli” e di mandarli via “con quello che hanno addosso”.

Non si tratta solo di un linguaggio disumanizzante, che ricorda per molti versi quello di Donald Trump e di altri leader dell’estrema destra, ma di un vero e proprio dispositivo di intimidazione collettiva che assume i tratti della persecuzione. Kast non si limita a minacciare chi non possiede documenti: estende le sue parole anche a chiunque “aiuti” i migranti irregolari, promettendo sanzioni a chi li trasporta, li rifornisce di beni essenziali o offre loro supporto. In pratica, trasformare la solidarietà in reato, criminalizzare le reti comunitarie e l’associazionismo.

La portata di queste dichiarazioni è tale che ha già prodotto effetti geopolitici. In Perù, il governo di José Jerí, a sua volta di orientamento conservatore, ha dichiarato lo stato di emergenza nella città di Tacna, alla frontiera con il Cile, autorizzando la partecipazione delle Forze Armate nel controllo dei confini. Il motivo ufficiale è l’arrivo di migranti che dichiarano di fuggire dal Cile proprio per paura di un eventuale trionfo di Kast e delle espulsioni di massa annunciate. Vista la situazione, il ministro degli Esteri peruviano Elmer Schialer ha dovuto ricordare pubblicamente che Lima dialoga con il governo di Gabriel Borić, non con Kast, “che non è un’autorità cilena”, mentre si è aperto un canale di cooperazione migratoria bilaterale per gestire una crisi generata in larga misura dalla retorica dell’ultradestra cilena.

Il caso del Cile, con la svolta securitaria che Kast propone, si inserisce nel più ampio clima di militarizzazione dei confini in America Latina, come dimostrano anche le misure in Argentina sotto il governo di Javier Milei, con l’istituzione di una Polizia Migratoria e l’inasprimento delle norme su residenza, accesso alla sanità e istruzione per gli stranieri. In questo contesto, un’eventuale vittoria di Kast rafforzerebbe un asse reazionario regionale che vede nei migranti il capro espiatorio perfetto per nascondere disuguaglianze strutturali e responsabilità del grande capitale.

Non meno allarmante è la posizione di Kast in materia di memoria storica e diritti umani. A pochi giorni dal ballottaggio, organizzazioni sociali, vittime della dittatura e figure storiche del movimento per i diritti umani hanno diffuso una dichiarazione in cui denunciano il pericolo di un ritorno all’impunità se l’ultradestra dovesse arrivare al potere.

Il nodo centrale è la proposta di Kast di concedere il rilascio a detenuti ultra-settantenni condannati per crimini di lesa umanità, molti dei quali reclusi a Punta Peuco, tra cui il notorio Miguel Krassnoff, responsabile di centinaia di casi di sequestro, tortura, assassinio e sparizione forzata durante la dittatura di Pinochet. I firmatari della dichiarazione ricordano che in Cile sono state documentate oltre 40.000 vittime di violazioni dei diritti umani, con circa 3.200 persone assassinate e 1.100 desaparecidos, e affermano che i diritti umani “non possono essere usati come bottino politico”.

La figura di Kast è intimamente legata a questa eredità autoritaria. Per anni in Parlamento ha votato contro riforme a favore delle donne, dell’istruzione pubblica e della salute riproduttiva; ha visitato in carcere condannati per crimini di Stato, mantenendo un discorso negazionista e giustificatorio del regime militare. Per i movimenti dei diritti umani, la sua ascesa non è un semplice spostamento di centro di gravità politica, ma l’apertura di un ciclo di revisionismo, relativizzazione dei crimini della dittatura e ri-legittimazione dell’apparato repressivo.

Per la sinistra cilena e per i comunisti, questo è un punto non negoziabile: difendere la democrazia riconquistata solo poco tempo fa significa impedire che il potere esecutivo finisca nelle mani di chi lavora apertamente per smantellare il patto di memoria, giustizia e non ripetizione costruito faticosamente negli ultimi decenni.

Jara contro Kast: due modelli opposti su povertà, Stato e migrazione

Il grande confronto diretto tra Jeannette Jara e José Antonio Kast, nel “Foro Social” dedicato a povertà, migrazione e ruolo dello Stato, ha messo in chiaro quanto profondamente divergano i due progetti.

Sul terreno socioeconomico, Jara ha individuato nella concentrazione economica e nella mercificazione di beni essenziali come l’acqua i principali ostacoli allo sviluppo. Ha proposto un programma che combina investimenti in infrastrutture — impianti di desalinizzazione, bacini idrici, rete 5G, servizi di salute mentale e territoriale — con un aumento del reddito minimo a 750.000 pesos (circa 700 euro), una lotta decisa contro la collusione e un ruolo modernizzatore dello Stato come motore dell’economia reale.

Kast, al contrario, ha attribuito lo “stallo” alla burocrazia e all’“ideologia”, insistendo su un “Stato facilitatore” che riduca procedure, acceleri grandi progetti e trasferisca il baricentro delle decisioni a imprese e investitori. Una visione perfettamente coerente con la tradizione neoliberista cilena: meno regolazione, più mercato, e una promessa di efficienza che, storicamente, si traduce nella compressione dei diritti sociali e sindacali e all'accentramento delle ricchezze nelle mani di pochi.

Ancora più netto è stato lo scontro sul tema migratorio e sui campamentos, gli insediamenti informali che riflettono una crisi strutturale dell’alloggio. Kast ha proposto la chiusura delle frontiere e l’espulsione di circa 330.000 migranti irregolari in poco più di cento giorni, accompagnata da un’applicazione “rigorosa” degli sgomberi nei campi informali. Jara ha definito questo progetto “populista” e “irrealizzabile” sul piano logistico, sottolineando la necessità di un processo per permettere una registrazione generalizzata degli irregolari, con espulsione solo per chi rifiuta di registrarsi, e di un proseguimento del Piano di Emergenza Abitativa che dia la priorità alle famiglie dei campamentos.

Qui si misura non solo la distanza ideologica, ma anche la differenza di metodo: per Kast il problema si “risolve” con espulsioni di massa e repressione; per Jara, con politiche di regolarizzazione, pianificazione territoriale, diritti sociali e lotta alla xenofobia. In una società segnata da profonde fratture, la scelta tra queste due linee equivale a scegliere se costruire coesione sociale o alimentare una guerra tra poveri che farà solo il gioco delle classi dominanti.

La chiusura di campagna di Jeannette Jara a Puente Alto, nella periferia sud di Santiago, è stata un manifesto politico di classe. Davanti a migliaia di persone, accompagnata da artisti popolari e dal sindaco Matías Toledo, la candidata della coalizione progressista Unidad por Chile ha ribadito che “in questa elezione sono in gioco cose molto importanti”: l’aumento delle pensioni a partire da gennaio, la piena attuazione della legge sulle 40 ore e la difesa dei diritti sociali.

Jara ha insistito sul fatto di essere “una di quelli che lavorano tutti i giorni, che mandano avanti la famiglia e il paese”, rivendicando l’importanza che chi governa abbia “i piedi per terra” e sappia cosa significa fare la fila per prenotare una visita medica. Questa è la chiave del suo messaggio, presentandosi non come una tecnocrate distante, ma come una dirigente che proviene dal movimento sindacale, che ha guidato riforme concrete nel campo del lavoro e che propone un progetto pensato per la maggioranza sociale che vive del proprio salario.

Infine, sul tema della sicurezza, Jara ha promesso una strategia che colpisca i “pesci grossi” del crimine organizzato e una “mano dura” contro la corruzione, legando la questione della violenza a quella dell’economia e dei poteri reali, in netto contrasto con la posizione di Kast, che riduce il discorso a più carcere, più polizia, più espulsioni, senza toccare la radice sociale e finanziaria dell’insicurezza.

Una scelta storica per il movimento popolare cileno

A poche ore dal voto, il quadro non potrebbe essere più chiaro. Da un lato, una candidatura comunista che propone un programma progressista, redistributivo, femminista, attento ai diritti dei lavoratori, dei migranti e delle vittime della dittatura, radicato nella memoria della lotta contro Pinochet e nella spinta a completare il ciclo interrotto delle grandi riforme sociali. Dall’altro, un progetto di ultradestra che combina neoliberismo, nazionalismo repressivo, attacco ai migranti, nostalgia autoritaria e tentativo di rimettere in discussione i pilastri stessi della giustizia di transizione.

Per il movimento comunista e per tutta la sinistra latinoamericana, sostenere Jeannette Jara significa oggi difendere non solo un governo possibile, ma l’idea stessa che il Cile possa continuare a camminare sulla via del progresso sociale, della democrazia sostanziale e della dignità per il popolo lavoratore. Una vittoria di Kast, al contrario, aprirebbe una stagione di regressioni profonde: espulsioni di massa, criminalizzazione della solidarietà, impunità per i carnefici della dittatura, rafforzamento del blocco conservatore nel continente.

Il 14 dicembre, nelle urne cilene, non si gioca soltanto un’alternanza di governo. Si decide se il Paese andrà verso più diritti, più giustizia e più democrazia, oppure verso un nuovo ciclo di paura, odio e autoritarismo. Per questo, il voto per Jeannette Jara appare oggi come la principale trincea di difesa della democrazia cilena e delle conquiste del movimento popolare.

12/12/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giulio Chinappi
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