La vittoria di José Antonio Kast al secondo turno delle elezioni presidenziali cilene del 14 dicembre rappresenta, seppur in forma negativa, una svolta storica, non solo per il Cile ma per l’intero continente latinoamericano. Con il 58,16% dei voti contro il 41,84% della candidata comunista Jeannette Jara, il leader del Partido Republicano de Chile (PRCh) conquista la presidenza con il margine più ampio registrato da un candidato di destra dalla fine della dittatura, raccogliendo 7,25 milioni di suffragi e imponendosi in tutte le sedici regioni del paese. In un contesto di voto obbligatorio e alta partecipazione, questo risultato assume il valore di un vero e proprio plebiscito conservatore contro l’esperienza di governo di Gabriel Borić, ma anche contro la proposta progressista incarnata dalla coalizione di sinistra Unidad por Chile.
Per comprendere la portata di quanto è accaduto bisogna ricordare che al primo turno del 16 novembre la comunista Jeannette Jara era arrivata in testa, con il 26,85%, seguita da Kast al 23,92%. Tuttavia, la somma complessiva dei consensi ai candidati di destra e centrodestra sfiorava già il 70%, delineando un quadro di egemonia conservatrice che lasciava alla sinistra soltanto un margine ristretto di manovra in vista del ballottaggio. In questo senso, la vittoria di Kast non è un fulmine a ciel sereno, ma l’esito di un processo di lungo periodo che ha visto il logoramento del governo Borić, la frustrazione sociale di fronte alle promesse mancate e la capacità delle destre di capitalizzare la paura sulla sicurezza e sulla questione migratoria.
Il dato più inquietante resta però il ritorno esplicito del pinochettismo al potere, che supera anche la destra moderata per imporsi senza rivali. Kast, infatti, non è un conservatore generico, ma un politico che in gioventù fece campagna a favore del «Sí» alla permanenza di Augusto Pinochet nel plebiscito del 1988 e che si è sempre dichiarato orgoglioso di quella scelta. Oggi diventa il primo presidente apertamente pinochettista dalla transizione democratica, in netto contrasto con figure della destra come Sebastián Piñera, che pure aveva votato contro la prosecuzione della dittatura. La sua ascesa segnala non solo la resilienza, ma la piena ri-legittimazione politica di un filone che rivendica l’eredità del regime responsabile di migliaia di morti, torturati e desaparecidos.
A questa continuità politica con il pinochettismo si aggiunge il peso simbolico del passato familiare di Kast. Le rivelazioni sui documenti d’identità del padre, Michael Kast, ne testimoniano l’adesione al Partito Nazionalsocialista tedesco nel 1942, prima dell’emigrazione in Cile nel secondo dopoguerra. Se, nella narrazione pubblica delle destre estreme, questo passato viene sistematicamente minimizzato o distorto, sul piano programmatico il figlio propone misure apertamente xenofobe e autoritarie che riecheggiano i peggiori fantasmi del Novecento, dimostrando come non si tratti di semplici aspetti biografici privati. Dunque, la combinazione tra radici familiari legate al nazismo, apologia del pinochettismo e progetto politico securitario conferisce alla nuova presidenza un carattere che non può essere certo rientrare nella definizione di “destra democratica”.
Il fulcro della proposta di Kast, del resto, è una vera e propria controffensiva reazionaria in nome della sicurezza. Già durante la campagna il candidato dell’ultradestra ha lanciato un ultimatum ai migranti irregolari: lasciare il Cile entro l’11 marzo, data del suo insediamento, oppure affrontare arresti, detenzioni ed espulsioni, «andandosene con soli abiti che indossano». Allo stesso tempo, Kast ha annunciato sanzioni per chi li aiuta, da chi li trasporta a chi vende loro beni di prima necessità, trasformando la solidarietà sociale in potenziale crimine. In parallelo propone muri e barriere lungo le frontiere con Perù e Bolivia, fossati profondi e centri di detenzione, in un copione che richiama esplicitamente l’agenda di Donald Trump.
Queste parole hanno avuto effetti immediati sulla stabilità regionale. La decisione del governo peruviano di dichiarare lo stato d’emergenza a Tacna, chiudendo di fatto la frontiera a migranti in fuga dal Cile per timore delle espulsioni di massa annunciate da Kast, mostra come l’elezione del nuovo presidente cileno produca già ora un effetto domino sulle politiche migratorie dell’area. Lungi dal “ristabilire l’ordine”, questa strategia alimenta una crisi umanitaria che mette a rischio i diritti di centinaia di migliaia di persone, in larga parte provenienti dal Venezuela e da altri paesi colpiti dalle politiche neoliberiste e dalle sanzioni imposte da Washington.
La minaccia non riguarda solo i migranti. Le organizzazioni per i diritti umani cilene hanno lanciato un allarme netto di fronte all’ipotesi, avanzata da Kast, di graziare o scarcerare i condannati per crimini di lesa umanità di età superiore ai settant’anni, molti dei quali detenuti nel carcere speciale di Punta Peuco. Tra questi figura Miguel Krassnoff, ufficiale della DINA condannato a oltre mille anni di carcere per sequestri, torture, omicidi e sparizioni forzate. L’eventuale liberazione di questi criminali costituirebbe un colpo durissimo all’architettura di memoria, verità e giustizia costruita faticosamente negli ultimi decenni, riaprendo ferite mai veramente rimarginate e legittimando il negazionismo delle violenze della dittatura.
Sul piano economico Kast ha annunciato un aggiustamento fiscale di circa sei miliardi di dollari nei primi diciotto mesi di governo, senza indicare in modo chiaro dove cadranno i tagli. Alla luce del suo percorso parlamentare, in cui ha sistematicamente votato contro le riforme sociali, le misure a tutela della salute riproduttiva, la regolamentazione dell’istruzione privata e altre conquiste progressiste, appare verosimile che l’“efficienza” promossa come parole d’ordine si tradurrà in un attacco alle politiche pubbliche e ai diritti sociali, in particolare per le classi popolari che hanno sostenuto le mobilitazioni del 2019.
Passando all’opposizione, Jeannette Jara ha riconosciuto con lucidità la vittoria del suo avversario, ma ha rivendicato la necessità di mantenere viva e unita la coalizione Unidad por Chile, che rimane, nonostante la batosta delle presidenziali, il primo blocco alla Camera con 61 deputati e 20 senatori complessivi. Jara ha insistito sulla costruzione di una opposizione «propositiva» ma anche «esigente e ferma» verso il nuovo governo, consapevole che il Parlamento sarà uno dei pochi argini istituzionali di fronte a un esecutivo apertamente reazionario e a un blocco di destra che sfiora, tra Camera e Senato, la maggioranza necessaria per imporre gran parte della propria agenda.
Il giudizio più severo, dal campo progressista, non risparmia però la gestione deludente e fallimentare di Gabriel Borić. Secondo una lettura diffusa nello stesso mondo latinoamericano di sinistra, e che condividiamo in pieno, l’assenza di un progetto di trasformazione coerente, la timidezza di fronte a poteri economici consolidati e l’adozione di misure di controllo sociale in chiave neoliberale hanno aperto la strada al ritorno del pinochettismo. L’ondata speranzosa del 2019 e la vittoria del 2021 si sono infrante contro la difficoltà di tradurre la protesta di piazza in un processo riformatore stabile, lasciando spazio alla narrazione della destra secondo cui solo l’“ordine” autoritario può risolvere i problemi di sicurezza e stagnazione.
Non sorprende neppure che la vittoria di Kast abbia suscitato reazioni fortissime tra i leader progressisti della regione. Il presidente colombiano Gustavo Petro ha parlato di «venti di morte» che soffiano sul Cile, sottolineando quanto sia triste che, dopo l’esperienza della dittatura, settori popolari arrivino a scegliere democraticamente il proprio «Pinochet». In più occasioni ha ribadito di non voler «dare la mano a un nazista e a un figlio di nazista», mettendo in guardia sul rischio che il popolo cileno sia nuovamente massacrato, in senso materiale e simbolico, da un progetto autoritario e classista.
Di tono diverso ma non meno significativo è stata la reazione della presidente messicana Claudia Sheinbaum. Pur riaffermando il rispetto assoluto per la sovranità e la decisione democratica del popolo cileno, Sheinbaum ha invitato il campo progressista latinoamericano a una «riflessione profonda» sulle ragioni che spiegano l’avanzata delle destre, soprattutto nei contesti in cui si indebolisce il legame tra i governi e le proprie basi sociali. La presidente ha insistito sulla centralità della coerenza programmatica, del rispetto della parola data e dei risultati concreti nella lotta contro la povertà e le disuguaglianze, suggerendo implicitamente che quando i governi progressisti appaiono distanti dal popolo, lasciano spazio al discorso reazionario.
Dal Venezuela, Nicolás Maduro ha denunciato la campagna apertamente xenofoba di Kast contro i migranti, in particolare contro la comunità venezuelana, ricordando l’ultimatum rivolto agli irregolari perché abbandonino il Cile prima dell’11 marzo. Maduro ha definito il nuovo presidente cileno «nazista cresciuto in una famiglia nazista e pinochettista convinto e confesso», annunciando al tempo stesso un piano speciale per favorire il ritorno in patria dei venezuelani che vorranno lasciare il Cile e garantire loro protezione attraverso la Gran Misión Vuelta a la Patria.
La vittoria di Kast diventa così uno specchio nel quale il movimento comunista e progressista latinoamericano è costretto a guardarsi. Da un lato, essa evidenzia la capacità delle destre di riorganizzarsi, di parlare ai timori della popolazione e di trasformare il malcontento sociale in consenso per progetti autoritari, nazionalisti e classisti. Dall’altro, mette a nudo i limiti dei governi progressisti quando si allontanano dalle proprie basi popolari, rinunciano a confliggere con i poteri economici e si rifugiano nella gestione tecnocratica dell’esistente.
Per il Partito Comunista del Cile e per la sinistra cilena nel suo complesso, il compito che si apre è arduo ma decisivo. La figura di Jeannette Jara, comunista, ex ministra del Lavoro protagonista di conquiste come la legge sulle 40 ore e l’aumento del salario minimo, rappresenta oggi un patrimonio politico che non può essere disperso. La costruzione di un’opposizione unitaria, radicata nei sindacati, nei movimenti sociali, nelle organizzazioni per i diritti umani e nei quartieri popolari, sarà fondamentale per resistere ai tentativi di smantellare le conquiste degli ultimi anni e per impedire nuove forme di impunità per i crimini del passato.
Il ritorno del pinochettismo a La Moneda, con un presidente che non nasconde la propria ammirazione per la dittatura e un passato familiare legato al nazismo, non è un destino irreversibile. È il prodotto di rapporti di forza che possono cambiare. Ma perché questo avvenga, il movimento comunista e progressista dovrà ritrovare la capacità di proporre un progetto di società credibile e radicale, capace di dare sicurezza senza sacrificare libertà, di rispondere alle paure sociali senza alimentare odio e discriminazione, di onorare la memoria di Allende, delle vittime del terrorismo di Stato e delle lotte popolari cilene.
Il 14 dicembre il Cile ha scelto Kast. Il compito che ora si pone alle forze rivoluzionarie e progressiste è impedire che quella scelta si traduca in un nuovo ciclo di violenza di classe, repressione e razzismo istituzionalizzato, costruendo un’alternativa che restituisca al popolo cileno la possibilità di riaprire un nuovo ciclo come quello del 2019-2021, ma questa volta che sia di cambiamento reale.
