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Le fiabe dei Grimm e la costruzione dell’egemonia culturale

La prima edizione de Le fiabe del focolare porta alla luce le versioni di celebri racconti progressivamente nascoste o cancellate per venire incontro alle esigenze del dominio di classe.


Le fiabe dei Grimm e la costruzione dell’egemonia culturale

Sono passati poco più di tre anni dalla pubblicazione sul mercato italiano della prima edizione integrale delle Fiabe del focolare raccolte dai fratelli Jacob e Wilhelm Grimm e apparse per la prima volta in due volumi dati alle stampe tra il 1812 ed il 1815. Un’opera importantissima non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per i semplici appassionati e per quegli insegnanti, nonni e genitori che non si accontentano di nutrire i fanciulli soltanto con le merendine prodotte della grande industria culturale.

Già per le dimensioni ed il peso, questo libro - che riunisce i due volumi, per un totale di 667 pagine, 156 racconti e 24 figure - si configura come un prodotto di nicchia, che non può essere lasciato in mano a dei bambini senza un adulto che lo legga, o meglio, lo reciti. Le fiabe raccolte dai Grimm in questa prima versione, infatti, sono trascritte come uscivano dalla bocca di chi ne serbava memoria che “si fa sempre più raro”, in quanto “è la consuetudine a raccontarle a venir meno” (Grimm, prefazione del 1812).

Pertanto, siamo di fronte a racconti caratterizzati dal massimo rigore filologico e dalla struttura paratattica che facilita l’intervento creatore del lettore e ben si adatta alle conoscenze linguistiche di bambini anche relativamente piccoli. Storie “più vicine al sentire del popolo, e dunque dirette, quasi teatrali, adatte insomma ad essere lette ad alta voce, proprio come i fratelli le trascrissero da raccontatrici e raccontatori, ascoltandoli accanto al focolare, in giardino, nei momenti di riposo dei giorni di festa” (dall’introduzione della traduttrice Camilla Miglio). Ma la differenza con le edizioni successive non è data soltanto dalla nuova struttura maggiormente ipotattica alla quale siamo più avvezzi, ma soprattutto dal pesante contributo pedagogico dei Grimm, “che da raccoglitori ben presto si fecero autori”. La prima versione delle Fiabe del focolare, infatti, ci regala storie che difficilmente sono conosciute dal grande pubblico cui è stata fornita, quando va bene, la versione della settima edizione del 1857 o, quando va male, direttamente quella contrabbandata da Walt Disney.

Già a partire dalla seconda edizione, i fratelli Grimm hanno cominciato a edulcorare i racconti in modo da renderli maggiormente aderenti al comune sentire dei membri delle classi dominanti cui erano destinate. Nella prima edizione, ad esempio, a voler abbandonare Hansel e Gretel non era la matrigna, come ci è stato insegnato, ma la madre. E a risvegliare Biancaneve non c’è stato nessun bacio principesco ma una violenta botta sulla schiena assestata da un servo stanco di dover scarrozzare quel cadavere da tutte le parti. Con la malvagia madre invitata al matrimonio cui sono destinate delle scarpe di ferro incandescenti e che “fu costretta a indossarle e danzare e danzare fino ad avere i piedi orribilmente bruciati, e senza poter smettere fino a quando, ballando ballando, non fu lei a cadere morta per terra”. Un finale cruento come moltissimi altri progressivamente ingentiliti (I tre omini nel bosco) se non da subito cambiati (come Cappuccetto rosso che nella precedente versione del francese Charles Perrault finisce divorata dal lupo).

L’egemonia di classe, dunque, non si gioca solamente sul terreno della creazione artistica ma anche della rielaborazione delle storie esistenti. Per questo è importante leggere questa prima edizione de Le fiabe del focolare: non si tratta solo di scoprire interessanti curiosità narrative, ma di vere e proprie testimonianze dell’evoluzione della lotta di classe condotta sul terreno culturale. Un lavoro artigianale, quello dei Grimm, se comparato con l’imponente opera di vera e propria adulterazione effettuata su scala industriale dalla Disney, ma di fondamentale importanza per consolidare il dominio della borghesia.

Dunque, al piacere di scoprire la versione originale - o meglio, l’ultima versione orale che è arrivata fino a inizio ottocento in Germania, quanto i Grimm la fissano in questa prima edizione - si unisce la scoperta di una narrazione che non deve ancora rispondere pienamente ad una classe dominante il cui potere è saldo e la cui principale necessità è quella di indorare la pillola, ma che ci parla dell’epoca immediatamente precedente. Il punto di vista della proto-dominante borghesia, ad esempio, emerge dall’importanza dell’intraprendenza personale quale veicolo per l’emancipazione ma anche dall’attacco verso quelle classi il cui potere doveva essere scalzato. La religione, coerentemente con la riforma protestante, viene messa al servizio del lavoro e così col diavolo, la cui paura era in passato strumento imprescindibile di dominio, si scende a patti con reciproco beneficio (Il diavolo con la giacca verde) oppure è utilizzato ed infine sconfitto e deriso dal protagonista grazie alle virtù quali la perseveranza, la laboriosità e l’intelligenza (Il fabbro e il diavolo). E pure principi e re, eroi senza macchia e senza paura per antonomasia, non rappresentano più (o meglio, non ancora) dei buoni pater familias come oggi ce li presentano i mass-media, ma sanno essere anche crudeli e feroci (Barbablù) o talmente stupidi da farsi comandare anche da La saggia figlia del contadino.

Il punto di vista della borghesia che emerge da questa prima edizione, quindi, è quello di una classe ancora impegnata nella conquista del potere. Una classe ancora rivoluzionaria le cui gesta e la cui intraprendenza costituiscono il più valido esempio di emancipazione a disposizione dell’epoca nel quale queste storie si sviluppano. Un epoca in cui le classi popolari, i lavoratori a giornata, i contadini, i minatori, i tagliaboschi, i guardiani d’oche, ecc, non sono né sostanzialmente ed in molti casi neanche formalmente sottomessi al capitale e pertanto non possono ricercare nell’abbattimento dello sfruttamento del lavoro salariato la propria liberazione.

Un popolo, però, che non rinuncia a denunciare la fatica e le conseguenze più nefaste del lavoro fine a se stesso, sebbene a liberarsene siano “solo” le figlie-femmine di un sovrano-maschio troppo avido (Il tormento dell’arcolaio). Un popolo, però, capace di trovare nell’uguaglianza - di contro alla meritocrazia divina o al demoniaco inganno - l’unica condizione per il successo personale (Comare morte). Una critica molto più morbida rispetto alla limpida e dura denuncia contenuta nelle favole di Esopo (VI sec. a.c.) non a caso “schiavo che, soggetto al potere, non osando esprimere quello che desiderava, trasferì i propri sentimenti in favolette e, con storielle piacevoli, evitò di essere incriminato”. Queste le parole di Fedro (Fabulae, Prologo al libro III) anch’egli intento a tipizzare le figure umane e “se qualcuno riterrà riferita a se stesso la favola che riguarda invece un modo di comportarsi generalizzato, da stolto mostrerà a tutti di avere la coda di paglia. Vorrei comunque scusarmi con lui: non ho infatti l'intenzione di censurare i singoli, ma di mostrare la vita com'è e come sono i comportamenti umani”. Per sanzionare, dal punto di vista della morale dei subalterni, le malefatte dei potenti e fornire sul terreno fantastico un po’ di quel riscatto che la realtà greca del VI secolo a.c. o della Roma di Augusto non permetteva di realizzare.

Ma se il progetto di cambiamento è assente nelle favole di questi antichi autori ed il riscatto è affidato alla vincita del debole sul forte senza veder mai un rovesciamento delle parti o un’emancipazione definitiva, nei Grimm la liberazione è presente coerentemente al grado di sviluppo delle società (e del punto di vista borghese degli autori). Nei racconti dei Grimm, infatti, non vi è traccia del progetto di riscatto müntzeniano che nella Germania del XVI secolo era riuscito a formulare con una certa precisione le aspirazioni comunistiche delle classi subalterne [1]. Vi è, invece, molto ben rappresentato il salto di classe individuale (l’arricchimento), variamente realizzato, ora col soccorso della fortuna (Come un sarto si fece ricco), della laboriosità (Il povero garzone del mugnaio e la gattina), di un buon matrimonio (Cenerentola), della bontà d’animo (Il povero e il ricco) o di un classico trapasso in un aldilà migliore (La morte e il guardiano d’oche). Sempre e comunque col superamento di una prova, una difficoltà o il confronto con l’alterità e mai grazie a quei superpoteri che oggi, invece, vanno per la maggiore. Questa prima edizione delle fiabe dei Grimm, dunque, testimonia meglio di tutte le successive versioni non solo la forza e la ricchezza delle classi dominanti (che possono essere alternativamente nobili o borghesi) e la debolezza, la sofferenza e la relativa protesta dei subalterni (contadini, falegnami, oppure artigiani o locandieri) ma anche il passaggio da una classe all’altra come soluzione all’assoggettamento materiale e spirituale.

Ma l’opera dei Grimm è considerata una pietra miliare nella costruzione dell’identità nazionale tedesca e dello sciovinismo che la caratterizzerà. Il protagonismo dei terzogeniti e più in generale degli ultimi ed umili, infatti, più che in termini di classe è interpretato in termini di nazionalità, come riscatto della giovane nazione tedesca e di maggior aderenza al corso ‘naturale’ del mondo. Questa interpretazione tuttavia, che porta sul piano sovrastrutturale il fatto che ogni nazione non è altro che la forma in cui si organizzano gli interessi della borghesia, deve tener conto anche di un altro fatto: che in questa prima edizione i Grimm raccolgono numerosi racconti che per origine o attribuzione non appartengono al solo popolo tedesco.

Alcune fiabe (L’albero di ginepro) ricalcano quasi perfettamente storie che ci arrivano direttamente dalla mitologia greca (Tereo e Procne), altre (Il lupo e i sette caprettini) quelle esopiche. Il gatto con gli stivali e altri racconti sono già presenti nelle Piacevoli notti del bergamasco Giovanni Francesco Straparola vissuto nel secolo XVI (Costantino fortunato) e grande ispiratore pure del napoletano Giambattista Basile e del suo Pentamerone (XVII secolo) nella cui opera si trovano racconti (Ninnillo e Nennella) che poi ritroveremo nei Grimm (Fratellino e sorellina). E che dire di Pollicino, Cappuccetto rosso, Barbablù, Il gatto con gli stivali, Cenerentola presenti pure nei Racconti di mamma oca di Charles Perrault, autore francese del secolo XVII? E ancora Il giardino d’estate e d’inverno, oggi conosciuta col titolo de La bella e la bestia, la cui prima versione edita fu quella francese di Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve nel 1740 (sebbene la versione più popolare sia stata pubblicata nel 1756 da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont). E ancora, favole come Il fuligginoso fratello del diavolo, che si ritrovano nelle raccolte popolari russe (Il sudicione) o Monte Simeli che ricalca quasi alla perfezione la favola persiana di Ali Babà e i quaranta ladroni. Per non parlare di Cappuccetto rosso che - ha dimostrato Jamie Tehrani, antropologo alla Durham University - si ritrova pure in Asia orientale (Nonna tigre) con varianti che ci portano (o riportano?), senza soluzione di continuità, all’esopica Al lupo, al lupo!.

Questa prima edizione delle Fiabe del focolare, quindi, è un’opera che nella sua originalità può dirci molto sul portato di classe dei confini - economici, politici e culturali - di contro alla contaminazione e alla reciproca influenza dei popoli. Ma anche sul fatto che popoli molto lontani nel tempo e nello spazio ad uno stesso stadio di sviluppo finiscono per produrre, anche indipendentemente l’uno dagli altri, gli stessi racconti e che questi, poi, continuano a vivere anche quando le condizioni materiali che li hanno generati sono venute meno. A riprova, semmai ce ne fosse bisogno, che sono queste ultime e la lotta di classe a determinare la cultura e le idee e che quindi non basta opporre le nostre storie a quelle della classe dominante ma occorre cambiare le condizioni materiali ed il dominio di classe, se vogliamo strappare le idee di libertà positiva e uguaglianza sostanziale dal mondo alienato delle fiabe e della religione e realizzarle sulla terra, affinché non ci sia più bisogno di sognarle.


Note

[1] “Per Münzer il regno di Dio è un’organizzazione della società in cui non ci sono più né differenze sociali, né proprietà privata, né autorità statale estranea e indipendente, contrapposta ai membri della società. Tutte quante le autorità vigenti, che non volessero adattarsi e unirsi alla rivoluzione dovevano essere rovesciate, e si dovevano instaurare la comunanza delle attività e dei beni e la più completa eguaglianza. Per attuare tutto questo si doveva fondare un’unione che abbracciasse non solo tutta la Germania, ma tutta la cristianità. I principi e i signori dovevano essere invitati ad aderire e, in caso contrario, alla prima occasione, l’unione, armi alla mano, li doveva rovesciare o uccidere. Münzer si diede subito da fare per organizzare questa unione. Le sue prediche assunsero un carattere rivoluzionario sempre più accanito. Oltre ad attaccare i preti, con eguale passione tuonava contro i principi, la nobiltà, il patriziato e dipingeva con i colori più accesi l’oppressione che vigeva e, in contrasto con essa, il quadro fantastico del regno millenario della eguaglianza sociale repubblicana”. Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania, cap. II (versione tratta da Resistenze.org).

26/01/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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