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Losurdo Vs l’impolitico

A due anni dalla morte del più grande storico delle idee marxista pubblichiamo una analitica recensione a una sua grande opera poco conosciuta: L’ipocondria dell’impolitico.


Losurdo Vs l’impolitico Credits: https://www.eurasia-rivista.com/domenico-losurdo-il-linguaggio-dellimpero/

Domenico Losurdo intende fare della “ipocondria dell’impolitico” una sorta di filo conduttore che consenta di restituire il pensiero politico di Hegel e di tenere insieme i diversi saggi che raccoglie in questo corposo volume, dedicati in massima parte all’indagine della fortuna dello Hegel “politico”. Il libro di Losurdo è indubbiamente molto ricco e stimolante, riuscendo a tenere insieme in modo magistrale il piano filosofico e quello storico dell’analisi, pur non sottraendosi in singoli passaggi al rischio di forzare un po’ il piano della lettera dei testi per farla rientrare nello spirito della sua argomentazione. L’opera di Losurdo, pur essendo come di consueto caratterizzata da un poderoso impianto analitico, non si sottrae sempre al rischio d’inevitabili ripetizioni, peraltro dovute alla forma stessa del volume che resta una estremamente significativa raccolta di importanti saggi, unificati post factum sotto il comune determinatore della critica alla Romantik.

Con questo termine, Hegel criticava il mito di una soggettiva vita spirituale interiore, che dovrebbe essere maggiormente elevata del grande e terribile mondo oggettivo della politica. Questa concezione tenderebbe in ogni modo a scoraggiare una attiva partecipazione all’agone politico. Il problema si pone soprattutto per gli intellettuali che, dopo la caduta dell’ancien régime, sono chiamati in prima persona a farsi carico della vita politica. In effetti, fra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, mentre nei liberali paesi anglosassoni il ruolo degli intellettuali è sottoposto o fa tutt’uno con quello dei possedenti, in Francia, Russia e anche in Germania si crea il “pericolo”, per i conservatori, di un loro impegno politico che, fondato su principi razionali, portasse a una critica sovversiva degli aspetti irrazionali dell’ordine costituito, in grado di mobilitare anche le masse popolari.

Hegel, secondo Losurdo, non avrebbe difficoltà a schierarsi nella prospettiva del valore politico degli “astratti” principi razionali, come quelli che sono a fondamento della dichiarazione dei diritti dell’uomo e dell’individuo e che costituiscono, dopo l’affermazione della Rivoluzione francese, una sorta di seconda natura per l’uomo occidentale. Tuttavia, ciò non impedisce a Hegel di rivoltare contro i suoi critici l’accusa di astrattezza, dato che all’interno del mondo prerivoluzionario si finiva spesso per perdere di vista la concretezza dell’uomo riducendolo al posto che occupa nella scala sociale. In tal caso, “un universale affermato e goduto in un rapporto di inconciliabile e insuperabile contraddizione con il particolare è incapace di stimolare un’azione politica efficace e suscettibile di produrre risultati duraturi” [1].

A questa dialettica Losurdo riconduce la critica hegeliana all’ipocondria dell’impolitico, causata dall’astrattezza e dall’inesperienza della intrinseca e necessaria contraddittorietà del piano politico da parte di quelli intellettuali che pretendendo che il reale dovrebbe adeguarsi al concetto soggettivo che ne hanno. In tal modo gli intellettuali tradizionali finiscono per abbandonare disgustati non la loro astratta concezione soggettiva, ma la concretezza della realtà e della prassi storica. Così di fronte a chi, come la scuola romantica, abbandonava la prassi politica per dilettarsi, tutt’al più, nella mera edificazione delle coscienze, Hegel ribadirebbe la necessità per gli intellettuali di impegnarsi nel proprio concreto mondo storico.

L’opera inizia con un primo scritto dedicato al concetto di rivoluzione nella filosofia tedesca ai tempi della Rivoluzione francese. Losurdo mostra come i diversi intellettuali che, pur vivendo in un paese controrivoluzionario come l’Impero germanico, contrastavano le concezioni complottiste utilizzate dai controrivoluzionari – che accusavano i rivoluzionari di un’artificiosa rottura dell’ordine naturale degli eventi – tendevano, al contrario, ad assimilare i rivolgimenti che avvenivano in Francia a delle catastrofi naturali e, quindi, necessarie e ineluttabili. In tal modo, intendevano fare pressioni sui loro reazionari governanti affinché non osassero contrastare un inarrestabile cataclisma naturale, ma provvedessero a prevenire l’estendersi anche in Germania di tali eventi modernizzando e razionalizzando un paese ancora ostaggio dell’ancien régime. In tal modo, però, gli intellettuali tedeschi correvano il rischio, come denuncia a ragione Losurdo, di assimilare le grandi istanze socio-economiche, politiche, filosofiche, morali e storiche – che erano alla base della grande Rivoluzione francese – a meri eventi naturali, per altro di natura catastrofica. In tal modo, anche un grandissimo filosofo come Immanuel Kant rimaneva ancorato a una concezione ancora evoluzionistica del corso storico, di derivazione tardo illuminista. Persino l’unico grande filosofo apertamente filo-giacobino, Johann Gottlieb Fichte, non appariva in grado di superare realmente questa concezione fondata su un materialismo meccanicistico e non dialettico. Soltanto Hegel coglierà la profonda differenza fra le passate rivolte contadine, che ancora potevano essere assimilate a necessari cataclismi naturali, e la Rivoluzione francese che aveva come obiettivo la rifondazione su basi razionali dalla società, del diritto e dello Stato.

A tale scopo, Hegel elabora il decisivo concetto di uno sviluppo storico quantitativo che, giunto a un certo punto, non può che innescare un profondo e completo rivolgimento qualitativo. In tal modo, rifonda in senso dialettico la concezione illuministica della filosofia della storia a cui ancora i filosofi della riflessione, come Kant e Fiche, rimanevano ancorati. Il corso storico, in effetti, come osserva Losurdo per meglio chiarire la concezione rivoluzionaria della filosofia della storia di Hegel: “procede non il linea retta ma a zig-zag, attraverso contraddizioni e lotte che si sviluppano incessantemente” (21). Si trattava di una concezione che, non a caso, sarà ripresa e sviluppata da Marx ed Engels nella concezione materialistica e dialettica della storia da loro elaborata. Inoltre, in tal modo, Hegel – di contro al materialismo meccanicistico ed evoluzionista, che tendeva a ritenere naturale lo sviluppo storico – mette al contrario l’accento sulla libertà e la responsabilità della soggettività storica che, proprio rompendo con il ciclico corso della natura, nel momento opportuno opera l’imprescindibile salto qualitativo rivoluzionario.

Nel secondo saggio Losurdo mostra come il piano teologico viene conservato, benché superato e secolarizzato, anche nel dibattito post 1789. Ora, tuttavia, “la dicotomia eresia/ortodossia, che era stata al centro delle precedenti rivoluzioni, tende ad essere sostituita dalla dicotomia astrazione/concretezza, teoria/esperienza ovvero dalla dicotomia che mette in stato d’accusa l’artificio in nome al tempo stesso della natura e della storia” (37). In effetti, pensatori controrivoluzionari come Nietzsche condannano l’astrazione in quanto sarebbe alla base sia della scienza che della democrazia, che tendono a omologare ogni cosa nell’eguaglianza del concetto, facendo così ombra all’ordine gerarchico ben più concreto della natura e della storia passata. Così, coerentemente, Nietzsche per distruggere il concetto finisce per rimettere in discussione la stessa comunicazione umana su cui si fonda la società. Anzi, nella prospettiva reazionaria di Nietzsche, come osserva a ragione Losurdo, “a voler essere rigorosi, bisogna anzi rendersi conto che la rivolta servile si manifesta già nelle ‘coltellate’ plebee insite nel ‘sillogismo’ socratico, ovvero in una dialettica che sconfigge le buone maniere e il pathos della distanza dell’aristocrazia e tutti unisce e omologa sul terreno di una presunta comunità della ragione” (51).

Al contrario Hegel procede alla critica tanto dell’empirismo, che finisce per giustificare il dato storico senza sottoporlo al vaglio critico della ragione, quanto dell’universale astratto che, contrapponendosi in modo assoluto al dato reale, finisce per recuperarlo del tutto acriticamente. D’altra parte, non solo in Marx si troverebbe la stessa critica dell’immediatezza empirica e della cattiva astrazione già riscontrate in Hegel, ma la stessa critica del marxiana alla filosofia hegeliana sarebbe debitrice di categorie propriamente hegeliane. Sulla differenza tra i due filosofi, riconducibile alla reazione empiristica post-hegeliana, si appunta, invece, la critica di Losurdo a Marx, o almeno ad un certo aspetto della concezione marxista, quella che mirerebbe al superamento della astratta universalità dello Stato per ricondurla nella concretezza del rapporto inter-individuale proprio della società civile. Inoltre Losurdo ricostruisce, con l’apporto soprattutto delle Lezioni sulla filosofia del diritto, tutti i passaggi in cui Hegel, anticipando Marx, pone l’accento sull’astrattezza dell’apparato giuridico su cui posa lo stato ‘borghese’, qualora non tenesse conto dei bisogni concreti della società civile. Per Hegel astratta è tanto la figura del cittadino – qualora la sua condizione materiale gli impedisse di procacciarsi i mezzi di sussistenza – quanto quella del bourgeois impossibilitato a una partecipazione reale alla vita politica. “È solo nel primo dei due significati che la critica della libertà ‘astratta’ ha fatto scuola nella tradizione ovvero nella vulgata marxista” (66).

In Hegel la categoria di astratto, in riferimento alla libertà, si specifica in quella di “formale”. L’elemento formale è l’elemento del consenso soggettivo indispensabile all’effettualità della libertà sostanziale. Tuttavia ciò avviene solo quando l’aspetto formale e sostanziale della libertà tendono a coincidere. Altrimenti vi può essere anche una grande libertà formale, astratta, che però nasconde in sé un contenuto regressivo rispetto alla libertà sostanziale, concreta. Così in Polonia o in Inghileterra “l’aristocrazia che ha strappato alla Corona la ‘libertà formale’ se ne serve per impedire incisive riforme antifeudali, per ostacolare o bloccare il processo di realizzazione della ‘libertà oggettiva’, e cioè del ‘diritto razionale’” (69). Al contrario, ad esempio nel dispotismo illuminato prussiano, vi è uno sviluppo della libertà sostanziale, della persona e della libertà, che non si accompagna affatto, anzi mira a contrapporsi, alla realizzazione della libertà formale, ovvero allo sviluppo nel senso di una monarchia costituzionale.

Segue sul prossimo numero

Note:

[1] Domenico Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico, Milella Edizioni, Lecce 2001, p. 7. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo, in parentesi tonde, i rinvii alle pagine di quest’opera.

01/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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