L’ipocondria dell’impolitico

Per ricordare il grande filosofo hegelo-marxista Domenico Losurdo, a un anno dalla sua scomparsa, recensiamo una delle sue opere più significative e, al contempo, meno conosciute


L’ipocondria dell’impolitico Credits: https://www.lacittafutura.it/cultura/domenico-losurdo-un-marxista-eterodosso

L’ipocondria dell’impolitico di Domenico Losurdo è senza dubbio un libro molto ricco e stimolante, che riesce a tenere insieme in modo magistrale il piano filosofico e quello storico dell’analisi. Il titolo riprende l’espressione con cui Hegel critica i sostenitori del mito conservatore “di una interiore vita spirituale, che dovrebbe essere più elevata” del reale mondo della politica. Hegel intende criticare una concezione tipica dell’oligarchia che mira a scoraggiare gli intellettuali, non provenienti e organici alla classe dominante, dall’occuparsi attivamente di politica, temendo che possano divenire delle avanguardie capaci di mobilitare le masse popolari, mettendo in questione l’ordine costituito. D’altra parte proprio questi intellettuali sono al contempo quelli maggiormente a rischio di precipitare nell’ipocondria dell’impolitico, di fronte alle resistenze poste ai loro tentativi di instaurare ordini socio-politici più razionali. Ciò dipende dall’inesperienza delle tortuosità del piano politico e dalla pretesa di un’immediata adeguazione della realtà all’astratto dover essere che gli intellettuali vi contrappongono. Costoro, invece di superare quest’ultimo, finiscono per abbandonare, disgustati, la realtà per dedicarsi tutt’al più all’edificazione delle coscienze. Di contro a queste posizioni, Hegel tende a problematizzare la coppia concettuale astratto/concreto sottoponendola a una radicale storicizzazione. In effetti, “per poter costituire un nuovo orientamento sociale, l’universale deve saper tornare al particolare e al concreto, deve sapersi calare nella storia e far i conti con le resistenze, le difficoltà, le tortuosità, le mediazioni, i compromessi, i dilemmi, i drammi che sono parte integrante del processo storico e dell’azione politica” [1].

La prima parte del libro, dedicata a La filosofia di Hegel come trattato epistemologico-politico, si apre con un saggio su Le categorie della rivoluzione nella filosofia classica tedesca. I primi tentativi fatti dagli intellettuali tedeschi per giustificare gli avvenimenti rivoluzionari in Francia si servono dell’assimilazione di questi ultimi alle catastrofi naturali, di modo da rigettare le teorie complottistiche senza mettere troppo in apprensione i princìpi tedeschi. Così non solo si mostrava la necessità oggettiva e irreversibile del processo rivoluzionario, ma si rispondeva all’accusa dei sostenitori del gradualismo che rimproveravano ai rivoluzionari di non rispettare le leggi della natura. D’altra parte, in tal modo, si finiva con l’assimilare istanze morali e storiche a eventi naturali incontrollabili e catastrofici. Perciò Hegel assimilerà unicamente le Jacqueries a catastrofi naturali, mentre ogni rivoluzione, mirando a produrre un nuovo assetto economico, sociale e politico, si differenzia essenzialmente dal ciclico corso della natura. Inoltre assimilare un processo spirituale a un processo naturale mette in ombra l’indispensabile operare del soggetto rivoluzionario.

Così mentre Kant restava, anche dopo la rivoluzione francese, fedele allo schema evoluzionistico della storia e a questo in fin dei conti si atteneva lo stesso Fichte – pur tenendo conto dei salti rivoluzionari prodotti dall’impedimento del naturale sviluppo dell’illuminismo da parte dei despoti – solo con Hegel la categoria del salto qualitativo assume una posizione centrale nella filosofia della storia. Il dapprima lento mutamento storico subisce in determinati momenti, detti perciò rivoluzionari, una brusca accelerazione, l’oscuro “lavorio della talpa, che lentamente ha corroso le fondamenta dell’ordine esistente, ha costituito il presupposto dei radicali sconvolgimenti” (20). La contraddizione, come contraddizione reale, oggettiva è la caratteristica fondamentale della teoria hegeliana della rivoluzione. «Quando un ordinamento politico-sociale non riesce a controllare e a incanalare l’insopprimibile spinta al mutamento, quando non riesce a padroneggiare la negatività che circola inevitabilmente nelle sue strutture, è allora condannato ad essere spazzato via» (24). Ugualmente importante è nella concezione hegeliana della storia la categoria del negativo, che diviene centrale proprio all’interno dei processi rivoluzionari. Così la rivoluzione vera e propria viene rappresentata da Hegel come la scintilla, il momento soggettivo, che cade su una massa di polvere da sparo, ovvero sulle contraddizioni reali prodotte nel corso del tortuoso sviluppo storico.

Il secondo saggio è dedicato alla contraddizione astratto/concreto in Hegel, Nietzsche, Marx e la tradizione marxista. Mentre le rivoluzioni precedenti al 1789 erano sempre accompagnate da un dibattito essenzialmente caratterizzabile come teologico-politico, quelle seguenti si inquadrano in una riflessione di tipo epistemologico-politico.

Hegel, di fronte ai critici della rivoluzione come astrazione che rompe il naturale sviluppo, non si limita come Kant e Fichte a difendere il ruolo dell’astrazione teorica, ma ripensa in riferimento alla rivoluzione francese e più in generale all’agire politico la dialettica che si instaura tra le categorie di astratto e concreto. Così Hegel da una parte difende l’importanza tutta storica del processo che ha portato al riconoscimento del valore universale dell’uomo – indipendente da ogni appartenenza religiosa, nazionale o sociale – dall’altra l’astrazione universale, benché risultato di un travagliato processo storico, diviene una vera e propria seconda natura, per cui è privo di concretezza proprio il reazionario che pretende di ritornare allo stadio precedente.

Nell’epoca posthegeliana il contrasto epistemologico-politico tra astratto e concreto si viene riconfigurando nel contrasto tra nominalismo e realismo, individualismo e universalismo. I nuovi rivoluzionari sarebbero colpevoli di credere all’esistenza reale di concetti puramente universali come quelli di uomo ecc., perdendo così di vista l’individuale. Tuttavia questa esaltazione dell’individuo singolo finisce per ricadere nella contraddizione già messa in evidenza da Hegel a proposito della certezza sensibile. A forza di ricercare la differenza si finisce nella differenza indifferente. Inoltre la stessa categoria di individuo, astratto da ogni ulteriore determinazione, è possibile solo sulla base della categoria più universale di genere umano che consente tale astrazione.

Paradossalmente una conferma della posizione hegeliana viene da Nietzsche che, pur criticando l’universale astratto dei diritti dell’uomo, critica come risultato di quei diritti il riconoscimento del singolo individuo, che sarebbe, quindi, a sua volta da negare per restaurare gerarchia e schiavitù. Ciò porta Nietzsche a mettere sotto accusa il concetto in quanto tale, colpevole del processo di astrazione dal reale che ha portato con sé l’idea universalistica di eguaglianza. Per Nietzsche, infatti, “la scienza e la democrazia fanno tutt’uno”. Su questa strada Nietzsche giunge alla distruzione del soggetto stesso, altra astrazione da ricondurre al puro nominalismo. Così, coerentemente, Nietzsche per distruggere il concetto finisce per rimettere in discussione la stessa comunicazione umana su cui si fonda la società. Dunque per un verso la critica nietzschiana dell’astrazione si incontra con quella hegeliana e, tuttavia, Hegel pone una netta distinzione tra l’astrazione intellettualistica che cancella, omologandolo, il particolare e l’astrazione del concetto che lo ricomprende in sé.

Losurdo tende a interpretare Marx in chiave hegeliana, mostrando che persino la critica marxiana di Hegel sarebbe debitrice di categorie hegeliane. Così l’accusa di astrattezza e di recupero acritico del particolare empirico, che Marx rivolge ad Hegel, non sarebbe altro che la critica che quest’ultimo aveva rivolto a Kant e Fichte. Tuttavia questo non significa che Losurdo trascuri gli aspetti che distinguono Marx da Hegel, ravvicinandolo alla reazione feuerbachiana di fronte all’idealismo astratto. Punto centrale è l’astratto dualismo che permarrebbe in Hegel tra sfera dello Stato e sfera del sociale. Tuttavia da un punto di vista strettamente epistemologico anche questa critica è riconducibile, almeno per Losurdo, alla lezione hegeliana.

Losurdo tende a minimizzare le critiche di Marx ad Hegel, mentre accentua gli aspetti della concezione marxiana che costituirebbero in definitiva una ricaduta al di qua della filosofia hegeliana. Così è proprio sugli elementi di differenza tra i due filosofi, riconducibili alla reazione empiristica post-hegeliana a cui la riflessione di Marx non si sarebbe sottratta, che si appunta la critica di Losurdo, fino ad investire un aspetto centrale della concezione marxista della storia: l’idea del superamento dell’astratta universalità dello Stato nella concretezza del rapporto inter-individuale proprio della società civile. Questo avrebbe portato la tradizione marxista a semplificare il discorso hegeliano cogliendo comunque nell’astratto un qualcosa di negativo rispetto al concreto, immediatamente identificato con la dimensione materiale dell’esistenza.

Inoltre, secondo Losurdo, mentre la tradizione marxista avrebbe teso a sottovalutare la dimensione formale-astratta della libertà, Hegel al contrario avrebbe sottovalutato all’interno della stessa libertà formale le clausole di esclusione, razzistiche, di genere o censitarie, che storicamente l’hanno inficiata. Così il tragico errore del socialismo reale è stato quello di estremizzare la critica alle clausole di esclusione della libertà formale, principalmente in relazione al lavoro salariato e al colonialismo, fino a pretendere non di ampliarla, ma di rinunciare ad essa. Quello che sembra dimenticare qui Losurdo è che Hegel stesso sarà costantemente attaccato dai suoi critici per aver fatto troppe concessioni al timido dispotismo illuminato della Prussia del suo tempo, senza tener conto delle sue violazioni della libertà formale.

Nel quarto saggio dedicato a Razionalità del reale e educazione politica, Losurdo parte da una dura critica al tentativo di Ilting di considerare il noto detto della Filosofia del diritto sulla razionalità del reale come un momentaneo accomodarsi di Hegel alla reazione. Al contrario, come mostra Losurdo, tale concezione non solo è un elemento strutturale della filosofia hegeliana, ma anzi è diretto proprio a criticare i reazionari che ritengono il mondo umano come in sé privo di significato, di ragione. Questo spiegherebbe perché il noto detto è stato sempre violentemente criticato dagli esponenti della reazione, mentre ha trovato consensi in rivoluzionari come Lenin e Gramsci. In questo modo, infatti, sono rimessi in discussione alcuni capisaldi del pensiero reazionario come la svalutazione dell’al di qua in nome dell’al di là, della modernità in nome del cristiano medioevo, mentre le grandi rivoluzioni sono interpretabili come il prodotto della razionalità della storia. Del resto per Hegel l’identità di reale e razionale non è una immobile unità che annulla le differenze, essa è un processo che mantiene in sé il momento della differenza. Inoltre anche i due termini dell’identità non hanno uguale peso e valore dato che, per Hegel, a prevalere è sempre il razionale, il soggettivo. D’altro canto spesso si tende a dimenticare la seconda parte della proposizione ovvero che è il reale a essere razionale, ricadendo in un astratto formalismo. La polemica antihegeliana tende poi a dimenticare la differenza fra l’immediata empiria e la realtà, che per Hegel corrisponde sempre alla tendenza strategica di fondo del progresso storico.


Note

[1] Domenico Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico, Milella Edizioni Lecce, p. VIII. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo in parentesi tonde i rinvii alle pagine di quest’opera.

17/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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