Cosa resta della rivoluzione? Poco o niente

Nella visione di questo film si conferma che la gran parte della sinistra politica è inestricabilmente legata alla sorte delle classi medie, alle loro ansie, alla loro parabola o declino sociale.


Cosa resta della rivoluzione? Poco o niente

Cosa resta della rivoluzione? Niente o meglio poco. Il titolo dell'opera prima da regista della francese Judith Davis può essere trasformato in una domanda alla quale è semplice dare una risposta negativa. Non per la qualità dell'opera in realtà assai godibile, ma per il punto di vista dal quale mostra di guardare alla realtà, per “un certain regard” dal quale ci si ostina a vedere il rapporto tra vita e politica, tra quel che è stata la sinistra e la sua attuale condizione miserabile, per quel che è la connessione inestricabile tra il mito della rivoluzione e del '68 in particolare e l'esistenza declinante delle classi medie.

Il film

Ma prima di tutto il film che uscirà nelle sale il 27 agosto ed è distribuito in Italia dalla stessa casa che si è occupata de “Il Giovane Karl Marx”, la Wanted Cinema: “Cosa resta della rivoluzione” è una commedia politica con un finale animato da una vena drammatica, con attori dotati che danno vita a una recitazione assolutamente credibile e che trasmettono lo smarrimento, l'indignazione, la paura dei protagonisti e soprattutto della protagonista Angèle interpretata dalla regista Judith Davis, alla quale si affiancano il poetico aspirante fidanzato Saïd (Malik Zidi) animato da uno spirito neo francescano, una sorella triste che accompagna dolorosamente un marito alienato e in carriera, due genitori separati da anni ed ex sessantottini.

Angèle vive la politica come un dovere religioso dal quale non si può deflettere senza peccato e senso di colpa: in una parola in lei la politica, la politica rivoluzionaria, non è più frutto di coscienza, ma di dover essere; diviene pertanto un fenomeno di alienazione religiosa. E infatti Angèle guarda al mondo con un senso di estraneità e di frustrazione professionale dato che il suo lavoro da urbanista non riesce a valorizzarsi nel contesto attuale della Francia (ma il caso potrebbe adattarsi benissimo all'Italia).

La regia della Davis è attentissima agli sguardi, al trasparire delle emozioni: si vede benissimo che è una storia che conosce bene e sa pertanto condurre i suoi attori attraverso un ricco fraseggio di dialoghi verbali e gesti corporei verso la mèta di un epilogo che ovviamente non sveliamo. Complimenti quindi: l'opera prima promette bene; in alcuni passaggi ricorda “Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker del 2003 come quella fantastica pellicola riesce a strappare sorrisi teneri e sinceri. Ma...

Il punto di vista

“Cosa resta della rivoluzione è nato dal mio desiderio di confrontarmi per l’ennesima volta con l’ingombrante totem rappresentato dal maggio del ‘68, ingombrante perché ogni volta che nasce un movimento di contestazione, sembra lo si debba sempre per forza confrontare con il maggio francese. Come se non fossimo autorizzati a reinventare modelli di impegno politico perché sembrano sempre al disotto di quelli nati in quel periodo”.

Questo dice del suo film la Davis e inconsapevolmente denuncia così i limiti del punto di vista da cui parte la sua opera: limiti che non sono artistici o professionali come abbiamo appena finito di riportare, bensì sociali, di classe. L'autrice sente la necessità di demitizzare un modello di impegno politico ovvero quello del '68 francese perché quel modello si è tramandato di generazione in generazione come “paradigmatico” nella sinistra politica francese (ma si potrebbe dire europea). Più a fondo: quell'impegno così suggestivo e ricco di promesse di riscatto sociale e poi tradottosi (spesso, non sempre, ma spesso) nel ritorno all'ovile dell'integrazione da parte di consistenti masse giovanili provenienti dalle classi medie, è avvertito dalla borghesia francese ed europea come una magnifica avventura intellettuale che tuttavia ha avuto la saggezza di fermarsi dinanzi alle “Colonne d'Ercole” dell'ordine capitalistico, sulle quali vegliava il generale De Gaulle.

Dunque, si conferma, nella visione di questo film, che la gran parte della sinistra politica è inestricabilmente legata alla sorte delle classi medie, alle loro ansie, alla loro parabola o declino sociale.

In realtà, nel film sono presenti anche le classi lavoratrici seppure in una sola singola scena: quando Angèle e la la sua amica tengono al di fuori di un ufficio di collocamento uno spettacolo che mostra a tutti le banalità e le bugie su cui si fonda qualsiasi promessa di lavoro stabile e dignitoso nell'attuale ordine liberista. Ma si tratta appunto di una presenza fugace, da spettatori, nel bel mezzo dell'ininterrotto flusso di coscienza di militanti ed ex militanti privi di certezze e totalmente impegnati a polemizzare tra loro su astrazioni futili.

Non c'è in effetti in Cosa resta della rivoluzione il bisogno di una rivoluzione. Non c'è, al contrario dei film di Ken Loach,il punto di vista proletario, di chi in quest'ordine non riesce a starci più non per motivi estetici, ideologici, morali, ma concretamente perché le sue esigenze di riproduzione (mangiare, bere, fare all'amore) e di sviluppo della propria personalità (lo studio, la cultura, lo sport) non sono garantite: guardate a questo proposito, per favore, il bel “Sorry we missed you” dell'anno scorso.

L'intellettuale proletarizzato o il proletario intellettuale?

Manca dunque, nel film, l'incontro tra la teoria e la cultura della rivoluzione, l'esigenza di una rivoluzione. È davvero emblematica la scena nella quale il collettivo nel quale milita la protagonista rimane in silenzio dinanzi alla furente Angèle che chiede a tutti di esprimere delle certezze di ordine politico: le facce dei personaggi sono smarrite perché non hanno nessuna certezza. Il loro destino è quello di oscillare tra desideri ed esigenze opposte; esprimere una direzione sembra loro un atteggiamento totalitario. Siamo di nuovo all'oscillazione permanente tipica della piccola borghesia.

Peraltro, i compagni di Angèle sono penosi: non hanno più nemmeno la capacità di esprimere dei punti programmatici legati a concreti bisogni, ma solo vaghe rappresentazioni etiche attraverso le quali si intravedono il culto della (propria) libertà individuale, una generica cura dell'ambiente e degli animali e poco altro. In realtà, essi non sono militanti politici impegnati nella trasformazione della realtà per una società più giusta e più umana, ma una sorta di Dame della Carità di San Vincenzo, delle beghine dotate di molta minore robustezza morale.

Robustezza morale che è invece presente in Angèle, ma che è comunque espressione appunto di un'eredità ideologica, esterna all'attualità della lotta di classe.

La scintilla della rivoluzione, della trasformazione pratica dello stato di cose presenti rinascerà solo dall'incontro tra la coscienza della necessità di cambiare e la conoscenza teorica e pratica di come farlo: tra la volontà di liberazione e la tradizione culturale di un marxismo che accetta tutte le sfide della contemporaneità. L'intellettuale è quindi assolutamente necessario, ma va costantemente ricondotto alle condizioni dell'esistenza degli oppressi. Meglio ancora se gli oppressi riuscissero da sé stessi ad appropriarsi dei mezzi culturali adeguati alla propria emancipazione, passando così dall'intellettuale proletarizzato al proletario intellettuale.

01/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Stefano Paterna

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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