Il debito pubblico tra realtà e fandonie

Debito, spread, crisi. Cosa c'è di vero e cosa di inventato. Perché vogliono darcela a bere? Come se ne esce?


Il debito pubblico tra realtà e fandonie

Debito, spread, crisi. Cosa c'è di vero e cosa di inventato. Perché vogliono darcela a bere? Come se ne esce?

 

Fra le tante fandonie che ci vengono somministrate dai media e dalla maggior parte degli economisti in voga, c'è quella secondo cui l'elevato e crescente debito pubblico sarebbe uno dei mali più gravi della nostra economia. Ma se, per evidenti ragioni politiche, le teorie monetariste costituiscono in questa fase storica l'ortodossia, non mancano le opinioni eretiche.
Il debito pubblico si forma in quanto lo stato, per realizzare i propri obiettivi, può avere la necessità di spendere cifre maggiori di quelle che è in grado di incamerare attraverso le proprie entrate, in primo luogo le tasse. In questo modo il bilancio statale va in disavanzo, o deficit. Viene fatto fronte a questo fabbisogno emettendo titoli del debito pubblico (Bot, Cct, Btp). Ogni anno questo deficit si cumula a quello degli anni precedenti, come pure i titoli del debito emessi, al netto di quelli rimborsati alla loro scadenza. Un tempo i titoli potevano essere venduti, oltre che al pubblico tramite i mercati finanziari, alla banca centrale, che poteva ricollocarli attraverso il sistema bancario o emettere moneta per finanziare parte degli acquisti. L'emissione di moneta, se di entità controllata, determinava livelli di inflazione sostenibili e addirittura opportuni per evitare che il sistema economico entrasse in recessione. In questo modo lo stato poteva finanziare politiche economiche idonee a intervenire nei vari campi di competenza, compreso quello sociale, e nel contempo agire in maniera “anticiclica” cioè sostenere, con i propri acquisti e con le retribuzioni dei lavoratori direttamente impiegati, la domanda aggregata nelle fasi in cui essa era in flessione. Tali fasi sono ineliminabili, connaturate al modo di produzione capitalistico, ma anche, entro certi limiti, gestibili attraverso opportune politiche fiscali e monetarie, come ci aveva insegnato in teoria Keynes e come è avvenuto in pratica per circa mezzo secolo.

Con l'affermazione delle politiche della Thatcher in Inghilterra e di Reagan in Usa la politica economica delle maggiori potenze imperialiste ha subito un ribaltamento. Il nuovo feticcio è divenuto il contenimento della spesa sociale (non di quella per gli armamenti, ci mancherebbe!) e delle garanzie in favore dei lavoratori. In questo modo sono state gradualmente riassorbite gran parte delle conquiste del mondo del lavoro innescando processi di pauperizzazione che stanno conducendo alle diffuse sofferenze sociali osservabili pressoché ovunque: disoccupazione, precarietà, servizi essenziali impoveriti e privatizzati, minori garanzie e certezze sul futuro.
In Europa, con il trattato di Maastricht, le cose hanno preso un verso assai più assurdo in quanto i conti delle single nazioni sono stati inchiodati su comuni rapporti deficit/Pil e debito/Pil e tagliati su misura addosso al sistema tedesco, in assenza di comuni politiche fiscali. Se si aggiunge che finora la Bce, a differenza di ogni altra banca centrale, non è intervenuta acquistando direttamente i titoli del debito pubblico, né hanno potuto farlo le banche centrali nazionali, si comprende che per le nazioni meno prospere è divenuta assai difficoltosa la gestione del debito. Si sono così accentuati quegli squilibri tra paesi che già venivano producendosi a causa dell'impossibilità, con la moneta unica, di ricorrere alla svalutazione monetaria per controbilanciare il gap di produttività sfavorevole delle economie meno competitive.

Tali parametri non derivano da esigenze oggettive, ma stati ugualmente giustificati mettendo sul banco degli imputati il debito pubblico. Quante volte abbiamo sentito dire che abbiamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità” provocando così l'allargamento della voragine del debito pubblico e mettendo serie ipoteche sulle possibilità delle generazioni future! Niente di più falso. I dati dettagliati paese per paese che smentiscono quell'affermazione si possono vedere accedendo ai siti www.bea.gov, www.bls.gov e www.federalreserve.gov per gli Usa, mentre per l'Unione europea possono essere consultati i siti dell'Eurostat e della Banca Centrale (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/eurostat e www.ecb.europa.eu).

Da quei dati emerge limpidamente che il debito pubblico e il rapporto debito/Pil in tutti i paesi sono cresciuti proprio dopo la svolta liberista e le conseguenti politiche di austerità. In particolare, in ogni area del mondo, dagli Usa al Giappone, il debito è esploso in conseguenza della crisi generale.
Infatti l'impatto recessivo dei tagli di spesa che deprimono il Pil, e con esso le entrate fiscali, provocano l'aumento dei disavanzi e quindi del debito. Di conseguenza aumenta il numeratore dell'espressione debito/Pil contemporaneamente alla diminuzione del denominatore. Da qui lo
sforamento rilevante nella maggior parte dei paesi Ue.
Ma non è tutto. Il tentativo di compensare la perdita di potere d'acquisto dei lavoratori con il credito al consumo e di usare oltre ogni sostenibilità la leva del credito alle imprese ha determinato, dopo l'inevitabile scoppio della bolla, un gravissimo dissesto del sistema finanziario privato, cui si è fatto fronte con aiuti pubblici in varia forma. Anche in questo caso, come da manuale, si sono privatizzati i profitti e socializzate le perdite, trasformando il debito privato in debito pubblico.
C'è poi la questione dei tassi di interessi sui titoli di stato e del loro differenziale tra paesi (il famoso spread) che hanno costituito un problema. Occorre sfatare un luogo comune secondo cui la misura dello spread è conseguente alle valutazioni degli speculatori sulla sostenibilità del debito dei singoli paesi. La tesi in sostanza è questa. Se uno stato ha un debito difficilmente sostenibile e quindi è a rischio di solvibilità, nel mercato si determina un differenziale dei tassi quale “premio” aggiuntivo a favore di coloro che investono nei titoli maggiormente rischiosi. Depurati delle fantasie, i dati ci dicono invece che l'allargamento degli spread dei tassi sul debito pubblico ha proceduto indipendentemente dall'andamento del debito stesso. E la valutazione dei rischi per i debiti dei paesi PIIGS (Portogallo Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) ha avuto a che vedere di più con la circostanza che la Bce non era autorizzata a sostenere opportunamente le emissioni di titoli. Gli speculatori, in sostanza, hanno scommesso sull'insostenibilità delle regole della finanza pubblica messe in atto nell'Ue. È infatti possibile constatare che importanti nazioni non europee (quali Usa e Giappone) non hanno subito questi attacchi speculativi nonostante livelli di indebitamento assoluto e in rapporto al PIL superiori al nostro. Il Giappone, per esempio, ha un rapporto debito/Pil che si
avvicina al 250 per cento, senza lamentare tassi maggiori di quelli tedeschi. Gli Usa, a fronte di un rapporto debito/Pil paragonabile a quello tedesco, hanno avuto tassi di interesse nettamente inferiori a quello tedesco, eccezion fatta per il periodo 2005-2006. Se osserviamo invece l'Italia, a fronte di un rapporto crescente sì ma a un ritmo inferiore di quello tedesco, ha visto esplodere lo spread in concomitanza con la crisi del 2008, fino a raggiungere nel 2012 la misura che tanto ci aveva allarmato.

Veniamo ora all'ultimo mantra, secondo cui il debito pubblico, attirando verso di sé le risorse finanziarie degli “investitori” (leggasi speculatori), compromette le possibilità di investire nei settori produttivi, e quindi riduce la crescita economica. In questo caso effettivamente i dati statistici evidenziano che il debito e il Pil tendono a muoversi in direzione opposta: più debito = meno crescita. Tuttavia l'esistenza di questa correlazione non significa che sia il debito a determinare la stagnazione. Potrebbe essere vero l'inverso e cioè che laddove l'economia è sofferente, cresce il debito pubblico. Il che è assolutamente in accordo con quanto si è sostenuto in precedenza. E poi, la penuria di investimenti, piuttosto che al debito pubblico, è più credibilmente ascrivibile alla circostanza che aumentare la produzione significherebbe aumentare i prodotti invenduti. Quale imprenditore folle lo farebbe?
Keynes aveva a suo tempo dimostrato che se i capitalisti preferiscono usare i loro profitti per acquistare titoli (pubblici o privati), piuttosto che investirli produttivamente, allora una diminuzione della spesa pubblica fa diminuire il Pil e il numero di occupati, mentre fa crescere il tasso di interesse. In questo modo il rapporto debito/Pil tende ad aumentare. Esattamente il contrario avviene nel caso di un un aumento della spesa pubblica. Lo Stato, quindi, anziché tagliare la spesa dovrebbe attuare delle politiche di promozione degli investimenti (pubblici e privati) nell'economia reale. Ma l'intervento dello stato nell'economia è un tabù.
Naturalmente sia l'entità del debito che quella dei relativi interessi debbono essere tenuti sotto controllo, come pure la misura dell'inflazione. Sarebbe quindi opportuno procedere a una moratoria o almeno a una ristrutturazione del debito, e a una rinegoziazione dei tassi di interesse, insieme alla rivendicazione di un diverso ruolo della Bce.

Visto che invece le cose vanno diversamente, se ne dovrebbe dedurre che gli economisti e i politici che ci governano sono tutti dei fessi? Certamente no. L'egemonia delle teorie e delle politiche liberiste corrisponde agli interessi di fase del grande capitale. I tagli ai salari diretti, indiretti e differiti (salari, servizi e pensioni) hanno contribuito efficacemente a sostenere i profitti che fino agli inizi degli anni 80 erano in forte contrazione. La crescita della disoccupazione ha consentito di ricattare i lavoratori in termini di salari e diritti. Il fallimento delle imprese meno competitive ha permesso di accelerare il processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali. Le privatizzazioni hanno aperto nuovi spazi di sfruttamento del lavoro in settori a bassa composizione del capitale. Il debito è servito eccellentemente come pretesto, anche se è un tema con cui fare i conti. Secondo me la crisi della finanza pubblica può essere considerata come la forma in cui si manifesta, negli attuali assetti economici e di potere, il limite di fondo delle politiche keynesiane.
Solo che, oltre una certa soglia, le politiche liberiste e monetariste divengono controproducenti anche per i capitalisti. Da qui i primi, timidissimi segnali di ripensamento del Tesoro Usa, del Fmi, della Bce e – per buon ultimo – del vacuo Renzi.

 

27/11/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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