Ma il “popolo” ha sempre ragione?

Non è sufficiente affidarci alle opinioni del “popolo” per intraprendere una politica trasformatrice.


Ma il “popolo” ha sempre ragione?

Credo che si debba rispondere in maniera negativa a questa domanda e cercherò di argomentare brevemente le mie ragioni.

Prima di tutto tentiamo di chiarire cos’è il “popolo”, concetto i cui contenuti non sono mai indicati da chi si riempie la bocca di questa parola e che invece bisogna specificare, se non vogliamo proclamare soltanto degli slogan, magari ad effetto ma assai poco incisivi sullo stato delle cose.

Nella tradizione marxista classica il popolo è sempre stato considerato un conglomerato di gruppi sociali assai differenti tra loro (operai, contadini, piccoli borghesi, intellettuali etc.) e talvolta addirittura in contrasto, che tuttavia, in talune occasioni, si è potuto agglutinare ed orientare verso obiettivi unificanti. Ma per essere tali, questi ultimi sono spesso risultati vaghi e non specificati, altrimenti come si potrebbero unire gruppi così disparati, se non con una complessa operazione che individui un decisivo tratto unificante? In questa direzione andava la determinazione di classe.

Non è un caso che il termine “popolo” è ampiamente usato in maniera retorica da uomini politici che hanno idee assai diverse sul come organizzare la vita sociale, o da coloro che si rifiutano di specificare il loro orientamento [1], dichiarandosi estranei sia alla destra che alla sinistra. In effetti, in quest’ultimo caso, quanto mai attuale, il popolo si presenta e viene presentato come un’entità interclassista, che mette insieme i sottomessi, gli scontenti, gli underdog (perdenti), come li chiama Ernesto Laclau, il più celebre teorico del populismo. Anche quest’ultimo ritiene che il popolo abbia alle sue spalle gruppi diversi (lavoratori, disoccupati, donne, omosessuali etc.), portatori di domande insoddisfatte, che vengono raccolte in un insieme senza che una di queste sia determinante e che, per questa ragione, è complicato concretare in maniera dettagliata. A suo parere da questo processo di congiunzione – direi posticcia  scaturirebbe il popolo che si troverebbe immediatamente collocato in posizione antagonistica rispetto ai detentori dell’ordine vigente, i quali non danno risposta alle domande dei sottomessi.

A seguito degli sconvolgimenti dell’ultima fase del Novecento (dissoluzione del socialismo est-europeo, socialdemocratizzazione dei partiti comunisti occidentali, frammentazione dei lavoratori etc.), che hanno spinto molti ad abbandonare le categorie marxiane di formazione economico-sociale, di classe, di ideologia, la nozione di “popolo” è tornata alla ribalta, perché consentiva di mettere insieme i cosiddetti nuovi soggetti, emersi nel 1968 (studenti, donne, omosessuali etc.), e allo stesso tempo evitava il tanto vituperato riduzionismo economicistico. Evitava anche di parlare di socialismo, termine troppo legato alla fallita esperienza sovietica, che veniva sostituito dalla nozione di democrazia radicale [2] animata dal pluralismo delle diverse identità connotate culturalmente. Non è un caso, dunque, che Eric Hobsbawm osservi che la nozione di “identità”, prima sconosciuta negli studi storico-sociali, appare negli anni Sessanta del Novecento, proprio quando si verificano gli sconvolgimenti su indicati e si struttura quello che Ernest Mandel chiama “il tardo capitalismo”.

Anche Gramsci, d’altra parte, era convinto che il “popolo” fosse caratterizzato dall’eterogeneità (tratto proprio anche della sua concezione del mondo: il folclore), ma immaginava che i suoi vari elementi costitutivi potessero compattarsi e costruire un’identità condivisa nell’insieme di tradizioni culturali e di valori, loro retaggio storico. Questo processo avrebbe portato al riscatto sociale e culturale dei subalterni, altro termine usato in senso anti-economicistico e centrale nei cosiddetti Studi culturali.

Tuttavia, la necessità di studiare la cultura popolare nelle sue varie manifestazioni, tanto sentita e praticata dallo studioso italiano, non significava per lui che quest’ultima debba essere accettata in quanto tale. Infatti, sul piano politico essa è debole, perché eterogenea, asistematica, implicita, non coerente a differenza delle concezioni ufficiali del mondo, che presentano caratteristiche opposte alla prima, come per esempio la religione della Chiesa cattolica, che si impone a causa della sua compattezza e sistematicità. I tratti della cultura popolare sono dovuti soprattutto all’assenza di intellettuali, legati ai suoi portatori da un nesso organico, che hanno il compito di rendere coerenti, sistematiche, non contraddittorie le concezioni del mondo delle classi dominanti. Ciò nonostante, Gramsci riteneva che nella cosmovisione popolare, che fa tutt’uno con il senso comune di un certo gruppo, fosse depositata l’esperienza storico-sociale delle classi popolari, dalla quale occorre partire per operare una profonda trasformazione di essa che si concreti nei valori, nei comportamenti, negli orientamenti ispirati dalla filosofia della praxis da adottare nella vita quotidiana. A questo proposito Guido Liguori parla di “rapporto dialettico e maieutico” che bisogna stabilire con il senso comune per renderlo uno strumento efficace nella lotta per la conquista dell’egemonia.

Per esempio, come dimostra il riapparire e consolidarsi di movimenti xenofobi e razzisti, è noto che i lavoratori europei siano convinti che gli immigrati rubino loro il lavoro, che le politiche fiscali ed assistenziali dello Stato li favoriscano. Cosa non del tutto falsa, giacché gli immigrati sono disposti a ricevere infimi compensi pur di lavorare e per questo vengono preferiti ai lavoratori locali. Ma questa è solo una parte della verità; l’altra parte è che l’immigrazione è provocata dalle stesse potenze internazionali con le loro politiche di guerra e di rapina e che essa va a vantaggio delle classi dominanti, le quali riescono così a diminuire progressivamente il costo del lavoro, generando allo stesso tempo povertà e disoccupazione. Ed è proprio questa parte della verità che scaturisce da una visione d’insieme e che va trasmessa ai lavoratori, i quali così comprenderebbero che gli immigrati, perché super-sfruttati, non solo non sono i loro nemici, ma sono addirittura i loro potenziali alleati per riconquistare una vita degna e ripristinare i loro diritti.

Mi rendo conto che qui si tratta di riproporre l’opposizione tra spontaneismo e direzione consapevole, che lo stesso Gramsci sfumava vedendo tra i due termini una relazione di continuità, quando sottolineava che è inimmaginabile un sommovimento rivoluzionario consapevole al cento per cento e compiutamente pianificato. Ma ciò non toglie che gli spontanei sentimenti di ribellione e l’originaria visione delle cose dei subalterni non debbano essere riplasmati e orientati verso obiettivi progressivi e realistici secondo principi che al “popolo” non sempre sono noti, almeno fino a quando non usciranno dal suo proprio seno intellettuali, che fanno dell’analisi sociale e della militanza politica una vocazione e una professione. E questo è già evidente nel Manifesto del 1848 dove Marx ed Engels scrivono che nel processo rivoluzionario una parte degli ideologi borghesi si è unita al proletariato e a differenza di quest’ultimo – è giunta a “conoscere il tutto del movimento storico”.

A queste considerazioni contenute nel Manifesto possiamo aggiungere un brano del Che fare? di Lenin: “La storia di tutti i paesi attesta che con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercare di ottenere dal governo determinate leggi necessarie agli operai etc. La dottrina del socialismo, invece, è cresciuta dalle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”.

Naturalmente con queste citazioni finali non si intende proporre una relazione di totale subordinazione dei lavoratori agli intellettuali o ai quadri del partito, che ha prodotto il conformismo e l’annichilimento dello spirito critico, quanto invece una relazione dialettica, in cui i primi apportino il vigore della loro esperienza storica e le elaborazioni della loro coscienza.

Note

[1] Dato il basso livello raggiunto dal dibattito politico, probabilmente da loro stessi ignorato.

[2] Come è noto, ampio è il dibattito sul termine “democrazia” accompagnata talvolta da aggettivi assai diversi (liberale, partecipativa, cristiana). Come ricorda Noam Chomsky, il celebrato esempio di democrazia (quella statunitense) costituisce di fatto il governo di una minoranza di benestanti, tra i quali alle scadenze elettorali la maggioranza dei non possidenti può tuttalpiù operare una scelta.

05/05/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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