Scuola: le ragioni di una sconfitta storica

La necessità di elaborare le ragioni di una sconfitta e ritrovare le motivazioni di una lotta


Scuola: le ragioni di una sconfitta storica

Rielaborare la sconfitta, ricostruire in modo critico e auto-critico le ragioni della nostra attuale condizione di debolezza e vulnerabilità, è una conditio sine qua non per la ripresa del movimento in difesa di una istruzione democratica, critica, gratuita e di qualità. Senza dimenticare che le lotte del passato hanno comunque pagato, è indispensabile comprendere i motivi del loro relativo insuccesso.

di Renato Caputo

È sempre indispensabile coniugare al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà.  Senza una sana dose di spirito dell’utopia e di principio speranza si finisce inevitabilmente di essere preda della tenebra del quotidiano.  Del resto il principale motore della storia – fino a quando le società saranno ancora divise in classi sociali, con interessi necessariamente contrapposti – resta il polemos, essenzialmente nella forma del conflitto sociale.  Da questo punto di vista è evidente che solo la lotta paga e che l’unica battaglia realmente, compiutamente persa è quella che non si è combattuta, in quanto si lascia il campo libero all’offensiva dell’avversario e, come è noto, il coltello non può che affondare fino a quando incontra il burro.

Perciò il grandissimo sforzo di mobilitazione fatto l’anno scorso da un’avanguardia – che ha portato a scendere in campo almeno in un’occasione l’intera categoria, e più volte un numero cospicuo di lavoratori, costringendo le stesse organizzazioni sindacali a mettere per un momento da parte le solite diatribe fratricide – ha prodotto degli indubbi successi.  Alcuni aspetti particolarmente reazionari della controriforma architettata dal governo sono stati bloccati: dalla cancellazione degli scatti di anzianità, all’eliminazione delle graduatorie dei precari, alla cancellazione dell’ultimo anno delle scuole superiori, che avrebbe comportato una perdita enorme dei posti di lavoro e una netta dequalificazione dell’offerta formativa.

Si aggiunga a ciò che sui punti più pericolosi della controriforma, che non è stato possibile rimandare al mittente – la valutazione arbitraria da parte del solo dirigente e la chiamata diretta egualmente arbitraria, che significherebbero la riaffermazione di un modello totalitario di scuola, in cui non solo la democrazia degli organi collegiali, ma la stessa divisione dei poteri sarebbe cancellata – la partita è ancora aperta.  Anche in questo caso decisiva sarà la mobilitazione che si sarà in grado di mettere in campo nei singoli posti di lavoro e più in generale rimettendo in piedi un dignitoso movimento, in primo luogo, dei lavoratori della scuola.

D’altra parte, come dimostra lo stato comatoso della sinistra, che non è stata in grado di rielaborare la sconfitta storica subita alla fine del secolo breve, è necessaria una riflessione realisticamente spietata sui motivi e gli errori che hanno portato all’attuale dequalificazione della scuola statale italiana passata, in appena venti anni, da essere fra le migliori nei paesi a capitalismo avanzato a languire nella parte bassa della classifica.  Senza tale presa di coscienza la tragedia dell’istruzione pubblica italiana rimarrà priva di catarsi e rischierà di ripetersi nella forma di farsa.  In effetti l’intera storia dell’emancipazione del genere umano e nello specifico la realizzazione di una scuola pubblica di qualità – che non sono affatto diritti di natura, dal momento che tali diritti purtroppo non esistono – è costellata di errori, visto che si tratta di un percorso inedito, necessariamente contorto e accidentato.  In tale percorso, al solito, non si può che imparare sbagliando, ossia facendo tesoro degli errori del passato per evitare di ripeterli e non essere in grado di fare un ulteriore passo avanti, anzi dovendo, come troppo spesso è capitato negli ultimi anni, essere costretti a tornare sui propri passi, perdendo di nuovo quelli spazi di democrazia che si erano, con tanta fatica ottenuti.

Anche in questo caso le cause che hanno portato all’attuale dequalificazione della scuola statale sono da ricercare nel breve, ma altresì nel medio e lungo periodo. Per quanto concerne queste ultime, dalle quali conviene sempre partire, esse hanno sempre un aspetto oggettivo, necessario – da ricercare sul piano delle strutture economiche e sociali – e un piano soggettivo: politico e culturale.  Il primo può essere riassunto con la nota formula gramsciana per cui il vecchio, il modo di produzione capitalistico sempre più in crisi, non muore, in quanto vi sono significative misure volte a contrastare la caduta del saggio di profitto, e si sviluppano forme anche inedite di capitalismo in paesi ex coloniali, in primis in Cina.  Al contempo però, il nuovo, ossia un modo di produzione che, come il socialistico, sia in grado di risolvere le contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalista, non riesce ancora a farsi spazio, come dimostrano da ultimo i pur generosi tentativi di costruire un socialismo del XXI secolo, a partire dall’America latina.  In tale interregno, senza contare che la crisi non trovando soluzioni possa precipitare l’umanità in una nuova epoca di barbarie, «si verificano i fenomeni morbosi più svariati», che possono essere riassunti nella forma del bonapartismo, di un cesarismo regressivo, genere di cui i fascismi costituiscono una specie.  Ora è evidente come tali tendenze bonapartiste si stanno progressivamente affermando nel nostro Stato, nella società civile e negli stessi luoghi atti alla formazione. 

Dunque, dal punto di vista strutturale le attuali difficoltà dipendono dal costante aumento dell’esercito industriale di riserva sul piano dell’attuale mercato mondiale, dovuto alla crisi di sovrapproduzione da una parte, e allo sviluppo in senso capitalistico di paese come la Cina, con centinaia di migliaia di lavoratori che annualmente abbandonano le campagne per riversarsi in città, portando con sé come unica proprietà la propria forza lavoro.  Ciò non può che indebolire le capacità dei lavoratori di difendere i livelli di occupazione e di conseguenza le condizioni di lavoro e il salario nella sua forma diretta (busta paga), indiretta (il sedicente Stato sociale) e differita (le pensioni).

Dal punto di vista soggettivo l’affermarsi nelle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori delle illusioni positiviste e socialdemocratiche di uno sviluppo senza fine dell’attale modo di produzione – che avrebbe consentito la redistribuzione di quote sempre maggiori di extra-profitti e di diritti sociali – ha portato a un loro progressivo declino negli anni della crisi, in cui i ristretti margini di profitto e i mutati rapporti di forza fra le classi sociali hanno ridotto al massimo le concessioni che era possibile strappare alla classe dominante con una politica tradeunionista.

Nel medio periodo ciò ha portato, nel nostro paese, alla progressiva crisi in termini qualitativi e quantitativi delle organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori e alla quasi completa scomparsa delle organizzazioni consiliari.  Oggi, per quanto abbiano fatto sempre più ampie concessioni all’ideologia dominante, assumendo posizioni revisioniste, le organizzazioni politiche dei lavoratori non riescono a eleggere nemmeno un proprio rappresentante in parlamento, anche a causa delle leggi elettorali sempre più anti-democratiche che non si sono riuscite a contrastare adeguatamente.  Il fronte sindacale è quanto mai diviso e frammentato; abbiamo da una parte i sindacati maggiormente rappresentativi al cui interno prevalgono sempre più le posizioni tendenti a fare del sindacato non uno strumento decisivo del conflitto sociale, ma un erogatore di servizi.  Dall’altra si affermano le tendenze anarcoidi a creare sindacati miranti a organizzare le sole avanguardie, per altro sempre più sparute, e sempre più ridotte a posizioni avventuriste o opportuniste di sinistra, non essendo in grado di egemonizzare la maggioranza dei lavoratori, che finiscono per essere considerate necessariamente preda delle burocrazie sindacali

Così, per arrivare alle cause di breve termine dell’attuale battuta di arresto del movimento della scuola, bisogna partire dalla debolezza delle strutture consiliari residue, che se hanno avuto insieme alla protervia ideologica del governo un ruolo decisivo nell’innescare la protesta, non sono state in nessun modo in grado di guidarla e radicalizzarla come la portata dello scontro avrebbe richiesto.  In secondo luogo è emersa tutta la debolezza delle organizzazioni politiche dei lavoratori che non sono state in grado di dare uno sbocco politico alla protesta.  In terzo luogo è apparsa tutta l’incapacità delle organizzazioni sindacali di allargare, in un momento decisivo per la tenuta di un governo che stava portando un attacco durissimo al mondo del lavoro, la mobilitazione ad altri settori, operando in funzione di un autunno caldo

A ulteriore dimostrazione che lo spontaneismo senza direzione consapevole non è in grado nemmeno di arrestare la controffensiva dell’avversario di classe, in mancanza di indicazioni e prospettive di lotta significative e credibili delle organizzazioni sindacali e politiche, il movimento si è andato progressivamente spegnendo, nonostante singole significative fiammate qui e lì.  Il rischio è che la delusione, l’errata e opportunistica considerazione che la lotta non serve a nulla – che l’avversario è troppo grande e potente e, quindi, è meglio scendere a patti con esso – sta portando a una progressiva resa, visto che ogni trattativa è necessariamente condizionata dai rapporti di forza nel conflitto sociale e in una fase di riflusso è possibile ottenere ben poco sul tavolo delle trattative.

Ciò rischia di favorire una delle cause decisive dell’attuale sconfitta, inerente al piano del conflitto a livello delle sovrastrutture fra forze del progresso, della conservazione e della reazione.  Nella decisiva lotta per l’egemonia le forze progressiste rischiano di subire una ulteriore sconfitta, che avrà ulteriori conseguenze catastrofiche sul piano della struttura, se continuerà a seguire la logica riformista della riduzione del danno, che sacrifica del tutto alla salvaguardia dell’esistente lo spirito dell’utopia e con esso lo stesso principio speranza

Dinanzi alla pericolosa offensiva eversiva delle forze della reazione, che sulla base del piano P2, seguendo una logica bonapartista, mirano a restringere sempre più gli stessi spazi di democrazia rappresentativa, c’è il rischio che le forze progressiste abdichino alla loro indispensabile missione storica di affermare in primo luogo a livello delle coscienze che un altro modo di produzione non solo è possibile, ma anche necessario.  La logica puramente resistenziale che si sta affermando, complici gli attuali rapporti di forza sfavorevoli a livello nazionale e internazionale, favoriscono una pericolosa convergenza verso il centro, alla ricerca di un fronte unico con le forze conservatrici, che considerano l’unica vera democrazia quella formale e rappresentativa

Se è evidente che la lotta sul piano delle sovrastrutture si vince solo nella misura in cui si è in grado di conquistare alla propria causa la maggioranza dei ceti sociali e delle posizioni intermedie, è risolutiva la questione della lotta per l’egemonia all’interno del blocco sociale.  In altri termini, nel nostro caso, è indispensabile comprendere se saranno egemoni le forze che si limitano alla mera difesa dell’esistente, di quanto resta della democrazia rappresentativa e formale, in un’ottica puramente conservatrice, o se a prevalere sono le forze progressiste, che intendono resistere all’assalto delle forze della reazione per rilanciare una concezione radicalmente diversa di democrazia, che affianchi ai diritti formali, i diritti sociali ed economici, e affianchi al principio rappresentativo quello della partecipazione diretta.  Da questo punto di vista decisiva diverrà la prospettiva che prevarrà nella delicatissima battaglia referendaria, se essa sarà intesa come strumento per rilanciare il movimento e il conflitto sociale, o se contribuirà alla passivizzazione dei lavoratori all’interno di una logica elettoralistica.

17/03/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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