«La verità è che nun c’avete niente da dì»

Una nuova puntata di Grand Hotel sull’abisso: Birdman un film-saggio di “secentismo programmatico” e di compiaciuta indifferenza verso la tragedia storica in cui stiamo precipitando.


«La verità è che nun c’avete niente da dì»

 

Una nuova puntata di Grand Hotel sull’abisso: Birdman un film-saggio di “secentismo programmatico” e di compiaciuta indifferenza verso la tragedia storica in cui stiamo precipitando.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda 

Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza), del regista messicano Alejandro González Iñárritu, forte delle sue 9 nominations all’Oscar tra cui quella per la regia (Iñárritu è il primo regista messicano che riceve una nomination agli Oscar) è un film che viene già considerato da più parti un capolavoro ed è proprio questo il principale motivo di riflessione che ha suscitato in noi questa pellicola. Al nostro sguardo necessariamente partigiano, infatti, il film è apparso piuttosto, per dirla subito fuori dai denti: un’inutile corsa della macchina da presa alla ricerca dell’applauso di una critica compiacente; un film furbetto, tanto pretenzioso quanto noioso e banale, che dà da pensare unicamente a quanto è pervasiva l’egemonia del pensiero unico che osanna un regista e un film solo in quanto fanno da cassa di risonanza alla a-sociale ideologia dominante. 

La trama: un attore avanti con gli anni (Michael Keaton), diventato celebre per aver interpretato un supereroe alato in un blockbuster, cerca di sopravvivere al proprio personaggio cercando di non rimanere soltanto una celebrità, ma divenendo un artista. Decide, così, di mettere in scena in un famoso teatro di Broadway il racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Da notare che la scelta di Michael Keaton nel ruolo del protagonista, l’attore Riggan Thompson, non è casuale, visto che lo stesso Keaton negli anni novanta aveva interpretato Batman nel film di Tim Burton. La macchina da presa di Iñárritu segue Keaton-Thompson dappertutto: nel camerino, sul palcoscenico, nei corridoi del teatro e nelle poche incursioni all’esterno e in questo flusso continuo di piani sequenza viene presentato il mondo reale e quello immaginario dell’attore. Nell’ardua impresa di mettere in scena Carver, l’attore che diventa anche regista è accompagnato dalla figlia (Emma Stone), appena disintossicata che gli fa da assistente, e dalla compagnia teatrale costituita dalla sua giovane amante, da un’attrice che farebbe di tutto per calcare la scena in un teatro di Brodway (Naomi Watts) e da suo marito (Edward Norton), un attore estremamente egocentrico con un caratteraccio, più il produttore. Fra tutti questi personaggi non ve ne è uno solo interessante, tipico, portatore di una visione anche solo un minimo critica. L’assurdità del mondo dello spettacolo messa in scena da Iñárritu vorrebbe essere più in generale una metafora dell’assurdità dell’esistenza, di cui il regista e i suoi compiacenti critici hanno disperato bisogno per potersi liberare da qualsiasi dovere storico e sociale, da qualsiasi responsabilità di fronte alla tragedia di un’epoca storica in cui, per dirla con Gramsci, «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» e, così, «in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» [1]. 

Nel film manca un qualsiasi effetto di straniamento che consenta di guardare con uno sguardo critico, dall’esterno, il mondo depravato messo in scena. Resta così unicamente la totale mancanza di sostanzialità, l’assoluta accidentalità del frammento di realtà rappresentato da Iñárritu, che provoca inevitabilmente nello spettatore la voglia di andarsene o di dormire. Tanto che alla fine, chi non ama fare lo snob, finisce per domandarsi se a questo punto non abbia più senso andare a vedersi un blockbuster ossia, per dirla con Brecht, un opera programmaticamente “culinaria” e senza pretese intellettualistiche. 

«La verità, è che nun c’avete niente da dì», diceva il Marchese del Grillo agli artisti della Roma decadente e papalina, contrapponendoli a quelli della Francia rivoluzionaria. Si trattava appunto di pseudo artisti che lamentavano lo scarso interesse per l’arte, senza rendersi conto che tale scarsa considerazione era proprio causa delle loro opere, tutte intrise del manierismo dominante dell’arcadia e assolutamente incapaci di fare i conti e provare a far comprendere una realtà che, non considerata criticamente dagli intellettuali, continua inesorabilmente a putrefarsi. Analogamente il regista di Birdman, Iñárritu, non fa altro che, per dirla con Gramsci «“guardarsi la lingua” nel parlare», non fa altro che dimostrare le sue abilità formalistiche facendo continuamente l’occhietto a una critica snob e compiacente. Per dirla ancora con Gramsci si tratta di un ottimo esempio di «secentismo programmatico» [2], ossia di un’opera che evade dalle contraddizioni del reale in un formalismo manieristico che può esaltare solo quelli intellettuali di regime, quei mandarini che Brecht chiamava Tui. 

A parte i giochi con la macchina da presa (ma i piani sequenza non sono una cosa nuova nel cinema), nel film c’è poco o niente: la sceneggiatura, ad esempio, è povera e banale, i dialoghi provano a stupire con qualche fioritura un po’ volgare e il contenuto è decisamente mediocre. I temi che vengono toccati sono triti e ritriti (il divismo, i social network, i critici che criticano troppo); insomma il film sembra un’inutile corsa della macchina da presa, che non ha niente di interessante da riprendere in realtà.
Eppure se il regista invece di cercare il successo negli Stati Uniti e fra la critica borghese formalista avesse posto le sue capacità al servizio della necessità impellente di rappresentare criticamente la tremenda tragedia storica che sta vivendo il suo paese, il Messico, di cose da dire ne avrebbe avute a iosa. La realtà a cui ha cinicamente voltato le spalle è fatta di poliziotti che rapiscono gli studenti che protestano per consegnarli alle bande di narcotrafficanti che ormai dominano nel paese, che li seviziano, prima di bruciarli in una discarica [3]. Oppure, per citare ancora un solo esempio, si tratta della tragica realtà del femminicidio di Ciudad Juarez, con centinaia e centinaia di giovani proletarie ultra sfruttate e poi rapite per essere torturate sessualmente sino alla morte, con l’evidente complicità dell’autorità [4]. 

Del resto il regista, sin dalla sua giovanile partecipazione al film collettivo 11 settembre 2001, ha sempre dimostrato un cinico disprezzo per le tragedie storiche e sociali del proprio tempo, tanto da limitarsi in quel caso a sfruttare estetizzandola la tragica fine di chi stava precipitando dalle Twin Towers. In altri termini il cinema di Iñárritu rifiuta la storia nella sua contraddittorietà, anzi rifiuta la realtà stessa in ogni sua forma alla quale contrappone l’estetizzazione del nulla, del proprio vuoto esistenziale che proietta inesorabilmente sui propri personaggi. Il fascino snobistico che promana dall’opera di Iñárritu è ulteriormente accresciuto dal fatto che lo spiccato aristocratismo della sua produzione cinematografica innalza i suoi critici compiacenti, «nella loro immaginazione, di gran lunga al di sopra di quella plebe miserabile che è così ottusa da lottare e soffrire per il miglioramento delle condizioni sociali» [5]. Il richiamo alla Distruzione della ragione di Lukács ci consente di comprendere meglio l’arcano delle lodi assolutamente acritiche con cui questo film è stato accolto: sia in Italia che oltreoceano le recensioni su questo film sono estremamente positive [6]: si va dalle lodi sperticate all’interpretazione di Michael Keaton (che fa sicuramente una buona performance) a quelle per il regista (che, per carità, ci sa fare con la macchina da presa) e alla sceneggiatura (qui non se ne comprende davvero il motivo) e ci si spinge fino a etichettarlo come capolavoro, miglior film dell’anno, film che farà parlare per molti anni, ecc. Certo Birdman è sapientemente architettato dal punto di vista formale, con un certo ingegno e un senso della composizione fin troppo esibito, ciò non toglie che quest’opera si erga, per dirla ancora con Lukács, «come un elegante e moderno hôtel, fornito di ogni comodità, sull’orlo dell’abisso, del nulla e dell’assurdità. E la vista [...] dell’abisso, fra piacevoli festini e produzioni artistiche, non può che accrescere il gusto di questo confort raffinato» [5]. 

Dunque, in conclusione, Iñárritu è indubbiamente abile nel comprendere quali possono essere gli “effetti speciali” di sicura presa su una critica decisamente post-moderna, che si compiace nel suo trito formalismo della pochezza dei contenuti rappresentati. Ciò non significa che il film abbia realmente presa su di un pubblico che, per quanto anestetizzato e, quindi, facilmente ammaliabile e artatamente bombardato dai mass-media, crediamo esca generalmente deluso dalla sala. La morale pare dunque essere che più un film ha poche idee ma confuse, più appare a certa critica da non perdere: segno dei tempi, evidentemente. Un’epoca di restaurazione in cui l’ostentato nichilismo come prospettiva, «il pessimismo come orizzonte di vita, [...], non può affatto impedire, e nemmeno rendere difficile all’individuo», il regista e i suo critici nel nostro caso, «una condotta di vita piacevole e contemplativa.
Anzi, l’abisso del nulla, il tetro sfondo dell’assurdità dell’esistenza, non fanno che aggiungere un fascino piccante a questo godimento della vita» [5]. Altrettanto segno di questa triste epoca di decadenza ci appare chi oggi usurpa il nome di critico, in quanto nel suo opportunismo conformista non si dimostra più in grado di scegliere, di giudicare, non appare capace di interrogarsi, di mettersi in discussione nell’esperienza estetica, ma dimostra solo interesse a conformarsi alla mancanza di gusto dominante. 

Note:

[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, p. 311. 

[2] Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori riuniti, Roma, p. 573. 

[3] Cfr., ad esempio, http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_08/studenti-scomparsi-confessano- tre-sicari-uccisi-bruciati-vivi-77e12884-66d5-11e4-a5a4-2fa60354234f.shtml 

[4] Cfr., ad esempio, http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=00552 

[5] György Lukács, La distruzione della ragione [1954], trad. it. di E. Arnaud, Torino, Einaudi, 1959, rist., Milano, Mimesis, 2011, pp. 247-48. 

[6] Per le recensioni cfr. http://www.cineblog.it/post/483452/birdman-le-recensioni-dagli-usa-e- dallitalia 

12/02/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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