Recensione a Il fuoco nero. Storia della banda neonazi Ludwig di Alessandra Coppola (Torino, Einaudi, 2025)

La scia di sangue che accompagna le vicende italiane dal fatidico e miliare 1969 porta l’impronta militante del gregariato neo-fascista, storicamente disponibile a fungere da cane da guardia del privilegio, in una gamma caleidoscopica e patologica di figure di rilievo connesse e funzionali agli equilibri di sistema, così come di comparse incolori e fugaci, dedite alla manovalanza del terrore. Tutte comunque organiche ai progetti di stravolgimento dell’ordine democratico e portatrici di una feroce carica di violenza eversiva.


Recensione a Il fuoco nero. Storia della banda neonazi Ludwig di Alessandra Coppola (Torino, Einaudi, 2025)

La storia italiana che trascorre dagli anni Sessanta fino alla soglia dei Novanta è originalmente segnata da episodi ed eventi ad alto tasso di cruenza ed efferatezza, che hanno visto la partecipazione diretta e militante di una folta costellazione di esponenti e militanti dell’estrema destra, tutti più o meno prossimi alla formazione neo-fascista classica del secondo dopoguerra (il Movimento Sociale Italiano, erede della Repubblica omonima) e tutti titolari di un ambiguo, nervoso e intermittente rapporto di internità-esternità con il partito, guidato dapprima da Arturo Michelini, poi da Giorgio Almirante. I casi dei gruppi di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale [1] sono dal punto di vista degli organigrammi esemplarmente rappresentativi di una relazione opaca ma vivacemente biunivoca, fatta di critiche e contrasti politici, certamente di una patente e torbida contiguità, ma anche, e forse soprattutto, di un obbligato gioco delle parti tattico, orientato a sviare e disorientare l’opinione pubblica e il variegato fronte avversario e ad affrontare darwinianamente la complessa temperie repubblicana, nell’ottica di un “ritorneremo”, che segna in profondità l’animus del neo-fascismo italiano (e le cui tracce sono perfettamente individuabili nei lapsus e nelle gaffe degli esponenti odierni di Fratelli d’Italia). 

Al di là, tuttavia, delle dinamiche “d’area”, tese e spesso lacerate tra banali istanze di sopravvivenza e concreta messa in campo di un volitivo protagonismo politico, non c’è dubbio che la galassia “nera” abbia svolto un ruolo tutt’altro che marginale nelle vicende che accompagnano la ricostruzione e la stabilizzazione della “democrazia difficile” (nelle parole di Aldo Moro), sviluppando un diversificato arsenale che andava dal piatto e strumentale appoggio ai governi democristiani e dalla pratica del piccolo cabotaggio parlamentare, passando per una ricca panoplia di violenze diffuse, fino a una febbrile attività stragista volta al cambiamento cruento di scenario istituzionale. Le cronache giudiziarie e la memoria pubblica di quella stagione storico-politica risuonano e ridondano del pesante interventismo neo-fascista, per lo più palesemente eterodiretto ma di suo orientato a inserirsi in un gioco che in qualche modo lo vedesse tornare al centro della scena in chiave di efficacia reazionaria (sia pur classicamente ammantato di declamazioni e posture anti-conformistiche e “sovversive”). E l’atlantismo, nonostante i vecchi ma volatili rancori post-bellici, pragmaticamente abbracciato in funzione anti-comunista e anti-sovietica, ha in questo senso costituito la leva e lo spazio di un abile e camaleontica congiunzione tra le due fasi storiche dell’identificazione politico-ideologica della destra italica. Alla fine, il neo-fascismo, che pure non ha mai smesso di identificare una sia pur minoritaria ma risentita e combattiva porzione di società italiana, nei suoi richiami nostalgici e crudamente involutivi, ha saputo re-inserirsi nella dialettica politica della Penisola, fino a conseguire l’incredulo, ambito traguardo della massima carica politica di governo; e poco conta che a favorirne l’ascesa sia stata l’insipienza di ambienti e figure che, a tutta prima, vi si sarebbero detti e proclamati estranei, se non antagonistici. 

Al di là del suo successo corrente e contingente, tuttavia, va tenuto fermo che il bilancio storico della sua eredità, come il suo background di lungo periodo pesantemente risentono di una traiettoria che ne descrive fedelmente lo specifico “umanesimo” e la caratura violentemente totalitaria, la spregiudicatezza operativo e la patologica indifferenza nichilistica al dolore di vittime innocenti: gli ingredienti, che sostanziarono la sequenza di atti efferati realizzati a partire dalla catena di attentati del fatidico 1969 (anche precedenti quello di Piazza Fontana). E che furono solo l'abbrivio di una lunga fase di eccidi concepiti secondo la tecnica del colpire nel mucchio, al fine di creare terrore per generare una domanda “d’ordine”, con lo sguardo rivolto soprattutto ai ceti medi, al tempo ventre molle della società italiana. Nei cosiddetti anni di piombo, la violenza fascista si dispiegò assai spesso in forma molecolare e individualizzata, da “cani sciolti”, e quando non direttamente e consapevolmente legata all’eterodirezione delle centrali occulte della de-stabilizzazione (atlantica o nostrana), seguì canali e traiettorie imprevedibili e a loro modo creative - tutte comunque attingenti a un (rivendicato) humus esistenziale originale e inattuale, in un intreccio di valori e rimandi culturali, che rivendicavano una loro orgogliosa irriducibilità al mondo moderno (in primo luogo, ovviamente, nelle sue derivazioni dall’89 francese) – certo non sempre in modo ferreamente argomentato e argomentante.

Come quello degli strampalati Marco Furlan e Wolfgang Abel [2], comparse irregolari del “paradigma veronese” (p. 75), fulminante locuzione con la quale Alessandra Coppola, vice caporedattore del Corriere della sera, icasticamente riassume tutto un milieu storico-geografico, una torbida e densa casella politica, che fece più volte risuonare sinistramente la cronaca del tempo e diede un contributo centrale alle strategie eversive e golpiste messe in opera nel nostro Paese. La “città nera … tradizionalista e nera” [3], infatti, non solo vantava illustri precedenti e primati ai tempi pionieristici della fondazione del movimento, ma avrebbe dato addirittura il nome all’omonimo Manifesto, che inaugurava la triste stagione politico-programmatica della Repubblichina mussoliniana [4]. Per non dire del processo a Ciano e ai “congiurati” del 25 luglio e della scelta,"input … o … imposizione che viene da Berlino>> (p. 46) che ne fa la sede della polizia tedesca e del Ministero delle comunicazioni del governo di Salò. E dopo la Liberazione, collettore carsico di “rivoli sotterranei che a partire dalla fine degli anni irrigheranno la strategia della tensione” (p. 47). 

Ma anche città con un posto in prima fila, nella divisione del mondo tra Est e Ovest, ospitante gli organismi dello Ftase (Comando delle forze terrestri dell’Alleanza per il Sud Europa, attivo dal 1951 fino al 2004), ove si predisponevano piani e accumulavano risorse per fronteggiare l’invasione del nord-est da parte delle forze del Patto di Varsavia; dal territorio bucherellato e punteggiato da dispositivi e luoghi tecnici d’informazione e bunker sotterranei “per riparare uomini e armi e garantire la comunicazione”, in un sistema coordinato che rappresentava “l’unica struttura in Italia da cui … potesse … essere condotto un conflitto” (p. 33). E ancora “cortile di casa”, la linea da tenere a tutti i costi nell’ipotesi di un’aggressione russa, base elettiva e deposito d’esplosivi dei Nasco, gli arsenali segreti di Gladio, da quelle parti copiosamente custoditi e da lì prelevati, “per alcune delle stragi degli anni della tensione: dalle azioni minori, dimostrative, fino agli eccidi”. Senza escludere, dice Coppola, “che alcune scelte strategiche devastanti siano state assecondate, forse addirittura dettate, nel segreto delle stanze veronesi” (p. 34), non lontano da dove operava il maggiore Amos Spiazzi, membro dell’organizzazione golpista Rosa dei Venti, scoperta dalla magistratura alla fine del 1973 [5]. Last but not least, Verona, terminale, centro d’irradiazione, crocevia e leggendaria piazza di spaccio di un gigantesco traffico d’eroina, la “Bangkok in riva all’Adige”, che alimenta non peregrine convinzioni secondo le quali “a introdurre l’eroina a Verona siano stati gli americani” (pp. 34-38) con la medesima ferrea logica che ispira la cosiddetta operazione Blue Moon [6], finalizzata a spostare, anestetizzandoli, il conflitto e la protesta sociale di quegli anni verso i lidi dell’inerzia e del disimpegno. Insomma, Verona sentina esemplare e concentrato delle nefandezze italiche di quegli anni (e non solo…), allo stesso tempo specchio e laboratorio di una vigorosa ristrutturazione per linee interne del potere borghese-capitalistico nostrano, destinata a conservare saldamente il Paese da questa parte della Cortina di ferro, con le buone – più spesso con le cattive. 

In questo autentico verminaio e fertile terreno di coltura di umori reazionari e ultra-atlantisti, prende avvio la vicenda dei due giovani neofascisti, nerbo dell’organizzazione denominata “Ludwig”, che si inserisce originalmente nell’impressionante successione di episodi criminali, che ha per protagonista l’agguerrito microcosmo delle formazioni d’estrema destra.

Due – si diceva – cani sciolti, rappresentativi di una delle tante nuance di una caleidoscopica gamma di formazioni e sensibilità attingenti a un “fondo” ideologico riconoscibile, in perenne oscillazione tra richiamo al fascismo come “dittatura reazionaria di massa” e statualità totalitaria, anti-popolare e de-emancipatoria - e fascismo come consolatorio spazio visionario di uno statuto antropologico elitario ed esclusivista, ispirato e mistico, superomistico e aristocratico, che da sempre prova a sormontare e riscattare la proverbiale rozzezza, il mal digerito complesso d’inferiorità culturale e la tradizione di violenza, con sussiegose fumisterie filosofeggianti e fascinose suggestioni esoteriche [7]. Donde il richiamo compiaciuto a Julius Evola, a René Guenon [8], a quell’apparato concettuale affettatamente misterioso e semi-clandestino, che ha aggirato lo stigma succeduto alla Seconda guerra mondiale, rifugiandosi nell’evocazione di tenebrose dimensioni di senso, attinte solo da un ristrettissimo e selettivo gruppo di iniziati, per definizione estranei a triviali commistioni popolari o democratiche. Il cui profilo morale, naturalmente, non risponde ai canoni invalsi nell’Occidente tout-court, per così dire giudaico-cristiani (pur alla fine rivelandosi banalmente ultra-conservatore), ma attinge, in una rimasticatura ad hoc di un Nietzsche da bancarella, alla spregiudicatezza di gruppi ristretti elettivamente sollevati da qualsivoglia vincolo etico convenzionale e liberi di operare secondo una logica “altra”. Soprattutto, in eroica e minoritaria tenzone suprematista contro la volgarità dei fenomeni degenerativi di una società in putrefazione, quali le retoriche egualitarie produttive di appiattimento democratico e massificazione, lo stravolgimento di costumi tradizionali pensati come assoluti, la messa in discussione dei ruoli sociali e di genere, il multiculturalismo e la libertà sessuale intesa come deroga alle rigide canoniche riproduttive del passato [9]. Infine, naturalmente, il comunismo, inteso come epitome materialistica e compendio del precipizio dissolutivo della modernità. 

E pertanto, autorizzati a ogni scelleratezza, in forma di “crociata”, pur di restaurare una “sana” moralità inscritta nella tradizione, che restituisse la misura di verità atemporali, ordinate in una sfera di valori gerarchici imprescrittibili e da imporre con gli strumenti della più intransigente risolutezza contro tutte le forme della “subumanità”. In questo ambito si situarono le azioni di raggelata rappresaglia dei “due adolescenti bellini ma insipidi, sportivi, colti” (p. 76) di Ludwig, una serie di spietati omicidi a sfondo rituale e simbolico (non a caso e per lo più ricorrendo al fuoco), che presero sadicamente di mira soggetti indifesi o del tutto ignari di poter rappresentare bersagli di un odio ideologico di tal fatta, comunque fragili. Come gli sprovveduti spettatori del cinema a luci rosse di viale Monza a Milano (luogo di esercizio di una sessualità... depravata), cui i due serial killer neonazisti (p. 3) appiccarono il fuoco nel maggio 1983, causandone la fine atroce, con tanto di rivendicazione sigillata dall’immancabile “Got mit Uns”. O il rogo, puntualmente e meticolosamente rivendicato, che alle 4 del mattino nell’estate del 1977 consumava la vita di Guerrino Spinelli, nomade che viveva d’elemosina, alloggiato in macchina con la moglie. O, ancora, appena pescando nell’essenziale, l’omicidio a martellate, nel febbraio 1983, a Trento, del religioso don Armando Bison, Rettore dell’istituto che accoglieva “i preti che hanno smarrito la vocazione e deviato nella fede” (p. 44). Significativa dell’atmosfera mentale che ispirava i due rampolli della “stessa semina neonazista occulta, germogliata a Verona” (p. 70), frammento solipsistico della “serie B dei ‘gruppuscoli a latere’” (p. 83) della galassia neo-fascista, la sigla scelta, e orgogliosamente ostentata, che l’Autrice collega assai verosimilmente all’aura retorica del Ludwig viscontiano, centrata sulla figura esemplare e paradigmatica dell’ariano Helmut Berger (fatta naturalmente la tara ad hoc delle tendenze sessuali dell’attore); ma organica anche per ragioni “estetiche” alla figura stessa del sovrano bavarese che alla fine dell’Ottocento incarnò l’inattualità di un culto aristocratico e senza tempo di una bellezza interpretata wagnerianamente come mito palingenetico, elitario e megalomanico, sovranamente indifferente alla congiuntura e alla prosa politica, soprattutto quando attenta alle ragioni delle masse. Ingredienti eccentrici e apparentemente pre-politici, certo dalla forte connotazione patologica e ossessiva, tutt’altro che incompatibili tuttavia con la fredda, coerente indole nichilistica dei circoli fascio-nazisti che contribuirono a segnare la storia di quegli anni, animati dalla “convinzione folle di purificare il mondo” (4a di copertina), mentre ne consolidavano ed eternizzavano, consapevoli o meno, proprio l’abiezione e l’ignominia. 

A distanza di tempo, una pubblicistica superficiale o tendenziosa potrebbe (voler) equivocare sul profilo impressionistico e squilibrato della cellula veronese e sul suo farneticante delirio di onnipotenza, i cui aromi sembrano rimandare a una sorta di vaga ma remota preistoria comune. A inquietare, tuttavia, non è solo il fatto brutale che ambienti e personalità in vario modo connessi e afferenti occupino oggi, in prima persona, e legalmente, caselle governative del nostro Paese. È la sensazione perturbante che, al netto del folclore e dell’epoca, delle speranze o dei timori, il presente e l’immediato futuro vogliano metterci al cospetto della certezza che “quello che è stato torna, bussa alla nostra porta, petulante, questuante, insinuante” [10]. E che non vi si può opporre, per tacitare le coscienze domenicali turbate, lo stigma morale o stilistico, l’anatema da editoriale o la sofisticata ripulsa intellettuale.

 

Note

[1] Per i quali rimandiamo rispettivamente a Storia di Ordine Nuovo (Milano-Udine, Mimesis, 2017) di Aldo Giannuli e a L’eco del boato: storia della strategia della tensione 1965-1975 (Roma-Bari, Laterza, 2015) di Mirco Dondi. Su tutti, naturalmente, privilegiamo il pionieristico La strage di Stato (Samonà & Savelli, Roma, 1970, ora in varie edizioni). 

[2] Della"diade>> (p. 69) incendiaria, il primo, padovano del 1960, il secondo di Monaco DI Baviera, 1959, ambedue di"coltura>> veronese.

[3] Verona? È in provincia di Salò, titolava in un servizio giornalistico su"L’Espresso” del 16 giugno 1974 l’inviata Camilla Cederna.

[4] Si veda, al riguardo, Storia della Repubblica sociale (Roma-Bari, Laterza, 2020) di Mimmo Franzinelli.

[5] Si veda Giuseppe De Lutiis, I servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelligence del XXI secolo Milano, Sperling&Kupfer, 2010. Ma anche, e forse soprattutto, Dietro tutte le trame (Roma, Donzelli, 2022) del giudice Giovanni Tamburino che, giovane sostituto della procura di Padova, smascherò gli intrecci eversivi che legavano ambienti militari, servizi segreti nostrani ed esteri ed estrema destra, prima di vedersi sottrarre dalla Cassazione l’inchiesta, che finiva nel"porto delle nebbie>> romano. 

[6] Cfr."Anni Settanta. Operazione Blue Moon>>, https://rivistapaginauno.it. 

[7] Insostituibili, da questo punto di vista, i lavori dello storico e politologo Giorgio Galli La magia e il potere. L’esoterismo nella politica occidentale (Torino, Lindau, 2004), La Destra in Italia (Milano, Gammalibri, 1983), Hitler e il nazismo magico (Milano, Rizzoli, 1989).

[8] Del primo, definito da Umberto Eco, sull’<<Espresso>> del 12 aprile 1987, il"triste e dissennato figuro>> che aveva a suo tempo prefato gli osceni e apocrifi Protocolli dei Savi di Sion, si legga Rivolta contro il mondo moderno (Roma,. Edizioni Mediterranee 1969); del secondo, Il regno della quantità e i segni dei tempi (Milano, Adelphi, 1982).

[9]"Che sia il neopaganesimo nazista, un cattolicesimo tradizionalista ( … ) tutto si tiene sul terreno comune della Tradizione>>, pag.76.

[10] In epigrafe, Antonio Tabucchi, pag. 1.

26/12/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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