Recensioni di classe 24

Brevi e mordenti recensioni di classe alle serie drammatica The Morning Show visionabile su Apple TV+, alla serie comica: Il metodo Kominsky disponibile su Netflix, al documentario: The Dissident - Il dissidente distribuito da Lucky Red e passato in Tv su La7, al classico del cinema restaurato e riproposto nelle sale di prima visione: In The Mood For Love, al film A Classic Horror Story disponibile su Netflix, al musical Hamilton visibile su Disney+.


Recensioni di classe 24

The Morning Show (segue da Recensioni di classe 23) voto 7+: il quarto episodio rilancia la serie in quanto, per una serie di casi fortuiti, presenta lo spettacolo televisivo più seguito la mattina una giornalista senza peli sulla lingua, interessata a conoscere la realtà, a dire la verità e a praticare la libertà di parola. Questo modo di vedere il mondo apparentemente normale, tanto che la giornalista rifiuta qualsiasi etichetta politica, ha una forza dirompente e rivoluzionaria in uno show televisivo di grande successo, dove ciò che conta sono gli introiti pubblicitari, per cui si ritiene che per mantenere il proprio grande pubblico bisogna imbonirselo e per conservare o accrescere i propri inserzionisti non bisogna dire nulla che metta in discussione il senso comune e l’ideologia dominante. Così, pur non essendo in grado di mettere in discussione il pensiero unico, la coraggiosa giornalista fa emergere tutta l’ipocrisia del perbenismo puritano che, ad esempio – nonostante il grande movimento Me too – aveva fatto sì che nel canale televisivo non fosse mal visto il potente conduttore predatore sessuale, ma le sue impotenti vittime.

Il quinto episodio si attesta su un buon livello, ma senza acuti. La questione presumibilmente più significativa è la riflessione critica sul fenomeno del Me too di cui si analizzano in maniera abbastanza dialettica la grande importanza che ha avuto per l’emancipazione della donna, ma anche i rischi di una sua sempre possibile strumentalizzazione.

Il sesto episodio sottolinea ancora una volta l’eroismo, anche dal punto di vista umano, necessario – in una società che è dal punto di vista razionale un mondo rovesciato – persino per fare seriamente il proprio mestiere. Dunque, azioni che in una società sana verrebbero compiute da quasi tutti senza bisogno di rifletterci, in una cattiva società richiedono un alto tasso di eroismo e incoscienza. D’altra parte, il mondo dei grandi mezzi di distrazione di massa è a tal punto corrotto, da strumentalizzare – ai propri sporchi fini – anche le poche azioni svolte in conformità alla propria funzione, che vengono generalmente criticate in modo radicale in quanto non conformi al ruolo anestetizzante che si vuole imporre ai mass media.

Il settimo episodio porta all’apoteosi il livello di corruzione e la spietatezza della società civile dove impera l’homo homini lupus, tipico del modo di produzione capitalista. A questo punto la serie si presenta come una ripresa e una versione contemporanea de Le relazioni pericolose. Ancora una volta gli autori statunitensi sono dei veri maestri nello smascherare tutta l’ipocrisia della loro società puritana, ma, dall’altra parte – non essendoci come di consueto una prospettiva, un solo personaggio alternativo – l’impressione è che lo spietato realismo sia funzionale ad affermare il classico Tina (there is no alternative), ossia il mantra neoliberista per cui non ci sarebbero alternative, questa sarebbe la stessa natura umana, troppo umana, per cui si finisce con il naturalizzare, sulle orme di Spencer e Nietzsche, il darwinismo sociale.

L’ottavo episodio è interessante in quanto indaga la così detta seconda generazione degli inquisiti sull’onda del Me too, non più accusati di stupro, ma di molestie sessuali. In particolare si vede come un brillante uomo di potere si porti a letto le donne del suo entourage e quando una di loro prova a protestare con il proprietario dell’azienda, viene promossa per chiudere lì il caso. L’approfondimento è senza dubbio utile e interessante non solo per il seguito della serie, ma per l’importanza della questione in sé. D’altra parte, dedicare un intero episodio a questo lungo e prevedibile flash back, appare un voler diluire il brodo per farlo durare di più, scelta non proprio convincente.

Con gli ultimi due episodi, dopo aver portato fino alle estreme conseguenze la terribile conflittualità individualista vigente nella società capitalista – in cui domina incontrastato il principio mors tua vita mea – si arriva, infine, a una catarsi. Le questioni del Me too e della libertà di informazione, al centro della serie, trovano una adeguata conclusione, con l’attacco portato ai vertici della grande azienda. Il che dimostra che, anche in una situazione molto difficile, i dipendenti possono ribellarsi agli ordini del padronato e denunciarne le attitudini sostanzialmente criminali. Peccato che, al solito, la possibile prospettiva resta opera dell’azione di individui, mentre le masse popolari, le solo che possono garantire cambiamenti strutturali, restano sostanzialmente passive e tagliate fuori dalle stesse inquadrature

Il metodo Kominsky serie televisiva comica statunitense distribuita da netflix 2x8, voto: 7-. La serie è indubbiamente fatta nel migliore dei modi, è divertente e leggera, ma mai stupida o scontata. Si tratta di una commedia indubbiamente sofisticata e anche decisamente schierata contro i Repubblicani. Resta però prigioniera dei difetti strutturali della commedia moderna. Gli aspetti sostanziali della satira sociale, centrali nella commedia antica, restano troppo sullo sfondo, mentre in primo piano dominano problematiche più o meno legate al regno animale dello spirito. Peraltro, se nella prima serie la novità metteva particolarmente in risalto gli aspetti positivi, con la seconda la ripetizione un po' stantia di taluni schemi, che certo sono ben rodati e indubbiamente funzionano, accentuano quei limiti conservativi che sono una caratteristica, in qualche modo strutturale, della commedia moderna.

La serie è molto arguta e realistica nell’indagare psicologicamente i rapporti individuali e nell’ambito collettivo della famiglia. Tuttavia, finisce per rimanere prigioniera di quest’ambito etico ancora naturale, immediato, facendo scarse riflessioni sugli ambiti superiori della società civile e dello Stato, sul quale ci si limita ad argute battute antirepubblicane, anche se poi, come di consueto, non si mette in discussione neanche per ridere la politica estera imperialista e bipartisan degli Stati Uniti.

La seconda stagione giunge alla conclusione trattando con la solita raffinatezza il tema della vecchiaia, della malattia, del pensionamento, della perdita dell’indipendenza e del fantasma della morte. Anche in questo caso fa difetto la mancata contestualizzazione, dal punto di vista storico e socio-economico.

The Dissident - Il dissidente di Bryan Fogel, documentario, Usa 2020, voto: 6,5; significativo e anche coraggioso film di denuncia di uno degli Stati più oscurantisti e reazionari del mondo, da sempre fidato alleato dell’imperialismo occidentale, che spaccia questa tirannia assolutistica come la capofila dei paesi arabi “moderati”. La sua influenza sui paesi imperialisti e sugli Stati Uniti ha fatto sì che, nonostante abbia barbaramente assassinato il più noto giornalista del proprio stesso paese – al lavoro per il “Washington Post”, proprietà dell’uomo più ricco del mondo – non ha dovuto subire alcun tipo di conseguenza. Sebbene si trattasse di un lampante caso di avvertimento di stampo mafioso nei confronti di qualsiasi “cittadino” osasse esprimere opinioni non in linea con la monarchia assolutistica. Peraltro, con l’aiuto dell’israeliano Pegasus, il regno è riuscito a ricattare pesantemente l’uomo più ricco del mondo e “datore di lavoro” del giornalista massacrato. Peccato che il film, dal punto di vista formale, è piuttosto debole e, a tratti, alquanto noioso.

In the mood for love di Wong Kar Wai, Cina Hong Kong 1999, voto: 6+; film incredibilmente sopravvalutato, tanto da essere addirittura considerato un grande classico del cinema mondiale. Per quanto indubbiamente ben realizzato dal punto di vista tecnico, In the mood for love è tutto imperniato su un plot iper romantico e decisamente noioso, tutto incentrato su una potenziale storia d’amore di due persone tradite dai reciproci coniugi, che non si realizza mai, a causa dell’eticità decisamente conservatrice se non reazionaria dominante, almeno al tempo del film, a Hong Kong.

A classic horror story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, horror, Italia 2021, voto: 4-; film del tutto sopravvalutato dalla presunta critica cinefila sedicente di sinistra. A classic horror story è anche un film assurdamente pretenzioso. In realtà non ha nulla di non banale da dire, se non rappresentare la spocchia dell’intellettuale privo di qualsiasi connessione sentimentale con il proprio popolo. Quest’ultimo è rappresentato come morbosamente attratto dai fatti di cronaca violenti e – per quanto concerne la componente meridionale e, in particolare, calabrese – come composto da subumani primitivi del tutto soggiogati alla mafia.

Hamilton di Thomas Kail, musical, Usa 2020, voto: 3,5; noioso e melenso film, decisamente rovescista in senso storico e assolutamente intollerabile dal punto di vista musicale. Questo dozzinale musical – che ha avuto un successo del tutto immeritato, in particolare negli Stati Uniti – è andato in scena proprio nel momento in cui il discutibilissimo avventuriero, protagonista del film, stava finalmente per essere ridimensionato dal punto di vista della storiografia ufficiale. In tal modo, è tornato a usurpare il ruolo del tutto immeritato di eroe nazionale. Il successo di Hamilton è nell’aver incarnato il sedicente sogno americano che, considerato dal punto di vista della lotta per l’emancipazione del genere umano, andrebbe interpretato più come un incubo. L’avventuriero privo di scrupoli, arrivista e opportunista, cui è dedicato il musical, si schiera dalla parte della rivoluzione e viene presentato, addirittura, come un antischiavista. D’altre parte nel momento in cui la rivoluzione è tradita e la schiavitù è solo normalizzata, il sedicente antischiavista Hamilton non si scompone più di tanto. Dopo aver sposato una donna di rango superiore per favorire la propria ascesa sociale, si lega strettamente a George Washington, proprietario di schiavi e fra i leader più moderati della lotta di liberazione nazionale. Conquistata l’indipendenza è in prima fila nel colpo di stato soft con cui i rappresentanti della classe dominante sabotano la portata democratica della rivoluzione, imponendo in gran segreto il passaggio da una confederazione democratica a una federazione liberale e presidenzialista. Il potere di Hamilton si deve al forte legame con Washington, che gli consente di gestire il tesoro degli Stati Uniti, favorendo gli interessi del grande capitale. Si scontra duramente con Jefferson, leader dei democratici, in particolare in quanto vuole mantenere il paese neutrale nella guerra fra Inghilterra e Francia rivoluzionaria, nonostante l’enorme debito morale contratto dal suo paese con i francesi, il cui sostegno era stato decisivo all’epoca della guerra di indipendenza. Dimessosi Washington, gli avversari politici del protagonista minacciano di rivelarne la corruzione, in quanto ha utilizzato a fini personali, peraltro biechi, i soldi pubblici. Per non essere travolto dallo scandalo, Hamilton rende pubblica la sua versione di questa triste storia, per cui pagava il marito per avere una relazione extraconiugale con la moglie.

29/10/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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