Hegel illuminista e laico

L’interesse per la sensibilità, lungi dall’essere posto da Hegel in contrapposizione al primato della ragione sulla natura, è dettato da una preoccupazione di carattere realista, in quanto sebbene l’empirismo non è in grado di porre princìpi, d'altra parte se si deve operare sugli uomini, questi vanno presi come sono, e vanno ricercati gli impulsi e i sentimenti buoni da cui la natura dell’uomo può essere nobilitata.


Hegel illuminista e laico

Le riflessioni degli anni di Tubinga non possono essere considerate, come troppo spesso è accaduto, una prova della presunta rottura del giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel con la filosofia critica, in nome della contrapposizione fra sensibilità e ragione tipica del romanticismo. Il giudizio che Hegel formula sulla sensibilità resta netto e improntato al primato della razionalità e della moralità: “sensibilità e fantasia sono le fonti dei pregiudizi; e quelle stesse proposizioni che mantengono la loro validità anche di fronte all’esame dell’intelletto sono pregiudizi della gente comune, in quanto questa vi porta fede, perché non ne conosce alcuna giustificazione razionale” [1]. In tale prospettiva è possibile comprendere il significato di una notazione hegeliana, che ha tanto fatto discutere gli interpreti, portando buona parte della Forschung a cogliervi una netta presa di distanza dalla concezione kantiana della morale: “ma la massa principale, la materia da cui propriamente tutto si forma, è solo la sensibilità. È cosa nota, ma pur da richiamare alla memoria perché tanto spesso viene trascurata, che l’uomo è un essere composto di sensibilità e ragione…” [2]. Come ha osservato Mirri – tra i più acuti critici della linea interpretativa tradizionale che isolando alcune affermazioni dal contesto pretendeva di rinvenirvi una deciso rigetto del criticismo – “il contesto indirizza a una tutt’altra interpretazione: che cioè, se pure il «bisogno naturale» dell’uomo e il «terreno favorevole» su cui sorge la religione è la moralità, non è detto che quest’ultima si presenti immediatamente nella forma della rigorosità razionale che pure le è propria, perché l’uomo è anzitutto, appunto, sensibilità e impulso naturale; ed è nel sollevarlo da questa alla pura ragion pratica che si qualifica e si esaurisce l’opera della religione. La quale religione infatti – e siamo così al contenuto della «scheda» successiva, condotta sulla falsariga di concetti fichtiani – non è semplicemente «una scienza intorno a Dio», non è «teologia», bensì è via alla moralità” [3]. 

Hegel, dunque, non intende affatto esaltare la sensibilità di fronte all’intelletto o alla ragione, come troppo a lungo certa critica di matrice diltheyana ha lasciato intendere [4]. Tanto che. poco dopo, Hegel sente il bisogno di precisare che la religione dà “un nuovo e più alto slancio alla moralità ed ai suoi moventi, offre un nuovo e più forte argine contro il potere degli impulsi sensibili” [5]. L’interesse per la sensibilità, lungi dall’essere posto in contrapposizione al primato della ragione sulla natura, è dettato da una preoccupazione di carattere realista: “certamente l’empirismo non è assolutamente in grado di porre princìpi. Ma se si parla del modo come si deve operare sugli uomini, questi vanno presi come sono, e vanno ricercati tutti gli impulsi e i sentimenti buoni da cui la natura dell’uomo può essere nobilitata, anche se immediatamente la sua libertà non è accresciuta” [6]. Ritorna qui l’attitudine empirista, materialista già presente nella ricezione hegeliana dell’illuminismo sin dai tempi di Stoccarda.

A differenza di quanto credeva certo tardo illuminismo e contro il moralismo dominante nella concezione teologica del seminario in cui aveva studiato, per Hegel il problema della sensibilità non può essere evitato; la costituzione sensibile dell’uomo, l’origine materiale della stessa gnoseologia non deve essere esorcizzata in una nuova metafisica intellettualista. “Non spaventiamoci dunque – scrive Hegel – se dobbiamo credere di trovare che la sensibilità è l’elemento principale in ogni azione e sforzo umano; così come è difficile distinguere se il movente della volontà sia semplicemente avvedutezza o una reale moralità” [7].

Si affaccia qui un ulteriore tema destinato ad avere grande fortuna nella riflessione hegeliana a partire dagli anni di Francoforte: “il principio fondamentale del carattere empirico è l’amore che ha qualche analogia con la ragione, poiché l’amore ritrova se stesso negli altri e, quasi dimenticandosi, si pone fuori della propria esistenza, vive, sente, è attivo per così dire negli altri, così come la ragione, in quanto principio di leggi universalmente valide, si riconosce in ogni essere razionale, come cittadina di un mondo intelligibile” [8]. Anche in questo caso, tuttavia, non vi è nessuna sensibile opposizione alla filosofia critica e illuminista. Ben altrimenti argomenterà Hegel sul rapporto amore-moralità negli anni di Francoforte; cercando di sviluppare una concezione dotata di maggiore autonomia rispetto alla kantiana, vedrà nell’amore non tanto un momento propedeutico alla moralità, quanto il suo superamento dialettico. Come osserva a ragione Mirri: l’amore in questi più tardi scritti “costituisce il vero e proprio «toglimento» della legge e delle inclinazioni e della loro antinomia, mentre qui appare in sottordine proprio rispetto alla legge razionale stessa, come un qualcosa che ha solo «qualche analogia» con la ragione, connesso com’è con il carattere sensibile dell’uomo, e che è quindi da valutarsi sulla scorta della legge morale razionale: la ragion pura pratica kantiana ne resta insomma l’insoddisfatto ideale normativo” [9]. 

Le riflessioni sul ruolo dei sentimenti devono essere considerate, allora, alla luce del tentativo hegeliano di fondere il primato kantiano della ragione sulla sensibilità, con la critica illuminista all’intellettualismo intollerante della teologia tradizionale. Del resto lo stesso Saggio di una critica di ogni rivelazione di Fichte si muove all’interno di quella medesima tradizione culturale in cui Hegel si era venuto formando. Come ha osservato a ragione Carmelo Lacorte: “per la sua generale impostazione del rapporto fra rivelazione e ragione, il Versuch si pone quindi come un contributo che è inserito nella stessa linea propugnata da altri autori che si occupano del problema nell’ultimo trentennio del secolo, da Feder a Garve, a Lessing a Mendelssohn e allo stesso Kant. Problema che si volge a configurare l’ideale religioso in polemica contro la superstizione e il fanatismo delle sette, e ciò innanzitutto in nome della tolleranza. In secondo luogo, in misura minore o maggiore, tutti esprimono l’esigenza di salvaguardare un valore autonomo all’esperienza religiosa, sia pure per quel tanto che essa possa essere compatibile con i fondamenti di un razionalismo da tutti questi autori variamente professato” [10]. Inoltre, Kant stesso “riconosce a Rousseau il merito di averlo per la prima volta risvegliato ai problemi e ai doveri pratici della cultura: come Hume lo ha riscosso dal «sonno dogmatico», e Newton lo ha introdotto nel mondo della «morta natura», Rousseau gli ha mostrato i limiti della ricerca puramente speculativa, e gli ha insegnato a «venerare l’uomo»” [11]. La contrapposizione kantiana tra religione razionale e credenze statutarie ha le sue origini più prossime proprio nella concezione naturalistica della religione di Rousseau, secondo la quale: “chi crede in semplicità di cuore, cerca nelle dottrine religiose solo ciò che può avere importanza per la pratica, ciò che possa donargli la «pace del cuore» e la «tranquillità della coscienza»; e invece considera equivalenti e accessorie sia le diverse forme del culto (determinate dalle differenze di clima, di costituzione politica, dello spirito stesso dei vari popoli), sia le formulazioni dottrinarie che non hanno alcun influsso sulla vita morale” [12]. Lo stesso discorso vale per la contrapposizione tra la fede tutta positiva e intellettualistica dello scolastico e quella viva e morale del saggio: “la voce del «Dio che parla al cuore dell’uomo» ci presenta le verità fondamentali ed eterne della religione con più immediatezza di quanto non possa fare la ragione, e con maggiore efficacia di quanto non avvenga nei testi delle religioni rivelate, fondati sopra l’intermediarietà di altri uomini, onde le verità religiose sono ridotte ed assoggettate all’antropomorfismo, e adattate a servire le ragioni e i fini di parte” [13].

Note:

[1] Hegel, G.W.F., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 95, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 180.

[2] Ivi, p. 78 e tr. it. p. 163. Pur svalutando troppo il valore della ricezione hegeliana della filosofia kantiana, riducendola al magistero di Friedrich Böck, ha osservato a ragione Mirri: “l’osservazione indirizza evidentemente all’insegnamento di Böck – appassionato kantiano, come si sa – e alla dissertazione «pro magistero»; ed il suo senso appare allora ben diverso da quello presunto di una rivalutazione della sensibilità nell’ambito della morale; esso si rivela piuttosto come proprio di una considerazione decisamente realistica di ciò che «di fatto» gli uomini sono, ma non intacca in nessun modo il «dover essere» della legge morale” Mirri, Edoardo, Introduzione a Hegel, G.W.F., Scritti…, op. cit., p. 142. D’altra parte il passaggio preso in esame, tanto contro Herman Nohl quanto contro Mirri, può essere interpretato né come una presa di posizione schilleriana antikantiana, né come una semplice professione di realismo, ma come adesione al materialismo francese della Rivoluzione, o per lo meno all’empirismo ateo inglese, a indicare come l’imperativo categorico sia per il giovane Hegel un che di compiutamente immanente e indipendente da ogni fede. Del resto, come è noto, Hegel conosce la filosofia rivoluzionaria di Johann Gottlieb Fichte e ne condivide l’esigenza di trovare un’applicazione politica al kantismo. A questo scopo si serve del materialismo per contrastare la strumentalizzazione da parte degli ortodossi della stessa filosofia kantiana per rilanciare la superiorità della fede, dinanzi ai limiti della ragione.

[3] Mirri, E., Introduzione…, op. cit., pp. 144-45.

[4] Da questo punto di vista gli studi di Wilhelm Dilthey mantengono un interesse solo storico-filosofico per quanto riguarda la storia delle interpretazioni e speculativo solo in relazione allo sviluppo della filosofia di Dilthey stesso o, più in generale, della filosofia della vita.

[5] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 85; Scritti…, op. cit., p. 171.

[6] Ivi, p. 101 e tr. it. p. 187.

[7] Ivi, p. 84 e tr. it. p. 170. Persino Mirri cade nell’errore della grande maggioranza degli interpreti del giovane Hegel, ossia nell’intendere la ragion pratica unicamente dal punto di vista della Fondazione della metafisica dei costumi in cui Kant, nella sua ricerca del principio speculativo del diritto, lo aveva individuato in un estremo rigorismo morale, per cui gli aspetti empirici ed etici erano astrattamente negati. Perciò Mirri pone l’accento sulla “insufficienza della pura ragion pratica a creare una vera moralità. Certo, non si vuol dire con ciò che, di contro al razionalismo morale kantiano, il giovane Hegel si faccia propugnatore di un empirismo, del quale anzi è esplicitamente affermato che “non è in grado di porre principi”; si vuol solo dire che l’affermazione che “gli uomini devono essere presi come sono e devono essere considerati in tutti gli aspetti”, e prima di tutto nel loro aspetto sensibile, sembra porre il giovane Hegel, anzi più precisamente lo Hegel di questo frammento tubinghese, in una posizione di pensiero alquanto distante da Kant” Mirri, E., Introduzione…, op. cit., p. 29.

[8] Ivi, p. 101 e tr. it. pp. 186-87. Peraltro, fra i soli tre Excerpte che ci restano di questo periodo, “il più interessante di essi (Dok. pp. 174-5) è tolto da una lettera di Rousseau a D’Alembert, e mostra una volta di più quanto vasta sia la gamma dei motivi che entrano a costituire il concetto hegeliano dell’amore che sarà uno dei temi centrali degli scritti di Francoforte” Lacorte, Carmelo, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 300. 

[9] Mirri, E., Introduzione…, op. cit., p. 33.

[10] Lacorte C., Il primo…, op. cit., pp. 228-29.

[11] Ivi, pp. 265-66.

[12] Ivi, pp. 272-73.

[13] Ivi, p. 272.

06/05/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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