L’armonia prestabilita del 3 luglio

Il protocollo di intesa neocorporativa: il triangolo infernale da cui non si “salverà” il lavoro.


L’armonia prestabilita del 3 luglio

Ripubblichiamo l'articolo uscito su la rivista trimestrale "La Contraddizione" n. 38, del settembre-ottobre del 1993, in quanto sempre attuale. 
Rispetto all'anno di scrittura dell'articolo, ci preme sottolineare come sia andata avanti l'escalation governativa-padronale nell'attacco al lavoro, condotta con la necessaria connivenza sindacale, come processo lento ma continuo della precarizzazione e immiserimento delle forze lavorative nazionali, secondo il dettato mondiale neocorporativo della crisi capitalistica nascosta dietro il termine "globalizzazione". 


Ora, siccome vi è un’infinità di universi possibili nelle idee di Dio,
ma non ne può esistere che uno solo,
bisogna che Dio abbia una ragione sufficiente
che lo determini a scegliere uno piuttosto che un altro.
E questa ragione non può trovarsi che nella convenienza

o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono,
avendo ogni possibile diritto di pretendere all’esistenza
in misura della perfezione che esso racchiude.
É questo il mezzo di ottenere la maggiore varietà possibile,
insieme col maggiore ordine possibile,
cioè il modo di ottenere la maggiore perfezione possibile.
Questi principî mi hanno dato modo di spiegare naturalmente
l’unione o meglio la conformità dell’anima e del corpo organico.
L’anima segue le sue proprie leggi e il corpo anche le sue,
e s’incontrano in virtù dell’armonia prestabilita tra tutte le sostanze,
poiché esse sono tutte rappresentazioni di uno stesso universo.

(G.W.Leibniz, La Monadologia)


Réclame, contrappunto di sinistra

A chi si abbevera alla cultura “mani-festifera” o di “sinistra” in genere (includendo, solo per quest’occasione, anche la Repubblica), non può sfuggire la lapalissiana “trasparenza” del linguaggio dominante - e non solo di questo - in quelle righe quotidiane, adornate solo dall’enfasi, dall’emotività, dalla bandiera dell’antagoni­smo o meglio dell’alternativa. Ad esempio, un agente del capitale come Ciampi, che vara la finanziaria estiva in esecuzione ai famigerati “accordi tra le parti sociali” del luglio scorso, viene definito “onesto”; “i problemi del paese” sono tout court identificati nei “bisogni della gente”, e così via opinio­nando, convenendo, moraleggiando, stereotipando, giudicando, ecc. Lungi dal trattare di problemi linguistici (un’acculturazione a parte sarebbe richiesta poi per la ricezione dei termini di moda in lingua padronale, made in Usa) che ne sono soltanto il vischio esteriore, ci interessa mettere a fuoco un rimprovero di eco nazionalista che rimbalza frequentemente - come pure sulla stampa più di­rettamente padronale - nella sua deliberata banalizzazione: “l’industria si è mo­strata incapace di creare sviluppo”, cioè in questo caso nuovi posti di lavoro, come promesso.

Chi pretenderebbe quindi sostenere le ragioni dell’occupazione (sentita­mente definita sempre “drammatica”, o almeno “in crisi”) grida così allo scan­dalo - o più pacatamente si sconcerta - dato che, dopo tutti i provvedimenti go­vernativi di abbassamento del costo del denaro, blocco dei salari, guadagni di produttività per le imprese, ecc., non si vedono ancora gli investimenti risoluti­vi. L’invisibilità delle leggi economiche e degli obiettivi perseguiti dalla mano­vra governativa sembra davvero esser toccata in premio a questi informatori pubblici, per provata fedeltà all’unica solidarietà oggi consentita, quella stabili­ta da e con i poteri forti! Ci si meraviglia, in altri termini, della creazione ad hoc di un esercito di“disoccupazione” quale valvola di uscita dalla crisi di capitale, alla stessa maniera con cui ci si sorprende dell’esercito, non più civile, di occu­pazione in Somalia (o altrove), per la spartizione degli investimenti (ma anche delle risorse petrolifere, dei ruoli internazionali, ecc.). Non dovremmo accorger­ci, secondo tanto acume, che le soluzioni tecniche vòlte a “salvare il lavoro”, o a fabbricare “missioni di pace”, si avvitano in realtà su un’unica spirale di alter­nanza tra coercizione e consenso destinata al ricatto delle masse internazionali, quale viatico per una sempre più competitiva e lenta accumulazione dei profitti.

Chi tace, consente

Dallo scorso anno - in cui è uscito pure il nuovo Catechismo corporativo - possiamo godere anche del conforto religioso che ci rassicura sulla “ricerca del profitto [come] moralmente giusta e spettante al capo dell’a­zienda, [il quale profitto è] uno strumento al servizio dell’uomo e non viceversa; [apprendiamo tra l’altro che] i responsabili di imprese ... garantiscono l’occupazione”. In un tale clima di rasserenamento e fiducia “l’Italia-che-vuole-cambiare”, alla fine di luglio (chissà poi perché sempre di quest’epoca i cambiamenti sono clamorosi, anche il governo Badoglio...), ha fatto sottoscrivere il protocollo triangolare del 3 luglio, tra le esultanti dichiarazioni di Ciampi che rilevavano come questo “dà fiducia ai mercati, offre certezze agli investitori, favorisce il processo di ridu­zione dei tassi d’interesse ... Ora, si può abbattere l’inflazione al livello dei Pae­si europei più virtuosi”. Nel frattempo l’Italia-che-tace assisteva alle pirotecni­che indagini sulla “malapolitica” e sulla “malaeconomia” [ci scusiamo per i conii padronali riportati di qui in avanti], fra un botto e l’altro dei “suicidi” ec­cellenti (quello finale fu il Gardini-human show), evidentemente necessari per “restituire i territori occupati [non quelli palestinesi] della produzione alle ra­gioni del mercato, [al fine di instaurare una] democrazia [che] ha bisogno del lubrificante di un’intermediazione finanziaria ... per portare i risparmi degli ita­liani là dove si crea ricchezza” [1].

Da tutto ciò si evince, quanto meno, l’incolmabile divario tra propositi dichiarati e obiettivi reali, e quindi tra credibilità richiesta e credulità da accor­dare, tra abilità politica e opacizzazione buona per moraleggiare e rimanere inerti. Contenute entro la parvenza e la rappresentazione le lotte dell’Italia-che-si-indigna, che-si-sacrifica, che-acconsente, che-si-fa-solidarizzare, che-paga, ecc., non ci saranno ostacoli per i managers dell’azienda-Italia, in pista verso la conquista del titolo di “più virtuosi d’Europa”, l’ambita coppa della casa comune.

E i lavoratori? Quasi ci se ne dimentica, per parlar bene. Tutto sommato l’accordo sul costo del lavoro riguardava anche loro, dalla parte di chi non pote­va che essere d’accordo. Tralasciando per il momento quanto di peggio ha potu­to distorcere questo consenso, occupiamoci invece di come si sia coltivato più in generale questo stupefacente bonsai nelle serre corporative, da poterlo coglie­re alla bisogna per adornare qualsivoglia esigenza produttiva, pronta cassa. Non a caso costituisce uno dei giochini più gustosi dell’accordo, del tipo: cerca il consenso, è nascosto fra le righe del vignettone, divèrtiti! La coltivazione di questo vegetale - dicevamo - richiede una cura tutta particolare e meticolosissi­ma, richiede anni e anni di menzogne, sviste, favori, delitti, ecc., ma poi ripaga di soddisfazioni intensissime mandanti ed esecutori.

Innanzitutto è assunto nei cieli dell’Idea, del fatto culturale, del modo d’essere. Basta sottolineare l’“identità delle divergenze”, la “voglia d’essere di­stinti, articolati, molteplici, optionalists, ecc.”, e poi si suffraga tanta molteplici­tà nel business, trasformati in consumi stratificati a portata di mercato. Si proce­de quindi, oltre l’anti­quato “incanalamento istituzionale”, a scoprire i giacimen­ti di consenso, producendo forme associative varie che diano intanto qualche ri­sposta marginale e inoffensiva per il sistema, ma soprattutto creino bisogni, at­tese, comportamenti, tensioni da soddisfare nei soli bacini controllati o control­labili dall’alto. Qualunque aggregazione che sia oblio o dispregio di connotazio­ni di classe, viene accolta e accarezzata nella semplificazione e nell’e­stensione illimitata e indifferente, connotazione, quella, sempre più irriconoscibile e inaf­ferrabile da chi traeva forza dall’unità degli obiettivi sociali. La società civile diviene così sempre più zona “carsica” (in seguito toccherà anche alla scala mobile, messa finalmente in libertà dal sindacalismo responsabile), in rotta di collusione con le istituzioni rese a loro volta flessibili dal collasso della rappre­sentanza, e perciò duttili nel foraggiare frantumazione di identità e di interessi a buon mercato.

Professionalità, ecologismo, cultura, giovani, donne (identicamente schiacciati in quanto settori da colonizzare) saranno il concime arricchito dal quale trarrà nutrimento il consenso, spuntato nelle mille aiuole del volontariato, dell’efficienza, dell’oblatività sostitutiva e gabellata per valore collettivo. Pilo­tata siffatta spontaneità del civile, manco a dirlo tutta gratuita, una banale innaf­fiata di morale ed ecco apparire la legittimazione democratica di tanta “spinta dal basso”. Anzi, si tratta proprio di sviluppo! Benché manchino posti di lavoro, il lavoro dilaga per sostituire tale mancanza. Non si tratta di un indovinello: è la trovata del lavoro promozionale. “Prendi 3, paghi 2”. Sotto gli occhi di tutti.

Conseguentemente, si passa alla utilizzazione della cultura collettiva in cui inserire alcune formule-chiave. Trasparenza, ad esempio, per potersi ricono­scere attraverso i fenomeni di cui si partecipa. Responsabilità, nel senso di: a) obbligare ad autofinanziarsi (fine del famigerato assistenzialismo); b) finan­ziare attività effettive e non nominali (nuove lobbies?); c) fornire una formazio­ne più adeguata alle esigenze imprenditoriali, gestionali, ecc.; d) in senso lato, “farsi carico” di ogni costo. Autocertificazione, aumento di selezione interna sulla base del successo.

Modernismo: nuove macchine per una vecchia etica

Perché il consenso diventi però vera categoria morale, alias culturale, bisogna che sia percepibile in primo luogo come innovazione nella sua diffusio­ne confusa nel sociale, poi magari mostrarlo “tecnicamente” funzionale anche nella fabbrica integrata (sinonimo di modernità positiva), spanderlo quindi nella comunicazione alle masse come “valore”, infine dimostrare che i nuovi valori culturali possono consentire la ripresa economica nazionale, per cui è indispen­sabile riformare la formazione, ristrutturare l’istruzione pubblica. É proprio quanto è accaduto nell’accordo armonico del 3 luglio in cui, a mo’ di corollario del costo del lavoro, si è inserito en passant il capitolo di riforma dell’istruzione pubblica; prima volta nella trattativa di routine per l’angolo (quello ottuso) sin­dacale - che infatti, data la sorpresa, ha perfino dimenticato di informarne i la­voratori, che in modo salutare per lo più tuttora lo ignorano. Fedeli all’aforisma di K. Kraus – “la nostra civiltà è costituita di tre cassetti, di cui due si chiudono quando il terzo è aperto: lavoro, divertimento e istruzione” - i supposti rappre­sentanti del primo cassetto non hanno osato rovistare nell’ultimo. Avrebbero po­tuto trovarvi le ingiustificabili chiavi che la Grande Corporazione affida ai pro­cessi di formazione (questa sì rigidissima) del consenso sociale, per “l’arric­chi­mento delle competenze di base e professionali e [per il] miglioramento della competitività del sistema produttivo e della qualità dei servizi”.

In tal senso si sarebbe visto già da luglio che quelle chiavi aprivano: “un raccordo sistematico tra il mondo dell’istruzione e il mondo del lavoro ... [per] gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del si­stema formativo”. Il che voleva dire convogliare tutte le energie nuoviste per “portare a termine la riforma della scuola secondaria superiore” (nelle utopie dibattute dal lontano 1975 non potevano ancora fare tanto affidamento sul buon esito dell’operazione!), con l’introduzione delle autonomie amministrative, qua­le rimorchio del già collaudato sistema Usa. Sempre nello stesso cassetto, poi, si sarebbero potuti trovare i “sogni” di una stratificazione non solo censitaria (fin qui credibilmente fattibile) ma anche qualitativa dell’insegnamento universita­rio, collegato al potenziamento degli investimenti per la ricerca. Come mai ipo­tesi (ordini?) di “integrazione e flessibilità tra sistema scolastico ... formazione professionale ed esperienze formative sul lavoro fino a 18 anni” sono state for­mulate in siffatto contesto? In assenza di suggerimenti sindacali sicuramente più addentro ai segreti triangolari, per parte nostra noi proviamo a leggere, attra­verso le nuove trasparenze del lavoro modernizzato, il processo che ha costituito la domanda manageriale di qualità e consenso estensibile ad ogni potenziale forza lavoro, ridotta a parvenza socialmente non necessaria, e perciò stesso esposta in “panchina lunga”.

Mentre quindi i sindacati sono impegnati nella muta della pelle conflit­tuale con le dirigenze aziendali, queste iniettano già nelle coscienze operaie il riconoscimento dei “suggerimenti intelligenti”, quale nuova autonomia profes­sionale capace di secernere consenso attivo. Il lavoro non proceduralizzato (pos­sibile con l’introduzione graduale dell’alta automazione) sembrerebbe così in grado di dimostrare il superamento del modello taylorista, in un arricchimento di responsabilità individualizzate e di risultati continuamente migliorabili nella ricerca interattiva. La diminuzione dello sforzo fisico (visto come degrado) e l’aumentata regolarità del processo produttivo inducono, infatti, a divaricare ul­teriormente le professionalità tra un più alto livello di qualificazione ed altri più bassi, in cui questa è semplificata ed intercambiabile.

Nel frattempo si demanda al collante dei rapporti gerarchici psicologiz­zati l’impalpabilità di un comando che rafforza la discrezionalità autoritaria, istituzionalizzando le relazioni sociali più uniformate ad asettiche normative centralizzate. In altri termini, ci sono tutti gli ingredienti per indurre in chi lavo­ra la sensazione di aver acquisito dei vantaggi (meno fatica, disagio, assillo), anche nel senso di unamaggiore dignità percepita come un progresso di status, non più subalterno al punto da dover ricorrere ad espedienti umilianti quali “tecniche di sopravvivenza”. Proprio perché permessa dalla flessibilità delle macchine, tale trasformazione sul piano organizzativo si radica nella fabbrica integrata come risultato, la cui durevolezza dipende dall’egemonia culturale delle politiche produttive. “Assicurare e oscurare il prelievo del plusvalore” at­traverso la gestione totale della forza lavoro (compreso il cervello), diviene possibile nell’oscuramento progressivo dell’esperienza cosciente dello sfrutta­mento, nonché della sua conoscenza e memoria storica. Il consenso sembra così emergere come: a) forma sostitutiva del conflitto, circuìto in un sistema di dirit­ti, procedure e istituzionalizzazioni (interne oltre che sociali); b) “oggetto di uno scambio politico tra sindacato e imprese”, una risorsa che ridefinisce i rap­porti in senso partecipativo entro lo scenario strategico contrattuale della promozionalità.

Se “la cultura risana le imprese” ...

... “e con la formazione migliorano i servizi”, allora “l’istruzione è un impegno comune”. Non si tratta propriamente di un sillogismo aristotelico, ma della nostra perversione logica nel connettere reali titoli di stampa padronale [2], nel tentativo di attivare anche noi quel meccanismo autopropulsi­vo di “intensificazione spontanea” del “capitale di fiducia” umano, che le nuo­ve tecnologie (neutralità innanzitutto!) sembrano esigere per la società tutta. L’obsoleto “giacimento” di esperienze culturali in nostro possesso, che “astuta­mente” avrebbe finora sostanziato il nostro antagonismo, deve finalmente la­sciar posto alla “dedizione intelligente a tutto campo” di chi modernamente for­nirà soprattutto “contributi concettuali” alla soluzione di problemi legati “al processo e al prodotto” richiesti dal mercato. Responsabilmente predisposti alla collaborazione “concreta”, ora che i politici-corrotti hanno dovuto abbandonare i posti di manovra ai tecnici-efficienti, ci apprestiamo a partecipare (come?) al­la “rivoluzione culturale” nella scuola, o formazione in genere, convinti del “rapporto necessario” (ad una sola dimensione, va da sé) con l’industria, di cui bisogna avere tutti almeno “un sapere minimo”.

Loro, che non sono marxisti, sanno che non riusciranno a “risanarsi” senza “coinvolgere l’intera società” in “una sistematica valorizzazione delle fa­coltà umane che consente di conseguire la varietà e la flessibilità necessarie per il controllo della complessità”. “I padroni hanno bisogno di noi ...” risuonava una vecchia canzone. Ma chi avrebbe mai pensato che il capitale, definito come rapporto sociale, avrebbe portato all’entità e quindi alla competitività dei pro­fitti dipendenti proprio dall’entità e quindi dalla disponibilità, senza condizioni, dello sfruttamento salariato? Forse è per questo allora che non devono esserci differenti criteri di razionalità - come ad esempio esprimeva la pluralità dei “po­litici” tradizionalmente riottosi ad abbandonare incertezze e variabili, che tutt’al più li portavano ad avere criteri miranti alla sufficienza - mentre è più credibile ispirarsi ad una logica di razionalità tecnica che punta all’ottimizzazione dei risultati.

È bene altresì “sigillare” questo nucleo tecnico (i “ciampisti” nostrali) da “turbolenze esterne” (conflitti e contrasti sociali) con protezioni organizzate assorbenti (sindacati) e attenuanti (gamma di iniziative quali accordi strategici con imprese o sindacati, azioni lobbistiche, campagne pubblicitarie, ecc.). Al centro di queste iniziative attutenti sembra piazzarsi proprio la propaganda per l’educazione, cosiddetta pubblica. Tali sono le tensioni (Jervolino-sacrificale docet!) ivi accumulate da decenni, che intanto questo pacchetto “funziona”, otti­mizzando sulla via della devianza l’attenzione generale dai cardini strutturali dell’aumentato sfruttamento. Permette inoltre di verificare la risposta (solleva­zione?) sociale ai “tagli immediati della forza lavoro”, nella forma salvifica di li­berazione “dal disordine e dalla disorganizzazione”, oltreché di “svolta” ripo­sizionante una “cultura d’impresa” (l’unica degna d’attenzione) in grado di spa­lancare i suoi orizzonti su non importa quale risorsa, purché diretta a “fattori di successo invece che rivolta ai problemi”.

“Riformulare la propria cultura strategica” sarà quindi l’avamposto da cui sondare la competitività internazionale, facendo proliferare funzioni e pre­stazioni (aumento numerico dei corsi di laurea, diplomi di laurea, ecc.) in vista del riavvicinamento di consumatore e prodotto sul palcoscenico della “maggio­re fidelizzazione di distributori e clienti”. “Ridefinire i valori apprezzati dal mercato verso i quali orientare la capacità produttiva” è oggi il vero rebus dell’egemonia sul mercato, per la cui soluzione (finale?) si è passati alla mobili­tazione generale, ivi compresa l’intera Kapitaljugend sui banchi di scuola. Se riusciranno ad estorcere anche “l’impegno comune” [”fanno miracoli, per quel­lo che gli dò” - recitava Petrolini-Nerone a proposito del popolo], può darsi che sarà di nuovo necessario passare poi ai kamikaze.


Note:

[1] Il Sole-24 ore, 24.7.93.

[2] Il Sole-24 ore.

22/04/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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