Il giovane Lukács e la guerra

Prima di analizzare i contenuti di Teoria del romanzo e poterne inquadrarne il significato nell’evoluzione del pensiero di György Lukács, è opportuno soffermarci sull’atteggiamento del grande filosofo ungherese nei confronti della guerra.


Il giovane Lukács e la guerra

Prima di analizzare i contenuti di Teoria del romanzo e poterne inquadrare il significato nell’evoluzione del pensiero di György Lukács, è opportuno soffermarci sull’atteggiamento del grande filosofo ungherese nei confronti della guerra (imperialista). Il Primo conflitto mondiale ha funzionato da cartina di tornasole per tutti quegli intellettuali tradizionali che come Lukács in Germania e nella cerchia di Max Weber avevano professato princìpi di anticapitalismo romantico. Di fronte all’aut-aut ineludibile imposto dalla tragedia europea, si assiste alla quasi unanime ed entusiastica adesione degli intellettuali tedeschi borghesi a favore della guerra (imperialista) con ovvia differenziazione nelle motivazioni, che variano dall’esaltazione nazionalistica tout court, alla giustificazione di una possibile rigenerazione e innalzamento dell’individuo temprato nel fuoco del conflitto. Oltre a Georg Simmel ed a Weber, il caso più vicino a Lukács, per la loro lunga frequentazione intellettuale, è quello di Paul Ernst, il quale dalla giovanile simpatia per il movimento operaio era progressivamente passato a concezioni conservatrici se non reazionarie, fino ad abbracciare il mito del “germanesimo” e della “comunità popolare” tedesca. Lukács si schiera nel campo diametralmente opposto: mentre Ernst vede nella guerra l’occasione per l’unità del popolo e della nazione tedesca attraverso la lotta contro le democrazie capitalistiche, il filosofo ungherese considera la guerra il più genuino esito del capitalismo e dell’imperialismo anche tedesco. Il tratto percorso dai due amici in nome dell’anticapitalismo e della critica all’ottimismo positivistico è terminato:  la guerra è il “bivio” da cui si dipartono strade diverse e a partire dal quale le scelte etiche imposte dalla storia si tingono necessariamente di una coloritura politica e ideologica. Lo stesso Paul Ernst, in un suo “colloquio immaginario” con Lukács, così riporta il pensiero dell’amico: “così come l’economia attuale ha messo la macchina e il gruppo di uomini organizzati che servono la macchina, al posto del lavoratore singolo e indipendente, facendo in tal modo scomparire il valore personale del lavoro, analogamente questa guerra non contrappone tra loro uomini, ma macchine e servitori di macchine. A tali servitori si richiedono prestazioni molto maggiori che ai guerrieri di un tempo; ma ciò è possibile solo sottraendo loro quanto di propriamente personale contiene la prestazione. L’effetto della guerra sarà da un lato un ulteriore sviluppo dell’economia capitalistica, e dall’altro il sorgere di un socialismo democratico, ragione per cui la possibilità di vita dell’uomo superiore necessariamente asociale sarà sempre più ridotta” [1].

Al di là della nota aristocratica, è una lucida condanna della guerra nella quale Lukács si trova a fianco di Ernst Bloch; ma, mentre quest’ultimo auspicava la sconfitta della Germania di Guglielmo II, operando una distinzione tra le democrazie occidentali e l’autoritarismo prussiano dello Stato tedesco, Lukács non nutriva alcuna fiducia nelle democrazie borghesi: “la mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin lì, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale?  Questo io mi domandavo. E qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici” [2].

Al di là del rifiuto della guerra, Lukács vuole capire le ragioni che hanno indotto la cultura tedesca ad attribuire al potere uno statuto di tipo metafisico. In una lettera a Ernst dell’aprile 1915 così si esprime: “Il potere delle formazioni sembra essere in costante crescita e per la maggior parte degli uomini una realtà più viva di ciò che realmente esiste. Ma – e questa è per me l’esperienza principale della guerra – questo non lo possiamo ammettere. Dobbiamo sottolineare sempre di nuovo che l’unica cosa essenziale siamo soltanto noi, le nostre anime, e perfino le loro oggettivazioni eternamente aprioristiche sono (secondo una bella immagine di E. Bloch) sempre soltanto denaro di carta, il cui valore dipende dalla solvibilità in oro. Il potere reale delle formazioni non può essere negato. Ma è un peccato mortale dello spirito, che riempie il pensiero tedesco a partire da Hegel: e cioè di dare ad ogni potere una consacrazione metafisica. Sì lo Stato è un potere – ma deve essere riconosciuto per questo come qualcosa di esistente nel senso topico della filosofia, nel senso essenzialmente agente dell’etica vera ?  Non credo....” [3]. 

Pur rimanendo inalterato lo schema oppositivo tra anima e formazioni oggettive presente nel periodo saggistico, emerge in queste considerazioni lukacciane una consapevolezza maggiore dell’inerzia che le istituzioni storiche frappongono ai tentativi di trasformazione. La dimensione storica – lo spirito oggettivo di Hegel – comincia ad acquistare per Lukács uno spessore sempre più corposo e concreto, con il quale bisogna necessariamente misurarsi. L’errore, a partire da Hegel, è consistito nella cancellazione dell’autonomia della sfera etica, per averla identificata con lo spirito oggettivo e con il risultato finale della conciliazione con la realtà data. Da qui l’importanza della Fenomenologia dello spirito, che gli offre il modello per la comprensione delle oggettivazioni storiche nel loro sviluppo dialettico; contestualmente il “modello-Ady” – la non compromissione con l’esistente – gli consentirebbe di rifiutare l’esito conservatore della “mitologia concettuale” hegeliana.

La tensione tra filosofia della storia ed etica si risolve nel primato di quest’ultima, nel giudizio pratico-negativo sul corso della storia; tuttavia, nel contempo, Lukács comincia ad appropriarsi del metodo dialettico, come mediazione non solo all’interno della sfera estetica, ma anche nella realtà storica.

Coerentemente con l’idea russa, con la comunità delle anime dostojevskiana fondata sui princìpi della bontà e della fraternità, Lukács assegna valenza metafisica soltanto alla soggettività; in questa operazione teorica l’etica, inserita nello spirito assoluto, viene sottratta alla collocazione hegeliana all’interno dello spirito oggettivo. In contrasto con le concezioni di P. Ernst sullo Stato, Lukács approfondisce questo concetto in una lettera del maggio 1915 all’amico: “Se lei dice: lo Stato è una parte dell’io stesso, questo è giusto. Quando lei dice: è una parte dell’anima, allora non è giusto. Tutto ciò con cui entriamo in una qualsiasi relazione è una parte del nostro io stesso (perfino l’oggetto della matematica) ma questo io che «crea» questi oggetti (nel senso della funzione sintetica della ragione) e con questo li lega a sé indissolubilmente, è un concetto astratto, metodologico e la partecipazione dell’oggetto nato in modo siffatto è una relazione metodologica, valida nell’ambito immanente della sfera metodologica. Ciò che è errato è il fatto che si faccia di questo io stesso l’anima, attraverso cui, per la ragione che ogni sostanzializzazione del soggetto significa un divenire sostanziale del corrispondente oggetto, le “formazioni” diventano oggettuali e metafisiche. E una realtà metafisica possiede soltanto l’anima. Questo non è solipsismo. Il problema sta proprio nel fatto di trovare quelle vie che portano da anima ad anima. E tutto il resto è solo strumento, qualcosa di ausiliario” [4].

Si può osservare che, in questa lettera, Lukács avverta la difficoltà di attuazione dell’incontro tra le anime. È possibile realizzare ciò al di fuori dell’ambito delle istituzioni, dal momento che ciò implica anche contrapporsi ai diritti e ai doveri a esse connessi? L’incontro tra le anime non comporta la creazione di una realtà sociale e politica alternativa, anch’essa necessariamente regolata da diritti e doveri istituzionalizzati? O, altrimenti detto, la condanna etica delle oggettivazioni storiche, ovvero il primato dell’etica sulla filosofia della storia, è sufficiente per la costituzione della nuova comunità [Gemeinschaft]?

 

Note:

[1] György Lukács,  Dostojevskij Notizen und Entwürfe [1916], in Ferenc Fehér, Al bivio dell’anticapitalismo romantico, in AA. VV., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, traduz. di E. Franchetti, Firenze, La Nuova Italia 1978, pp. 204-205.

[2] Id., Pensiero vissuto.  Autobiografia in forma di dialogo [1980], traduz., prefaz., a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti 1983, p. 53.

[3] Id., citato in Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Napoli, Guida 1979, p. 44 in nota.

[4] Ivi, p. 45 in nota.

27/03/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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