Lenin contro l’utopismo

Le acute riflessioni di Lenin sulle difficoltà della costruzione del socialismo, a partire dal materiale umano lasciato in eredità dal capitalismo, dopo la presa del potere sia nei Paesi più arretrati che negli anelli forti della catena imperialista.


Lenin contro l’utopismo

Vladimir I.U. Lenin era ben cosciente che se era stato relativamente agevole spezzare la catena imperialista nell’anello più fragile, nel momento in cui non si crea un effetto domino in grado di rompere gli anelli forti, la transizione al socialismo presenterà in un paese arretrato difficoltà notevolmente maggiori. È, infatti, necessario “cominciare a costruir il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità” [1]. Occorre, dunque, tener presenti le profonde inadeguatezze del materiale ereditato da secoli d’autocrazia e passato attraverso le distruzioni della guerra imperialista mondiale e della guerra civile rivoluzionaria.

Non ci si può illudere, a parere di Lenin, che la lotta di classe termini con la presa del potere; al contrario nel processo di transizione al socialismo essa conoscerà momenti di acutizzazione. Si pensi, in primo luogo, alla guerra civile o al risorgere della borghesia con la Nep. Per i bolscevichi, infatti, “vincere la grande borghesia centralizzata” è stato “mille volte più facile” di quanto non lo sia “vincere milioni e milioni di piccoli proprietari, i quali, mediante la loro attività quotidiana, continua, invisibile, inafferrabile, dissolvente, perseguono gli stessi risultati che sono necessari alla borghesia e che restaurano la borghesia” [2]. Anche durante la transizione sarà necessario portare avanti la lotta in seno al Partito tanto contro i riformisti di destra – che metteranno in secondo piano il conflitto di classe cercando un accomodamento con la piccola borghesia – quanto contro gli opportunisti di sinistra che, in nome di parole d’ordine utopiste, saranno pronti a bollare quale tradimento qualsiasi compromesso tattico. Perciò Lenin ricorda la precedente rottura rivoluzionaria del 1905: “milioni di uomini, risvegliatisi a un tratto dal loro lungo sonno e posti immediatamente davanti ai più importanti problemi, non potevano mantenersi a lungo a questa altezza, non potevano fare a meno di una sosta, di un ritorno a questioni elementari, di una nuova preparazione che permettesse di «digerire» insegnamenti così ricchi di sostanza e di dare la possibilità a una massa incomparabilmente più larga di avanzare di nuovo questa volta con passo più fermo, più cosciente, più sicuro e misurato” [3].

La lotta agli opportunisti di sinistra è forse la più complessa, anche perché Lenin – e un po’ tutti i dirigenti rivoluzionari prima di esperire le enormi contraddizioni della transizione al socialismo – si era illuso (o aveva cercato di illudere per necessità propagandistiche) sulla praticabilità immediata d’una serie di obiettivi in realtà straordinariamente complessi. In altri termini tracce dell’utopismo contro cui tanto Marx ed Engels quanto Lenin avevano condotto una battaglia implacabile, sono rinvenibili nel loro stesso pensiero [4]. La realizzazione degli obiettivi democratici, ad esempio, sarebbe stata molto più complessa di quanto Lenin avrebbe potuto immaginare, quando assicurava che il sistema socialista “prenderà immediatamente le misure necessarie per tagliare alle radici il burocratismo e sarà in grado di applicarle sino in fondo, sino alla completa distruzione della burocrazia, sino all’instaurazione di una completa democrazia per il popolo” [5].

Perciò Lenin di contro agli avanguardisti utopisti ricordava la necessità di far avanzare sulla strada della rivoluzione le grandi masse: “non nego in modo assoluto che la rivoluzione possa essere iniziata anche da un partito molto piccolo e portata a una fine vittoriosa. Ma si deve sapere con quali metodi conquistare le masse. A tale scopo è necessario preparare a fondo la rivoluzione. Ma ecco dei compagni i quali chiedono di rinunciare immediatamente all’esigenza delle «grandi» masse” [6]. Anzi, Lenin ci tiene a sottolineare che “quando la rivoluzione è già preparata in misura sufficiente, il concetto di «massa» è un altro: alcune migliaia di operai non costituiscono già più una massa. Questa parola comincia a significare qualcosa di diverso. Il concetto di «massa» cambia in quanto, con questa parola, s’intende la maggioranza di tutti gli sfruttati, e non soltanto la maggioranza degli operai” [7].

Perciò Lenin non può che criticare in quanto avventuriste quelle posizioni che rischiano di provocare la pericolosissima scissione fra partito e classe: “in questa disputa aveva assolutamente torto il compagno Trotski, con la sua politica mirante a «scuotere i sindacati» e non il compagno Tomski. Poiché questa politica, anche se fosse parzialmente giustificata dai «nuovi compiti e metodi» (tesi 12 di Trotski), sarebbe in questo momento e in questa situazione assolutamente inammissibile perché rischierebbe di condurre alla scissione” [8]. Anzi, Lenin sottolinea con forza che senza una politica corretta i rivoluzionari non potranno mantenere il potere: “Trotski e Bukharin presentano le cose in questo modo: vedete, noi ci preoccupiamo dello sviluppo della produzione, voi invece soltanto della democrazia formale. Questa immagine è falsa, poiché il problema si pone (e, da marxisti, si può porre) soltanto così: senza una giusta impostazione politica una determinata classe non può mantenere il suo dominio, e non può quindi neppure assolvere il suo compito nella produzione” [9]. Altrettanto rovinosa sarebbe una scissione fra il partito e il sindacato, in particolare in un paese arretrato come la Repubblica Federale Socialista Sovietica Russa in cui la classe operaia era una ristretta minoranza: “la politica è l’espressione concentrata dell’economia, ho ripetuto nel mio discorso, perché mi ero già sentito rimproverare la mia impostazione «politica», rimprovero assolutamente privo di senso e inammissibile in bocca a un marxista. La politica non può non avere il primato sull’economia. Ragionare diversamente significa dimenticare l’abbiccì del marxismo. […] In altre parole, l’impostazione politica significa: se noi trattiamo i sindacati in modo errato, sarà la fine del potere sovietico, della dittatura del proletariato. (Una scissione tra il partito e i sindacati, se il partito avesse torto, farebbe certamente crollare il potere sovietico in un paese contadino come la Russia)” [10]. Allo stesso modo, Lenin critica aspramente chi pensa di poter far sviluppare la rivoluzione con parole d’ordine astratte, con una fraseologia rivoluzionaria senza ricorrere alle necessarie e prosaiche misure concrete: “i premi in natura e i tribunali disciplinari di compagni hanno cento volte più valore per prendere in mano l’economia, per dirigere l’industria, per elevare la funzione dei sindacati nella produzione, delle parole completamente astratte (e perciò vane) sulla «democrazia della produzione», la «simbiosi» ecc.” [11].

 

Note:

[1] Vladimir I.U. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 436.

[2] Ivi, p. 430.

[3] Id., Alcune particolarità dello sviluppo storico del marxismo [23 dicembre 1910], in op. cit., p. 141.

[4] Su questa questione, indispensabile per comprendere le difficoltà incontrare dal primo processo di transizione al socialismo, delle considerazione estremamente significative si trovano in diversi scritti di Domenico Losurdo, cfr. ad esempio Utopia e stato d’eccezione, Laboratorio Politico, Napoli 1996 e Fuga dalla storia?, La città del Sole, Napoli 2005.

[5] Vladimir I.U. Lenin, Stato e rivoluzione [agosto-settembre 1917], in op. cit., p. 322.

[6] Id., Discorso in difesa della tattica dell’Internazionale comunista, in op. cit., p. 566.

[7] Ivi, p. 565.

[8] Id., Ancora sui sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski e di Bukharin [25 gennaio 1921], in op. cit., p. 493.

[9] Ivi, p. 503.

[10] Ivi, p. 502.

[11] Ivi, p. 503.

22/10/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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