Il salario minimo legale

Un’analisi sul terreno della teoria economica del salario minimo ci dice che esso non può sostituire la lotta di classe e il compito storico di superare il capitalismo.


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Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale,
applicata secondo questo principio,
può essere utilmente introdotta nelle società moderne,
noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti,
e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose,
senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale

Camillo Benso Conte di Cavour

Già Carla Filosa ha trattato l’argomento del salario minimo su questo giornale, esaminando le diverse proposte di PD, 5 Stelle e Leu ed evidenziando gli inganni ideologici che vi stanno dietro. Federico Giusti dal canto suo ha colto le opportunità e i rischi derivanti da questo istituto. Nel presente articolo mi propongo di farne una lettura con le “lenti” delle tre principali scuole di teoria economica, quella monetarista, quella keynesiana e quella legata alla critica marxiana dell’economia politica.

I monetaristi, da bravi liberisti, sono contrari a ogni forma di ingerenza statale nel “libero” mercato del lavoro. Per loro esiste un livello “naturale” dei salari, che viene raggiunto nel gioco fra domanda e offerta. Quindi non è opportuno che con provvedimenti di legge si alteri questo equilibrio. Esiste anche, per i seguaci di questa scuola, un livello ottimale della disoccupazione, denominato Non-Accelerating Inflation Rate Of Unemployment (Nairu). Come si intuisce dalla denominazione, si tratta del livello di disoccupazione al di sotto della quale si genera inflazione. Infatti, per questa scuola i profitti non hanno origine dal plusvalore, dal lavoro non pagato, ma sono un ricarico, un “mark up” in gergo, che i capitalisti applicano ai loro costi di produzione per determinare i prezzi. Se diminuisce, per effetto di una politica statale espansiva, la disoccupazione, diminuisce l’offerta di braccia da parte dei lavoratori in confronto alla domanda di forza-lavoro da parte delle imprese. I lavoratori disporranno di un maggiore potere contrattuale, i salari aumenteranno e, dato il mark up applicato, aumenteranno i prezzi. L’aumento dei prezzi farà scendere i salari reali al livello precedente i provvedimenti statali e con ciò la domanda reale.

Dunque, ogni intervento dello stato per ridurre la disoccupazione al di sotto del Nairu, è inutile e produce solo inflazione. La presenza di una certa dose di disoccupazione, di un esercito industriale di riserva, evidentemente, è considerato un fenomeno naturale e non deve essere contrastata. Naturalmente tutto questo discorso va a gambe all’aria se si ipotizza che i profitti non sono un ricarico supposto intangibile che i capitalisti applicano ai loro costi, una sorta di miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma un residuo che resta a loro dopo aver pagato questi costi, i quali tendono, sia pure con una serie di mediazioni, a oscillare intorno al valore delle merci. In sostanza i profitti non vengono fuori dal nulla, la loro fonte è la differenza fra il valore della forza-lavoro (approssimando i salari) e il valore aggiunto dai lavoratori nel processo produttivo. Cioè il discorso monetarista regge solo se si esclude che nella dialettica fra le classi, una delle due guadagni a scapito dell’altra in un gioco a somma zero.

Ma proseguiamo con i monetaristi. L’introduzione di un salario minimo forza i rapporti fra le classi e spinge al rialzo quei salari che il gioco “libero” della concorrenza aveva invece tenuto a un livello inferiore. Questo potrebbe perfino generare una spinta al rialzo degli altri salari. Quindi, per gli stessi motivi visti prima, si genera inflazione che per questi apologeti è il massimo male da combattere. Naturalmente ogni capitalista sa che il massimo male è la riduzione dei profitti che consegue all’aumento dei salari e sa anche che a fronte di tale aumento non può agevolmente salvarsi aumentando i prezzi. Però non è bello dirlo esplicitamente e quindi è meglio prendersela con l’inflazione, per combattere la quale vanno calmierati i salari. Si ottiene lo stesso risultato ma mostrando altruismo, fingendo di parteggiare per il bene comune, non per la propria tasca. Naturalmente esiste un’altra alternativa per fare fronte al maggior costo del lavoro: tagliare l’occupazione e la produzione, con il rischio di non soddisfare le richieste dei clienti. E anche in questo caso il “bene comune” sconsiglia che lo stato si ingerisca nelle relazioni sociali.

Diversa è la posizione dei keynesiani. Per loro la questione cardine, la chiave per assicurare la prosperità, non è l’inflazione ma la domanda aggregata che, quando non è in grado di assorbire tutta la produzione, deve essere sostenuta dalla politica economica. Un aumento dei salari minimi farà aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori più deboli e con ciò ad espandere la domanda. Anche le preoccupazioni dei sovranisti in odore di xenofobia, in contiguità anche con qualche keynesiano, parrebbero destinate a diminuire intervenendo sui salari minimi. I lavoratori dei paesi più industrializzati si sentono danneggiati dalla concorrenza dei bassi salari, spesso – ma non solo – applicati ai lavoratori immigrati, l’anello più debole del proletariato. Un salario minimo a livello adeguato tende a diminuire la concorrenza dei lavoratori marginali dando forza alle rivendicazioni dei lavoratori. Oltre a far aumentare il potere d’acquisto in assoluto ridistribuisce la ricchezza in favore delle classi meno abbienti, che sono quelle aventi una maggiore propensione al consumo e riduce le disparità salariali che sono comunque un elemento negativo. È da rilevare inoltre che i costi delle retribuzioni troppo basse finiscono per essere scaricati sui contribuenti che con le loro tasse devono finanziare le esenzioni fiscali in favore dei più poveri, le agevolazioni loro concesse per la previdenza, la casa, la sanità, l’istruzione ecc.

Infine viene sostenuto, con argomenti ragionevoli, che se cresce il costo del lavoro, le imprese cercheranno modi più efficienti di produrre, investendo in tecnologie che risparmiano sul fabbisogno di lavoro e in questo modo contribuiranno al progresso economico, anche se – va detto – ne risentirebbe negativamente l’occupazione.

Ma riguardo all’importo di tale salario neppure i keynesiani esagerano. Per esempio Hyman Philip Minsky, economista americano morto nel 1996, immeritatamente tornato di moda dopo la bolla dei subprime del 2007, proponeva che lo stato assicurasse un lavoro garantito ai disoccupati. Ma questo lavoro avrebbe dovuto essere mal pagato per non elevare i salari di mercato: “I vincoli sui salari monetari e sul costo del lavoro sono corollari dell’impegno a mantenere la piena occupazione”. Parole dette a proposito di un’altra questione ma applicabili anche al nostro tema.

Cosa potrebbe dire in merito, invece, un marxista? La prima cosa è che il ragionamento dei monetaristi è solo un espediente per difendere gli interessi dei capitalisti. Come si è accennato, se si elimina il presupposto che i profitti derivano da un ricarico, anziché da lavoro non pagato, l’edificio non sta in piedi. La realtà è che un salario minimo a livello adeguato e in genere ogni espediente che tuteli i salari provoca soprattutto una redistribuzione dei redditi in favore dei lavoratori e a danno dei capitalisti. Però non siamo di fronte a un esito definitivo, in quanto esistono altri tipi di comportamenti, assai diversi dal mark up, per vanificarlo. Infatti per Marx, a differenza dei keynesiani, la domanda aggregata è solo una faccia della medaglia. L’altra è il saggio medio del profitto che tende a decrescere (a dispetto degli assertori del mark up!) con l’introduzione di tecnologie che risparmiano lavoro e di conseguenza modificano la composizione del capitale, cioè il rapporto fra il valore dei mezzi di produzione e la forza-lavoro impiegata. Se il saggio del profitto non è più remunerativo – qualunque sia la causa di questo calo, sia essa l’accresciuta composizione del capitale o l’aumento dei salari – i capitalisti cesseranno di investire, dirottando magari i loro soldi nella finanza o in investimenti all’estero. Altro che inflazione: il risultato – associato magari anche a qualche innovazione tecnologica indotta, oppure, che fa lo stesso, all’intensificazione dei ritmi di lavoro, riduzione delle pause ecc. – sarà la disoccupazione e la deflazione. Nella nuova condizione il potere contrattuale dei lavoratori crollerà e i profitti potranno almeno in parte ripristinati attraverso la caduta dei salari e dei diritti dei lavoratori.

Il premier Conte ha potuto dichiarare che con questo provvedimento verrà eliminato lo sfruttamento. Da un governo delle bufale non ci si poteva aspettare altro. Se il lavoratore non potesse essere sfruttato, non sarebbe nemmeno assunto, non sarebbe un lavoratore, ma un disoccupato. Se producesse una ricchezza equivalente al valore della forza-lavoro, cioè al salario ricevuto, il “lavoro necessario di Marx”, non ci sarebbe plusvalore e quindi neppure profitti e nessun capitalista accetterebbe di operare in una simile circostanza. La condizione perché un lavoratore possa vendere la sua forza-lavoro è che produca plusvalore, che venga sfruttato. Quindi provvedimenti a tutela dei salari possono combattere tutt’al più il super-sfruttamento, cioè tendere a impedire che i settori più svantaggiati del proletariato possano essere retribuiti al di sotto degli standard che consentano una vita decorosa per loro e per la loro famiglia. La citazione di Cavour in epigrafe spiega bene gli scopi di questa “carità legale” elargita per ottenere consensi e non mettere in discussione i rapporti sociali capitalistici. Il liberale Cavour mette lo Stato al posto delle opere pie, ma lo scopo è lo stesso del “concorrente”, della dottrina sociale della Chiesa, esposta nella Rerum Novarum. Niente di rivoluzionario, ma solo, nel migliore dei casi, una riduzione delle diseguaglianze e una redistribuzione, sia pur auspicabile, a favore di alcuni segmenti di lavoratori.

Se tutto questo può essere detto in generale, si possono aggiungere altri elementi con riferimento alla specifica situazione attuale e alle proposte in campo. Una prima osservazione che viene spontanea è che si chiude la stalla quando i buoi sono scappati. Dopo aver introdotto mille forme si super-sfruttamento, in buona parte attraverso rapporti travestiti da lavoro autonomo e non salariato, è poco probabile che il provvedimento riesca effettivamente a rispondere alla gravissima condizione di tanti lavoratori precari. Né può essere una risposta sufficiente per coloro che sono costretti a lavorare a part-time, esistendo oltretutto per i padroni la possibilità di ridurre solo formalmente e non di fatto l’orario di lavoro retribuito e con ciò di risparmiare sulla retribuzione per ogni ora effettivamente lavorata.

Altro aspetto è che l’introduzione del salario minimo, se non accompagnata da una norma che impedisca di scendere al di sotto dei minimi previsti dai contratti nazionali, potrebbe indurre a una riduzione delle retribuzioni di molti lavoratori contrattualizzati, in sostanza a una deroga in peggio dei contratti stessi. Infatti se il salario minimo legale potesse essere applicato in alternativa a quello contrattuale, molti “datori di lavoro” (ma il lavoro non lo eroga il lavoratore?) saranno ben lieti di farlo. E negli attuali rapporti di forza frutto delle politiche liberiste e dell’arrendevolezza, se non peggio, della “sinistra”, sarà ben difficile contrastarli. Dovrebbe esserci quindi una norma, di cui non si vede l’ombra, che stabilisca che i contratti nazionali non possano essere derogati qualora più favorevoli – e lo sono regolarmente rispetto ai minimi legali introdotti in vari paesi europei – per il lavoratore. Attualmente invece il “datore” (in realtà prenditore) di lavoro ha facoltà di abbandonare la propria organizzazione di rappresentanza, e con ciò di smettere di applicare i contratti collettivi.

Quindi questa “concessione” non può sostituire la lotta di classe e soprattutto la formazione di un partito e di un blocco sociale in grado di superare i limiti del modo di produzione capitalistico il quale, dopo una fase storica indubbiamente gravida di progresso, sta diventando un ostacolo allo sviluppo delle potenzialità umane, un incubatore di guerre e una minaccia per l’intero ecosistema.

03/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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