La crisi, questa sconosciuta - Parte III

Terza parte dell’escursione a tappe tra le lacune dell’economia politica. Marx e le cause della crisi.


La crisi, questa sconosciuta - Parte III

Terza parte dell’escursione a tappe tra le lacune dell’economia politica. Marx e le cause della crisi. 

di Ascanio Bernardeschi 

“Le idee della classe dominante sono
in ogni epoca le idee dominanti”
(Karl Marx, L'ideologia tedesca) 

Venendo alle cause, pur avendo ciascuna crisi delle sue peculiari caratteristiche, esse possono essere classificate in due branche principali, tra le quali c'è sempre nella realtà una interazione: crisi di realizzo, o da domanda, e crisi legata all'andamento del saggio del profitto

Iniziamo descrivendo la crisi di realizzo o insufficienza della domanda. Gli schemi di riproduzione dimostrano che il sistema può riprodursi senza disturbi, solo a patto che vengano mantenute determinate proporzioni. Qualsiasi sproporzione significativa può causare una crisi. Tale sproporzione non si riferisce solo ai rapporti tra i diversi settori produttivi, come nel caso di una eccessiva capacità produttiva di un'industria rispetto alle necessità delle altre. Questo è certamente un caso ricorrente, ma esiste anche la sproporzione tra produzione e consumo. Difatti il motivo principale per cui la domanda può non essere sufficiente ad assorbire tutta la produzione è che la distribuzione del reddito è iniqua. Ai lavoratori va solo una parte del valore da essi aggiunto nel processo produttivo. La rimanenza, il plusvalore, va ai profitti e alle rendite. 

Con l'evolversi delle tecnologie e la conseguente possibilità di produrre i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice con meno dispendio di lavoro, una frazione sempre più piccola della ricchezza prodotta va ai lavoratori e una sempre più grande ai capitalisti. Questi ultimi potrebbero spenderla in beni di lusso ma, per quanto ingenti siano tali consumi, il consumo improduttivo contraddice la stessa natura del capitalista, che è un funzionario del capitale, la cui vocazione è l'accumulazione. Debbono quindi spenderla per accrescere la capacità produttiva.
Ma a chi vendere il prodotto di questa nuova capacità? Agli altri capitalisti?
Certo questo mercato assume sempre più importanza, ma è assurdo ritenere che si possa produrre sempre più mezzi di produzione per venderli ad altri capitalisti che accresceranno i loro mezzi di produzione per produrre altri mezzi di produzione e così via. È vero che il capitalista tende ad astrarre dai bisogni reali per concentrarsi sul profitto. Però può farlo solo entro certi limiti. A lungo andare la crisi gli ricorderà che non si può produrre senza un rapporto col consumo e con i bisogni. 

Un altro motivo per cui è impensabile una accumulazione indisturbata è quello che i capitalisti investono solo se prevedono un sufficiente ritorno del capitale investito, cioè se ci sono le condizioni per fare profitti a sufficienza. Una diminuzione di queste aspettative può arrestare il processo di accumulazione.
Già gli economisti classici, di fronte all'evidenza, avevano teorizzato che vi fosse una tendenza di lungo periodo alla diminuzione del saggio medio del profitto, pur individuandone in modo non pertinente le cause. Marx, nella sua legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, individua questa causa nel progressivo aumento della composizione del capitale o, che è la stessa cosa, nella tendenza a sostituire lavoratori con macchine. Egli non sostiene che vi sia una ineluttabile caduta, ma che agiscono dei fattori, che chiama cause antagonistiche, che mitigano, e in alcuni casi invertono, questa tendenza. Il risultato della legge sarà quindi la produzione di scossoni discontinui nel tempo, in cui si inceppa l'accumulazione. Tra l'altro Marx, in un passo delle Teorie del Plusvalore, evidenziò come la contrazione iniziale della spesa per investimenti in un'industria possa innescare una spirale con conseguenze in tutto il sistema determinando una generalizzata carenza di domanda e disoccupazione. Egli descrive un meccanismo che rassomiglia molto a quello del moltiplicatore keynesiano, pur non denominandolo in questo modo. 

Per quanto riguarda le cause antagonistiche esse, quando non riguardano fattori esogeni, quale per esempio l'apertura di nuovi mercati, hanno a che vedere, sostanzialmente con la svalorizzazione sia del capitale costante che della forza lavoro. Si tratterebbe quindi di un ristoro delle condizioni di profittabilità. Però a scapito della tenuta della domanda.
Marx, come se sentisse il bisogno di prevenire gli argomenti sia di coloro che vedono solo il sottoconsumo, sia di quelli che prendono in considerazione solo la caduta del saggio del profitto, sentenziò che la crisi è la “risoluzione violenta di tutte le contraddizioni del modo di produzione capitalistico”, che possono essere ricondotte alla contraddizione tra il carattere privato della produzione, che si è imposto con lo sviluppo del capitalismo, e il carattere privato dell'appropriazione. Le crisi ci dicono che tale modo di produzione non è né naturale né eterno ed è destinato a fare spazio, pena l'arretramento della nostra civiltà, a un modo superiore di produrre, in cui le scelte vengono effettuate dai “produttori associati” su base consapevole, con riguardo ai bisogni umani e non demandate alla spontaneità del mercato e guidate dalla brama di arricchimento privato. 

Per la prima parte:
http://lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta.html

Per la seconda parte:
http://lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-ii.html

 

 

Glossario:

Capitale costante, Capitale variabile e Plusvalore
Per Marx nello scambio non avviene nessuna produzione di valore e quindi nessuna valorizzazione del capitale. Se un capitalista si arricchisce nello scambio significa che lo fa a scapito di un altro. Ma per la classe dei capitalisti nel suo insieme non avviene nessun arricchimento. Presupponendo invece solo scambi tra equivalenti, l'arricchimento del capitalista può avvenire solo nella produzione. Egli impiega il denaro in suo possesso per acquisire i fattori della produzione che si distinguono in capitale costante e capitale variabile. Il capitale costante (C) è composto dai mezzi di produzione (macchine, immobili, materie prime e ausiliarie, combustibili e forza motrice ecc., oggi ha grande rilevanza anche il software, i brevetti e altri beni immateriali, ma pur sempre prodotti del lavoro). I mezzi di produzione, essendo merci, vengono acquistati sul mercato al loro valore, dato dal lavoro socialmente necessario per la loro produzione. Il carattere utile del lavoro fa sì che essi, via via che si consumano nel processo produttivo, si trasformino in un nuovo valore d’uso, il prodotto. Se non si trasformassero in un un prodotto utile, andrebbe perduto il loro valore d'uso e con esso anche il loro valore. Invece, trasformandosi, il loro valore viene trasmesso, trasferito in quello del nuovo prodotto. In sostanza essi perdono la loro forma originaria di valore d’uso ma, trasformandosi in uno nuovo, conservano il loro valore nel prodotto. La denominazione di capitale costante (C) deriva quindi dal fatto che il prodotto riceve dai mezzi di produzione solo il valore da essi perso, senza alcun incremento. L'altro fattore che il capitalista acquista è la forza-lavoro, o meglio il diritto di utilizzarla nella produzione per un dato tempo. Anche la forza-lavoro viene acquistata, come ogni altra merce, al suo valore che corrisponde al lavoro socialmente necessario per la sua riproduzione, cioè al lavoro condensato nei mezzi di sussistenza, che, sulla base di standard storicamente dati, sono necessari per la famiglia del lavoratore. Il carattere astratto sociale del lavoro, permette di aggiungere nuovo valore al prodotto. Qui non conta il particolare contenuto utile del lavoro, ma come dispendio di forza lavoro umana, oggettivazione di tempo di lavoro, che è la fonte del valore. Poniamo che tale lavoro, chiamato lavoro necessario, corrisponda a 3 ore giornaliere.
Il diritto di utilizzo della forza-lavoro viene attuato facendo lavorare l'operaio per l'intera durata dell'orario di lavoro contrattuale, per esempio per 8 ore giornaliere. Se il lavoratore produce secondo standard sociali, cioè se il suo lavoro corrisponde a quello socialmente necessario per il prodotto del settore in cui è impiegato, in un giorno aggiunge al prodotto nuovo valore, equivalente a 8 ore.
Supponendo che il valore del capitale costante acquistato e poi consumato nella produzione condensi 6 ore di lavoro passato, il valore del prodotto sarà 6 di lavoro trascorso, “morto”, più 8 ore di lavoro “vivo” aggiunto = 14 ore. La messa in movimento della forza-lavoro per l’intera durata dell'orario di lavoro contrattuale consente quindi, oltre che a trasferire nel prodotto il valore del capitale costante (6), la riproduzione del suo valore (3 ore), e la produzione di un plusvalore (8-3=5 ore). Quindi il lavoro è l’unica fonte dell’eccedenza del capitale valorizzato su quello impiegato. Ed è per questo che la parte del capitale utilizzata per impiegare lavoratori viene da Marx denominata capitale variabile (V). In pratica è come se il lavoratore impiegasse 3 ore per produrre un equivalente del suo salario sociale e 5 ore per il capitalista.
Il capitale utilizzato per acquistare forza-lavoro, in considerazione della sua proprietà di immettere nel prodotto un valore superiore al suo valore di partenza, è detto capitale variabile (V). L'eccedenza che va al capitalista è detta invece plusvalore (Pv). Il plusvalore è anche la fonte di ogni guadagno dei capitalisti, siano essi industriali, commerciali, bancari ecc. Tutti i guadagni che questi soggetti realizzano non sono altro che quote di plusvalore scaturente dalla produzione e realizzato (e ripartito tra i vari capitalisti) nella circolazione.
Il valore finale del prodotto è dato quindi da C+V+Pv (capitale costante più capitale variabile più plusvalore). Il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile costituisce il saggio di sfruttamento ed è chiamato saggio del plusvalore (Pv/V) Nel nostro caso è 5/3 = 167% circa. Riferimenti: K. Marx, Il Capitale, Libro I, sezione terza, Ed. Riuniti, Roma, 1964.  

Composizione del capitale
Il rapporto tra capitale costante e capitale variabile svolge un ruolo importante nell'analisi di Marx. Egli distingue tra composizione tecnica riguardante la composizione tra i beni che fungono da capitale costante e l'insieme della forza lavoro utilizzata, e composizione di valore, che definisce il vero e proprio rapporto di valore tra il capitale costante e il capitale variabile (C/V). Fra le due esiste uno stretto rapporto in quanto la composizione di valore e le sue variazioni dipendono da quella tecnica. Marx denomina la composizione di valore del capitale composizione organica proprio per rimarcare questo rapporto.
Se aumenta la quota di capitale destinata all'acquisto di mezzi di produzione in confronto a quella destinata all'acquisto di forza-lavoro, aumenta la composizione organica del capitale e viceversa. K. Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo 23, Ed. Riuniti, Roma, 1964.  

Moltiplicatore degli investimenti
Se un'economia non è in piena occupazione, cioè ha forza lavoro e mezzi di produzione inutilizzati perché c'è carenza di domanda, una spesa aggiuntiva in investimenti si traduce immediatamente un incremento della domanda di pari importo. Ma le imprese che si accingono a soddisfare questa domanda, per poterlo fare devono acquisire nuovi mezzi di produzione presso altre imprese e nuova forza lavoro. I nuovi assunti avranno a disposizione nuovo reddito, che spenderanno in buona parte. Anche le imprese che forniscono mezzi di produzione alle prime, vedranno aumentata la domanda e dovranno quindi sia assumere nuovi lavoratori che acquisire nuovi mezzi di produzione, attivando così a loro volta una domanda aggiuntiva di beni di consumo e di mezzi di produzione nei confronti di altre imprese... e così via. Il meccanismo, già noto a Marx, è stato formalizzato da Keynes nel modo seguente.
Per non rimanere invenduto, il prodotto di una nazione, come risulta anche dagli schemi di riproduzione, deve essere speso o in consumi o in investimenti. Chiamando Y il reddito nazionale, C il consumo, I gli investimenti, allora il reddito prodotto deve essere uguale ai consumi più gli investimenti. Cioè

(1)
Y = C + I
Chiamiamo ora c la propensione al consumo (cioè la quota di reddito che mediamente viene consumata). Il valore di c è compreso tra zero (nel caso estremo che tutto il reddito venga risparmiato) e uno (nel caso opposto in cui tutto il prodotto venga speso in consumi). Il consumo è dato allora dal prodotto tra c e Y. Sostituendo detto valore a C della (1) avremo

(2)
Y = cY + I
Trasportando cY al primo membro e raccogliendo Y, otteniamo
Y (1 - c) = I
e, portando 1-c al denominatore del secondo membro,

(3)
Y = I / (1 - c)

La (3) ci dice che un aumento degli investimenti di mille euro, produce, per effetto della domanda indotta da detto investimento un aumento complessivo della domanda pari a 1.000/(1-c). Rammentando che c è compreso tra 0 e 1, e quindi il denominatore è minore di 1, il risultato è superiore a mille. Poiché è probabile che c sia più vicino a 1 che a zero, 1-c sarà più vicino a zero che a 1. Di conseguenza l'espressione alla destra della (3) avrà un denominatore piccolo e i mille euro iniziali di investimento potranno innescare una domanda aggiuntiva di alcune migliaia di euro. Facendo un esempio numerico, se c è uguale a 0,8, cioè se l'80 per cento dei redditi viene consumato, e quindi 1-c è uguale a o,2, allora un investimento aggiuntivo di mille euro comporterà un aumento della domanda pari a

1000 / 0,2 = 5.000


Nell'ipotesi che il sistema economico non sia in piena occupazione ogni investimento addizionale comporterà un aumento della domanda, e quindi del reddito pari a 5 volte l'investimento aggiuntivo. La stessa cosa avviene se lo Stato pone in essere una domanda aggiuntiva attraverso la spesa pubblica o comunque se si introduce qualsiasi altro fattore che aumenta la domanda (per esempio un aumento del saldo tra le esportazioni e le importazioni). Dato che il moltiplicatore è tanto maggior quanto più alto è la propensione al consumo, hanno ragione gli esperti che hanno criticato il bonus di Renzi degli 80 euro e previsto il suo fallimentare risultato. Avendolo dato a soggetti che hanno un reddito medio e che avevano visto falcidiati i loro risparmi dalla crisi, solo una limitata parte del bonus è stata da loro spesa, mentre il resto è servito per ripristinare le loro riserve monetarie. Inoltre per finanziare il bonus, si sono sottratte risorse per altri interventi sociali e quindi l'incremento netto di spesa pubblica è stato modesto. Se si fosse dato invece il bonus agli incapienti, lo avrebbero con certezza speso nella quasi totalità e quindi il risultato sarebbe stato superiore. Specialmente s enon fossero stati effettuati tagli in altri comparti della spesa sociale.

La (3) può essere più semplicemente ricavata nel modo che segue. Sia s = 1-c la propensione al risparmio, scriviamo la condizione di uguaglianza fra risparmi e investimenti

(2 bis)
sY = I
da cui ricaviamo

(3 bis)
Y = I / s
La (3bis) coincide con la (3) in quanto s=1-c.

Dati un investimento aggiuntivo e la propensione al risparmio, si raggiunge l'uguaglianza tra risparmi e investimenti attraverso l'aumento del reddito indotto da tale investimento, che determina l'adeguamento dei risparmi. Gli economisti “ortodossi”, al tempo di Keynes, sostenevano che i risparmi, fornendo le risorse necessarie, determinano gli investimenti. Vediamo invece che quando vi sono risorse produttive inutilizzate, sono gli investimenti che determinano i risparmi.
Riferimento: J.M. Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Capitolo 10, Ed. Utet, Torino, 1978.  

 

20/02/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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