Il vertice per la democrazia è l’apice dell’ipocrisia

In questo articolo, pubblicato in “Friends of Socialist China”, Dee Knight analizza ed espone la vera natura del “Vertice per la Democrazia” del presidente Biden. L’invito alle autorità di Taiwan è un attacco diretto alla “politica di un’unica Cina”, base delle relazioni Cina-USA dai tempi del comunicato di Shanghai del 1972.


Il vertice per la democrazia è l’apice dell’ipocrisia

Il “vertice per la democrazia” di Biden del 9-10 dicembre ha già provocato una tempesta. La Casa Bianca dice che il summit verterà su “tre temi principali: la difesa contro l'autoritarismo, la lotta alla corruzione e la promozione del rispetto per i diritti umani” – mirando chiaramente agli “Stati autocratici” nel mirino di Washington: Cina, Russia, Iran, Venezuela, Cuba e Nicaragua.

Il governo di Taiwan è fra gli oltre cento invitati, il che fa sospettare che uno degli obiettivi chiave sia il riconoscimento di fatto dell’isola come Stato sovrano. In questo modo continua lo svuotamento sistematico del Comunicato di Shanghai firmato nel 1972 da Richard Nixon e Henry Kissinger, con il quale gli USA avevano riconosciuto la politica di un’unica Cina e promettevano di ritirare le installazioni militari da Taiwan. Ora Taiwan pullula di installazioni militari di ogni sorta e ci sono istruttori USA in loco, altra violazione del Comunicato di Shanghai. È una campagna di pressione contro la Cina, che minaccia la pace mondiale, nonostante il recente colloquio amichevole fra Biden e Xi.

“Il vertice non avrà successo. È come uno strumento al contempo troppo smussato e troppo sottile” hanno scritto David Adler, direttore di Progressive International (Internazionale Progressista, organizzazione politica globale che unisce attivisti, leader politici e organizzazioni progressiste di sinistra, ndtr), e Stephen Wertheim, vicedirettore del Quincy Institute (istituto di ricerca sul militarismo USA, ndtr). “Può accelerare la rotta fallimentare imboccata dalla politica estera USA, che divide il mondo in campi ostili, dando priorità al conflitto sulla cooperazione” hanno scritto. Esattamente come sta accadendo.

Gli ambasciatori a Washington di Cina e Russia hanno diffuso un comunicato congiunto pubblicato il 27 novembre per dichiarare che il summit “alimenterà gli scontri ideologici e porterà ad una spaccatura nel mondo, con la creazione di nuove «linee di divisione»”. E che gli USA si “sono autolegittimati a definire … quali Paesi sono «democratici» e quali no…”.

“La democrazia non è prerogativa di un particolare Paese o gruppo di Paesi, ma è un diritto universale di tutti i popoli” prosegue il comunicato congiunto sino-russo. “Essa può essere realizzata in modi diversi, e non esiste un modello che vada bene per tutti i Paesi. Il funzionamento del percorso scelto da un Paese dipende da quanto esso sia adatto alla realtà di questo, … e da sviluppo economico, stabilità e progresso sociale, nonché dal miglioramento delle condizioni di vita che riesce a conseguire per il popolo. In sostanza, dipende dal sostegno del popolo e sarà valutato nei termini del contributo che darà al progresso umano.” (E per quanto riguarda il sostegno popolare, pare che la Cina se la cavi meglio degli USA.)

Il Dipartimento di Stato, in un apprezzabile momento di sincerità, ha dichiarato che il summit “mostrerà anche una delle prerogative che rendono unica la democrazia: la capacità di riconoscere le proprie imperfezioni”. In un articolo sul “New Yorker” del 30 novembre Sue Halper afferma che Freedom House ha valutato lo stato della democrazia negli USA ben al di sotto di Paesi dell’America Latina e dell’Europa dell’Est, “citando brogli elettorali, l’influenza dei soldi sulla politica, e la privazione dei diritti delle persone di colore tra i motivi della valutazione negativa”. L’articolo commenta: “Ospitare un vertice per potenziare la democrazia in tutto il mondo quando la nostra è, nella migliore delle ipotesi, in difficoltà, è alquanto velleitario”.

Halpern cita l’Istituto Internazionale per la Democrazia e l’Assistenza Elettorale, organizzazione intergovernativa con sede a Stoccolma, che ha incluso gli USA alla sua lista di democrazie “in regressione”: “L’evidente deterioramento della democrazia negli USA, con la crescente tendenza a contestare la credibilità dei risultati elettorali, i tentativi di sopprimere la partecipazione (alle elezioni), e una polarizzazione fuori controllo... è uno degli sviluppi più preoccupanti” ha affermato Kevin Casa-Zamora, segretario generale dell’organizzazione. Ha osservato inoltre che “la violenta contestazione delle elezioni del 2020 in assenza di prove di frode si è ripetuta, con modalità diverse, in luoghi eterogenei, quali Myanmar, Perù, Israele”.

Si aggiungano Venezuela, Nicaragua, Cina e Iran a questa lista (come inizio). Le elezioni nazionali tenute a novembre sia in Venezuela che in Nicaragua sono state denunciate a gran voce “in anticipo” a Washington e tra i media mainstream USA. Oltre 300 osservatori di 55 Paesi, tra cui la UE e il Centro Carter erano presenti alle votazioni in Venezuela. Il capo della delegazione UE ha affermato che “tutto procedeva regolarmente”, quando 19 stati su 23 venivano assegnati alla coalizione chavista, secondo un rapporto del Consiglio per gli Affari dell’Emisfero.

Biden: le elezioni in Nicaragua una “farsa”

In Nicaragua oltre 165 rappresentanti internazionali e 67 giornalisti hanno visitato ben più di cento seggi elettorali sparsi per il Paese. Mentre l’amministrazione Biden ha bollato come “farsa” l’elezione, le osservazioni dei delegati contraddicono queste accuse. Quello a cui hanno assistito sono state elezioni efficienti, trasparenti, con un’ampia affluenza e la partecipazione di sei partiti di opposizione, compresi i due alla guida del governo precedente. Il presidente Biden ha liquidato il voto come “una farsa elettorale”. L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha richiesto l’annullamento dei risultati e la convocazione di nuove elezioni, in violazione delle regole internazionali e della stessa OSA, che impongono il rispetto della sovranità delle nazioni.

“Se le elezioni in Nicaragua sono state fraudolente, dove è la prova?” ha chiesto il Council on Hemispheric Affairs (COHA ) in un rapporto uscito in loco il 16 novembre. Il rapporto di John Perry, da Masaya, Nicaragua, fornisce una descrizione dettagliata del processo elettorale, e soprattutto respinge decisamente gli attacchi dei vari media USA. Risponde specificamente al professor William Robinson di NACLA (Congresso Nordamericano sull’America Latina, ndtr), che aveva sostenuto che “mancava totalmente ogni garanzia contro le frodi”. Il rapporto COHA risponde in modo dettagliato alle accuse di Robinson e a quelle dei media ufficiali USA – che riprendevano acriticamente i giornali locali di opposizione finanziati generosamente da NED e USAID (National Endowment for Democracy e US Agency for International Development sono entrambe agenzie di restyling della CIA, utilizzate per promuovere destabilizzazioni e cambi di regime, ndtr).

Le elezioni alla presidenza vedevano cinque candidati contrapposti a Daniel Ortega. Il “New York Times” ha affermato a torto che si trattava di “membri quasi sconosciuti di partiti allineati con il governo sandinista.” In realtà, nota Perry, questi sono partiti storici – due di loro (PLC e PLI) avevano fatto parte di governi fra il 1990 e il 2006, e soprattutto il PLC può contare su un significativo sostegno popolare. Il Fronte Sandinista stesso ha vinto come parte di un’alleanza di nove partiti legittimi.

Se già l’articolo di COHA ha messo in luce l’inconsistenza delle varie accuse, la migliore risposta sono state le scene in strada il giorno delle elezioni e durante i festeggiamenti all’annuncio dei risultati l’8 novembre. Mentre qualche organo di informazione parlava di strade vuote e seggi elettorali deserti, centinaia di foto mostravano l’esatto contrario.

Dopo che il presidente Daniel Ortega e i sandinisti hanno vinto con ampio margine, Ben Norton di “The Grayzone” ha riferito che l’amministrazione Biden ha respinto i risultati lanciando invece quello che equivale a un nuovo tentativo di colpo di stato contro il governo sandinista del Nicaragua, incluso un regime di sanzioni devastanti. Non è la democrazia in Nicaragua a provocare la reazione degli Stati Uniti; è il percorso antimperialista indipendente che ha scelto, proprio come il Venezuela.

La Task Force sulle Americhe (ONG che sostiene i movimenti per la giustizia sociale in America Latina e nei Caraibi, ndtr) ha pubblicato un rapporto nel 2018 in seguito al tentativo di colpo di stato di quell’anno. Esso ha rilevato che il Nicaragua era “il Paese più sicuro dell’America Latina, in riconoscimento delle sue politiche innovative di sicurezza comunitarie, del flusso minimo di rifugiati verso il confine con gli Stati Uniti; lungi dall’essere una dittatura, con sondaggi che mostrano che il presidente Ortega ha avuto il più alto indice di gradimento di qualsiasi capo di stato nell’emisfero; con indici sociali in miglioramento: alfabetizzazione, crescita economica, promozione delle piccole imprese, istruzione pubblica gratuita fra le più alte della regione”.

La campagna di guerra ibrida volta a rovesciare il governo sandinista del Nicaragua ha molti paralleli con i tentativi di colpo di stato degli Stati Uniti in corso contro Venezuela e Cuba, nonché con il golpe avvenuto con la supervisione dell’OSA contro il presidente socialista eletto della Bolivia Evo Morales nel 2019. In America Latina gli Stati Uniti sabotano attivamente la democrazia invece di difenderla, soprattutto nei Paesi che seguono un percorso indipendente da Washington.

David Adler di Progressive International, in un articolo scritto insieme con Guillaume Long su “The Guardian” il 15 novembre scorso, ha denunciato l’OSA per il suo ruolo di sabotaggio delle elezioni in tutta l’America Latina e per aver fomentato il colpo di stato del 2019 in Bolivia. L’OSA non ha trovato alcuna prova di frode nell'elezione del presidente boliviano Morales, ma ha mentito al pubblico e ha persino manipolato le proprie conclusioni per aiutare a deporlo. “In seguito è stato riferito che il rappresentante degli Stati Uniti presso l’OSA ha effettivamente esercitato pressioni e ha manovrato affinché la missione di osservazione pervenisse ad una definizione di frode” secondo Jake Johnston del Center for Economic and Policy Research, citato da Adler e Long.

“Il governo degli Stati Uniti è complice di questi attacchi alla democrazia, non solo come «alleato», ma anche come membro di spicco dell’OSA” scrivono Adler e Long. Aggiungono che “due terzi dei cittadini statunitensi ora credono che la democrazia sia in pericolo” e in America Latina è ancora peggio. In Brasile, metà delle persone crede che il presidente trumpista Jair Bolsonaro tenterà un colpo di stato, anche se un’ampia maggioranza sostiene il ritorno al potere dell’ex presidente Lula Da Silva. A Haiti, gli Stati Uniti hanno rimosso per ben due volte il presidente progressista Aristide. Ed è questo, secondo l’ex capo delle Nazioni Unite a Haiti, “all’origine della tragedia attuale” di quel Paese.

In un recente viaggio in Ecuador dopo le ultime elezioni, il Segretario di Stato americano Blinken ha elogiato il presidente Guillermo Lasso nella stessa settimana in cui Lasso ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale per intimidire i critici del suo governo e distrarre da un’indagine su presunta frode fiscale dopo la sua apparizione nei Pandora Papers (milioni di documenti trapelati pubblicati dall’International Consortium of Investigative Journalists a partire dal 3 ottobre 2021, ndtr). Ore dopo, a Bogotà, Blinken ha elogiato le credenziali democratiche del presidente colombiano Iván Duque: “Non abbiamo un alleato migliore per quanto riguarda tutte le sfide che le nostre democrazie si trovano ad affrontare in questo emisfero” ha detto Blinken, quando il governo Duque è accusato di prendere di mira i manifestanti e di avere lasciato assassinare un numero senza precedenti di capi indigeni, neri e contadini sotto i suoi occhi.

Il termine “le nostre democrazie” è rivelatore. L’etichetta “democrazia” identifica un Paese alleato con gli Stati Uniti. L’aggiunta di “nostro” enfatizza la relazione. È un’eco del vecchio impero britannico, solo che ora è neocoloniale, cementato e rafforzato con prestiti bancari e truppe sul campo nella maggior parte dei casi.

Particolarmente interessanti sono state le elezioni di fine novembre in Honduras, vinte da Xiomara Castro, moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, rapito dall’esercito honduregno in un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti nel 2009. Zelaya aveva stretto un’alleanza con Venezuela e Nicaragua. Dopo quel colpo di stato, il presidente honduregno sostenuto dagli Stati Uniti è stato accusato di traffico di droga e l’ondata di rifugiati honduregni ha creato una vera e propria crisi politica negli Stati Uniti. Dopo la sua vittoria elettorale, Xiomara Castro ha ricevuto un messaggio dal presidente del Nicaragua Ortega e dal vicepresidente Rosario Murillo: “A nome del popolo nicaraguense e delle donne in particolare, esprimiamo la nostra gioia per questa storica elezione che mostra ancora una volta il nobile, combattivo e laborioso carattere delle donne e delle famiglie di questo Honduras fraterno e solidale”. Secondo il “New York Times”, Zelaya ha affermato che lui e Xiomara Castro vogliono ricostruire buoni rapporti con gli Stati Uniti, che hanno definito come partner vitale per l’Honduras. “Penso che gli Stati Uniti abbiano capito che settori del loro governo hanno trascinato il Paese in un abisso” con il colpo di stato del 2009, ha affermato. “Speriamo che l’amministrazione Biden abbia imparato la lezione e sia disposta a collaborare con noi.”

Molti sperano in buone relazioni con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Ma, come hanno scritto gli ambasciatori cinese e russo, “un governo veramente democratico sostiene la democrazia nelle relazioni internazionali. Non promuove l’egemonia e la divisione all'estero… Il percorso verso la prosperità delle nazioni passa attraverso una rispettosa cooperazione reciproca, nonostante le differenze di vedute su questioni specifiche”. La dichiarazione prosegue che “nessun Paese ha il diritto di giudicare il vasto e variegato panorama politico mondiale con un unico metro di valutazione, e che costringere altri Paesi a copiare il proprio sistema politico mediante rivoluzioni colorate, cambi di regime, compreso l’uso della forza, viola il diritto internazionale, ed è chiaramente antidemocratico”.

All’inizio di quest’anno 16 governi di tutto il mondo hanno formato un Gruppo di Amici in Difesa della Carta delle Nazioni Unite. Il gruppo vuole promuovere multilateralismo e diplomazia in sostituzione dell’uso della forza contro presunte violazioni da parte di altri stati membri delle Nazioni Unite. “Il mondo sta assistendo a un crescente ricorso all’unilateralismo, caratterizzato da azioni isolazioniste e arbitrarie” ha affermato il gruppo, “compresa l’imposizione di misure coercitive unilaterali o il ritiro da accordi storici e istituzioni multilaterali…”.

Gli ambasciatori cinese e russo hanno sottolineato che le Nazioni Unite sono il fulcro del sistema internazionale, e hanno affermato che “c’è un unico sistema di regole, vale a dire che le relazioni internazionali sono disciplinate dalle norme fondamentali basate sugli obiettivi e sui principi della Carta delle Nazioni Unite”. Sono contrari alla “proclamazione di un’ordine internazionale basato sulle regole che non fa riferimento alle Nazioni Unite e al diritto internazionale e tenta di sostituire le regole internazionali con i dettami di alcuni blocchi”.

Gli ambasciatori proseguono che “un alto numero di guerre e disordini in varie parti del mondo hanno dimostrato che diffondere la «democrazia», il suo sistema politico e valori contro altri Paesi compromette gravemente la pace, la sicurezza e la stabilità regionale e internazionale. I bombardamenti della Jugoslavia, gli interventi militari in Iraq, Afghanistan e Libia e la «trasformazione democratica» hanno causato solo distruzione. I Paesi dovrebbero concentrarsi sulla buona gestione dei propri affari, piuttosto che criticare con condiscendenza gli altri… Alcuni governi stranieri farebbero meglio a pensare a se stessi e a ciò che accade al loro interno”.

Dee Knight è membro della sottocommissione contro la guerra del Comitato Internazionale DSA (Democratic Socialists of America). È autore di My Whirlwind Lives: Navigating Decades of Storms ("Le mie vite vorticose: navigare in decenni tempestosi"), che sarà presto pubblicato da Guernica World Editions. È raggiungibile su DeeKnight.blog.

Traduzione dall’inglese di Stefania Fusero.

10/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Dee Knight

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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