Movimento della Lupa: intervista a due studentesse

Durante quest’anno scolastico tutta Italia ha dovuto fare i conti con una crescita poderosa del movimento studentesco, che ha imposto la sua voce nel dibattito pubblico. Vediamo cosa ha da dire chi di questo movimento ha fatto parte.


Movimento della Lupa: intervista a due studentesse Credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Casa_di_Valerio_Verbano_22_febbraio_2019.jpg

La seguente intervista è stata realizzata alle studentesse Sara e Syria, rispettivamente dell’Aristofane e dell’Archimede, cui va il ringraziamento della redazione.

D: Negli ultimi anni avete notato una crescita nella coscienza politica nelle scuole?

R: Partiamo col dire che un grande catalizzatore per quanto sta accadendo è stata la pandemia, la quale, tuttavia, ha evidenziato dei problemi che già esistevano negli istituti (si pensi alla riforma della “Buona scuola” ed ai tanti tagli che ci sono stati). Le studentesse e gli studenti, provati dalla situazione generale degli ultimi due anni, peraltro, hanno dovuto vivere anche una scuola ricominciata secondo un modello non in linea con le loro esigenze. È stata questa situazione accumulata, esplosa con la pandemia, ad aver portato un maggior interesse sia a livello della politica studentesca (sistema scolastico) che poi riguardo il mondo che ci circonda (ad esempio la guerra, sulla quale noi cerchiamo di informare tramite il collettivo di scuola).

Sul disagio provato sono indicative le occupazioni, spesso il primo momento di riappropriazione degli spazi scolastici per chi, dal primo al terzo anno, la scuola quasi non può dire di averla vissuta. In questo, più che di una presa di coscienza complessiva, si può parlare di un movimento che nasce da un segmento generazionale che vuole denunciare l’esistenza, negli istituti, di un forte disagio. Questo elemento è presente in tutte e tutti noi che veniamo definiti giovani o giovanissimi e che viviamo senza un futuro anche a causa di questo mondo del lavoro di merda (l’espressione è letterale dall’intervista, NdR), precario, che ci sfrutta e ci ammazza a partire dalle scuole, ad esempio con i PCTO (ex ASL). Insomma quello che è emerso in questi mesi è soprattutto la necessità di dire che esistiamo anche noi, che vogliamo prendere parola in quanto giovani perché abbiamo delle esigenze e dei desideri, e per rivendicarli vogliamo riempire lo spazio pubblico, e se ciò che vogliamo non ci viene dato dalle istituzioni o dal governo saremo noi a riprendercelo, occupando i nostri istituti e creando così il modello alternativo di scuola che vogliamo. Siamo stanche e stanchi di sentirci dire che siamo fuori dal mondo quando in realtà cerchiamo, spesso più dei nostri genitori, di stare nel mondo e di capirlo. Ci dicono spesso che siamo il futuro, ma noi questo futuro non lo vediamo così bene; da questo si capisce perché, dovendo riconquistare delle prospettive già da oggi e per il futuro, uno dei nostri slogan, che sentiamo molto, è “riprendiamoci il presente”.

D: Cosa ha significato per voi, le vostre scuole e la vostra attività politica l'esplosione del movimento della Lupa?

R: Come dicevamo c’è stata quest’anno una grande ondata di occupazioni e mobilitazioni in generale (picchetti, assemblee nei cortili, giornate di sciopero). Per queste mobilitazioni abbiamo preso dalla stampa il nome di movimento “La Lupa”, che probabilmente ci è stato affibbiato sulla falsariga del movimento della Pantera; in ogni caso il nome ci piaceva, quindi l’abbiamo fatto nostro. Il movimento ha già portato avanti un’assemblea nazionale il 5 e 6 febbraio a Roma, al Brancaleone e ad Acrobax, iniziando un lavoro di strutturazione in tutta Italia e dialogo tra le varie città, culminato per ora nella manifestazione nazionale del 18 febbraio. In questo momento la Lupa è un insieme di collettivi, singole persone ed organizzazioni studentesche che hanno deciso di organizzarsi e di indicare con chiarezza i responsabili della situazione disastrosa che viviamo dentro le scuole. Tra le altre cose abbiamo reagito anche alla morte di Lorenzo e Giuseppe, due nostri compagni, avvenuta durante la loro esperienza nei PCTO.

Cosa ha significato tutto questo? Per le singole persone ha significato poter andare oltre gli orizzonti fino ad allora immaginabili, fino ad un piano di discussione e fermento cittadino o nazionale. C’è grande interesse nel mobilitarsi, e questo è importante. Per le scuole a volte ha significato la nascita di collettivi fino ad allora inesistenti (come il collettivo Valerio Verbano, all’Archimede), che hanno dato vita a momenti di aggregazione ed autoformazione fondamentali in questi mesi. Nella città intera, poi, il movimento è diventato un punto di riferimento; per tante cittadine e cittadini vedere le giovani generazioni prendere parola è stata una cosa fondamentale. Come Lupa, infine, abbiamo rotto col passato recente portando in piazza del conflitto ragionato, accusando direttamente, come dicevamo sopra, le persone responsabili di quanto viviamo quotidianamente, e dimostrando che abbiamo la forza di prenderci ciò che non ci vogliono dare. Il 17 dicembre, ad esempio, abbiamo provato a deviare il corteo verso la prefettura, che è un organo che noi individuavamo (ed individuiamo) come responsabile di uno dei problemi più sentiti al momento da studentesse e studenti, ovvero gli orari scaglionati, che sono una misura che mostra tutto il disinteresse delle istituzioni verso di noi. Anche all’indomani della morte di Lorenzo abbiamo convocato un presidio aperto a tutte le realtà, al Pantheon, e la nostra intenzione era quella di partire in corteo e portare la nostra rabbia sotto il MIUR; la riposta delle istituzioni è stata la repressione fisica, a manganellate e teste rotte, contro studentesse e studenti anche minori. Vergognosa su questo è stata la risposta della Lamorgese, che ha parato di infiltrati nel corteo mentre nel momento del conflitto erano presenti solo studentesse e studenti, ed ha poi affermato che ci sia stato un tentativo di dialogo con le forze dell’ordine, quando non c’è stato assolutamente niente del genere. Le uniche risposte che ci hanno dato sono intimidazioni, repressione o il silenzio, che è una forma di repressione; non ci hanno dato, invece, risposte concrete. A volte ci hanno ricevuto, ad esempio all’Ufficio Scolastico Regionale per incontrare il direttore Rocco Pinneri, al quale abbiamo portato le problematiche delle studentesse e degli studenti, come quelle di chi in quel momento aveva messo le tende perché non aveva intenzione di andare via da sotto l’ufficio. Il tavolo aperto allora è durato solo un altro paio di incontri ed ha portato ad un nulla di fatto; le nostre rivendicazioni sono state anche trattate con la classica retorica paternalistica delle istituzioni verso i giovani in mobilitazione.

Sempre su Rocco Pinneri c’è un’altra vicenda. Lui è infatti la stessa persona che mandò una lettera a tutti i presidi invitando a denunciare le ragazze ed i ragazzi responsabili delle occupazioni (anche le sospensioni, attribuite ad personam per un’azione, l’occupazione, che per sua natura è collettiva, sono state particolarmente pesanti, sempre su invito del direttore dell’USR), ed invitando studentesse e studenti a non occupare. Di questa nota ministeriale si è chiesto conto nel discutere col dottor Pinneri, che ha risposto dicendo che con l’atto illegale dell’occupazione si fosse negato il diritto allo studio alle studentesse ed agli studenti. La riposta, unica possibile, a queste affermazioni, è stata il ribadire come non ci sia alcun diritto allo studio se ti crolla in testa un tetto, muori in un PCTO, non hai soldi per i libri o abbandoni la scuola. Ci hanno provato a dire che la nostra protesta è anacronistica perché non serve ad ottenere nulla, ma ci siamo fatti sentire, e questo è già un primo risultato.

Un’ultima cosa va detta, per chiarire il ruolo dell’occupazione: essa non è stata solo un modo per dimostrare la nostra rabbia, ma anche uno strumento per mettere in pratica già tra studentesse e studenti una forma alternativa di scuola, con momenti di aggregazione, socialità, dibattito su questioni come educazione sessuale, all’affettività, ambientale, che la scuola non tratta abitualmente. È stato anche uno spazio per confrontarsi e parlare su ciò che non va nella scuola, su come ci sentivamo e ci sentiamo a stare nella scuola, su come ci trattano, ma anche per stare in cortile a sentire della musica e rendere per una volta quello spazio veramente nostro, senza stress e competizione individualistica (cosa che per molte studentesse e molti studenti la scuola invece è). Tante persone, che avevano vissuto gran parte o tutta la loro esperienza scolastica nel periodo Covid, hanno avuto proprio in occupazione la possibilità di conoscersi e dialogare. Questo è un risultato importante.

D: Anche sui grandi giornali si è parlato di occupazioni "coordinate" nel terzo municipio. Come mai questa scelta? E come è andata?

R: Per capire cosa è successo serve premettere che tra rappresentanti d’istituto delle quattro scuole in questione (Orazio, Nomentano, Archimede, Aristofane, NdR) ci conosciamo, sia per lotte assieme che per amicizia, e gestiamo anche in modo condiviso l’aula studio Clash Room nel CSA Brancaleone. C’erano già anche due anni di attività comune sul territorio. Da questo intreccio di attività e conoscenze è nata l’idea dell’occupazione coordinata (portata avanti nelle quattro scuole alla stessa ora dello stesso giorno), come modo per far emergere al massimo il tutto da un punto di vista mediatico e per portare al meglio il messaggio che volevamo trasmettere (tramite il nostro documento politico, condiviso per i quattro istituti). Queste scuole, Archimede escluso, non occupavano da anni, ed anche questo è stato un elemento significativo, sia per il lavoro politico concreto che per la risonanza mediatica. Un altro elemento importante è stata la solidarietà delle persone del quartiere. Ad esempio dalle case popolari del Tufello, dove si trova l’Aristofane, venivano persone a portare sostegno, cibo, altri generi di prima necessità.

Ci sono state dinamiche complesse, ma alla fine si è riusciti a fare l’occupazione fino al venerdì in tutte le scuole, riempiendo le giornate di iniziative, corsi (anche di recupero), conferenze, etc. Facendo un bilancio di come siano andate le occupazioni, sicuramente possiamo dire siano andate bene. Sono servite a rafforzare i collettivi nelle singole scuole ed a creare una coscienza politica e conflittuale nella mente delle studentesse e degli studenti, che per una volta hanno preso parte nel dire ciò che gli piaceva e ciò che non gli piaceva nei loro istituti (queste sono cose dette a voce alle intervistate da chi ha partecipato alle occupazioni, NdR).

Sul piano rivendicativo è stato scritto sia un documento politico che un comunicato di occupazione, entrambi condivisi tra le quattro scuole. Il documento è stato inviato alle varie istituzioni, sia municipali che scolastiche, senza alcuna risposta. Soltanto il municipio ci ha ricevuto, ed abbiamo parlato con Paolo Marchionne.

D: Visto che avete parlato del documento politico, volete dirci meglio su quali rivendicazioni si sono incentrate le vostre occupazioni?

R: Per prima cosa abbiamo parlato della questione dei fondi, in quanto da decenni vengono portati avanti tagli spaventosi al finanziamento per l’istruzione, la formazione e la ricerca; anche in questo PNRR i soldi investiti nel comparto scuola finiscono in settori molto criticabili. Vogliamo essere noi a decidere dove finiranno i fondi, attraverso, ad esempio, delle commissioni formate da studentesse e studenti e da chi lavora nella scuola.

Un esempio dal PNRR è la creazione dei licei TED (licei della transizione ecologica ed ambientale), della durata di 4 anni, dove un centinaio di aziende dovrebbero insegnarci come si svolge la transizione verde. È un caso emblematico di greenwashing, specie se si pensa che nel progetto sono coinvolte anche aziende come l’ENI o la Leonardo. Insomma, una porcata. Peraltro il tutto si baserebbe su attività di PCTO, che non valorizzano il percorso di studi e che mettono a rischio la salute (o la vita) delle studentesse e degli studenti mentre lavorano gratuitamente. Tutto questo progetto, infine, parte dal presupposto che la scuola debba essere finalizzata all’inserimento nell’ambito lavorativo; a questo proposito si stanno spendendo somme crescenti (il PNRR ne è dimostrazione) ed è qualcosa di preoccupante. La scuola deve arricchire studentesse e studenti in quanto persone, senza finalità immediate, e non insegnare loro solo ciò che è più vendibile nell’immediato “mercato del lavoro” (che fa schifo).

Un altro punto delle rivendicazioni riguarda l’educazione sessuale, all’affettività, al consenso, ai generi, tutte questioni di cui a scuola non si parla mai. Si vogliono istituire anche da un lato degli sportelli di ascolto per la questione psicologica, spesso sottovalutata (è stato anche tagliato il bonus a riguardo) nonostante la crescita allarmante di problemi ad essa legati, specie tra giovani e giovanissimi, nel periodo pandemico (ricordiamo che in molte scuole manca uno sportello del genere, ed anche dove è presente spesso è insufficiente per coprire tutto l’istituto); dall’altro lato degli sportelli antiviolenza per rendere la scuola un posto sicuro ed attraversabile anche per studentesse e studentu.

Un ulteriore elemento su cui si sono portate rivendicazioni è la questione della valutazione. La richiesta è di eliminare le valutazioni numeriche sostituendole con un giudizio, in modo che anche il docente si debba mettere in discussione del dibattere con lo studente per mostrargli le lacune della sua preparazione. Nel documento richiediamo anche l’annosa rivoluzione dei programmi, che per come sono fatti ora sono impossibili da concludere anche correndo e fanno sì che facilmente studentesse e studenti restino indietro; oltre ad essere estremamente tradizionali (nel senso di raccontare la storia dalla parte, ad esempio, di chi colonizzando l’America poteva dire di averla “scoperta”). A tutto questo si collega anche la critica alle lezioni frontali, legate alla logica della competizione individualistica, alla performance di ripetizione nozionistica, e non ad un apprendimento critico.

Insomma, vogliamo spazio di discussione, ed essere coinvolte e coinvolti nelle decisioni che riguardano le nostre scuole, perché la scuola la facciamo noi. Sempre su questo riteniamo importante anche la scuola sia aperta anche il pomeriggio, per corsi e momenti di socialità, per renderla un posto dove incontrarsi e da vivere appieno.

Prima abbiamo parlato di fondi male investiti. A riguardo non possiamo non dire che una priorità è quella di investire nell’edilizia scolastica. Ad esempio l’Archimede (sede di via Vaglia) si trova in un palazzone popolare di sette piani, costruito negli anni ’50, che doveva essere una sede provvisoria e che invece è rimasta la stessa negli ultimi 70 anni. Solo di recente due piani sono stati chiusi perché c’era l’amianto, e la scuola è senza palestra da tempo immemore. Infiltrazioni e muffa sono all’ordine del giorno, la scuola cade a pezzi e non ha neppure l’ascensore o le scale antincendio (mentre le altre scale sono pericolanti). Nella sede succursale, invece, le scale non comunicano tra loro e rendono l’edificio pericoloso nel caso di emergenza. Su tutto questo anche la dirigenza dell’istituto, da poco cambiata, sta cercando di muoversi, ma la risposta delle istituzioni è lentissima.

D: In molte scuole si sono verificati episodi inquietanti di repressione. È capitato anche nelle vostre? Come interpretate questa stretta repressiva?

R: La scuola, tra quelle della nostra occupazione coordinata, dove la repressione si è vista maggiormente, è il Nomentano. All’indomani dell’occupazione la preside ha inviato una mail in cui dava quattro capi di accusa a chi aveva messo il documento per l’occupazione (crimini legati alla diffusione del Covid, occupazione di suolo pubblico, interruzione di pubblico servizio, sequestro di persona), poi tutti decaduti.

 

In aggiunta, fin dall’inizio dell’occupazione aveva richiesto lo sgombero e il passaggio alla DaD (per cui ha avuto una diffida, in quanto la richiesta di passaggio non era motivata da ragioni legate al Covid).

In tutte le scuole (tranne l’Orazio) sono stati richiesti soldi per i danni, in particolare moltissimi per la sanificazione, a volte chiamando appositamente ditte nei festivi o da fuori Roma, per aumentare il costo. Spesso il totale stimato dei danni le presidi non hanno voluto neppure scriverlo su carta, chiedendo cifre enormemente gonfiate (si parlava di 10.000 euro per il solo Nomentano). Inoltre a tutto ciò, l’occupazione nelle scuole è diventata rapidamente anche il capro espiatorio con cui giustificare ogni malfunzionamento e gestire così il malcontento rispetto allo stato pessimo della scuola.

Se la dirigenza ha avuto un atteggiamento spesso criticabile meglio è andata col corpo docente, che ha apprezzato in particolare il fatto che l’occupazione fosse ben organizzata, su rivendicazioni strutturate e che erano state condivise con professoresse e professori, con cui si era potuto avere un confronto anche per ricevere spunti diversi (dal punto di vista del lavoratore della scuola).

D: Come collettivi studenteschi considerate importante il lavoro di quartiere? Avete portato avanti qualche attività a riguardo?

R: Crediamo sia fondamentale l’attività sul quartiere, specie qui al Terzo municipio, ed in particolare al Tufello, che è un quartiere popolare. In questi luoghi già c’è una tradizione di lotte e rivendicazioni precise, che condividiamo, e tra di noi c’è chi fa parte della Comunità dell’Oltre Aniene (che ha vari spazi sociali e porta avanti pratiche sul transfemminismo, sulla lotta NoTav, con la gira zapatista, etc). Nel nostro quartiere si organizza anche annualmente una chiamata (che quest’anno è stata fatta nazionale) per un corteo antifascista, il 22 febbraio, in memoria di Valerio Verbano, studente di Autonomia Operaia ucciso e sulla cui morte ancora non si sa la verità. In generale si può dire senza dubbio che per noi sia molto importante l’attività di quartiere, anche banalmente frequentando gli spazi sociali della zona, che è una cosa che facciamo abitualmente perché ne condividiamo il modo di stare al mondo e la libertà di potersi confrontare con le altre persone che vivono nel nostro stesso ambiente, a prescindere dall’età o da altro. Questi spazi, detto tutto ciò, sono stati importanti non soltanto per noi come singole persone ma anche per contribuire a rendere possibile, ad esempio, l’occupazione coordinata, dandoci consigli.

Oltre alla Comunità dell’Oltre Aniene, comunque, va detto che proprio noi studentesse e studenti abbiamo tirato su un coordinamento del terzo municipio che comprende persone dalle scuole della zona (principalmente le quattro scuole occupate, ma anche Giordano Bruno, Matteucci, Silvio Pellico, etc) e che pensiamo sia importante per avere contatti con chi vive il territorio, che è il punto da cui partire per l’attività politica, secondo noi. Tra le tante cose che si fanno nel nostro quartiere per venire incontro alle esigenze di chi ci vive possiamo elencare la Brigata del mutuo soccorso (durante la pandemia), scuola popolare o di italiano per bambine e bambini, momenti di socialità e confronto, iniziative; tutto questo lo facciamo anche noi e partiamo da qui per sviluppare le lotte che poi portiamo nelle scuole e, si spera, anche più avanti.

La composizione sociale nelle scuole è importante per capire in che ambiente ci muoviamo. Ci sono tante persone che vivono in case popolari, non hanno i soldi per comprare i libri, a volte non hanno genitori, in alcuni casi c’è chi è stato costretto ad abbandonare la scuola; è con queste persone che noi ci muoviamo, anche come collettivo, perché pensiamo sia fondamentale mettersi al servizio delle esigenze reali.

Quanto la partecipazione al quartiere sia sentita si vede facilmente facendo un giro tra i palazzi: i muri parlano e si respira nell’aria un senso di appartenenza alla politica militante. Anche noi non abbiamo problemi a dire che ci rivendichiamo l’appartenenza al nostro quartiere.

D: Cosa volete dire alle persone che leggeranno La Città Futura? Avete in programma prossimi appuntamenti che vorreste segnalarci?

R: Questa è probabilmente la domanda più difficile. Vogliamo ricordare per prima cosa il nostro impegno, in piattaforme come Roma No War, per contrastare la guerra in corso, prendendo posizione contro Putin e contro la NATO ed in difesa della popolazione che subirà con violenza le conseguenze di quanto sta accadendo; ma ci stiamo mobilitando anche contro gli altri conflitti che si sviluppano a livello internazionale, spesso da molto tempo (in Palestina si combatte da 74 anni); sono esempio Siria, Yemen, Afghanistan, etc.

È probabile, in ogni caso, che la guerra in Ucraina avrà conseguenze più importanti degli altri conflitti attualmente in corso in Africa o Medio Oriente, ma anche su questo scontro è vergognosa la retorica che sta venendo costruita sulla questione della “pace”. Innanzitutto perché serve chiedersi: ci siamo svegliati adesso? Veramente? In secondo luogo perché la pace di cui parlano le istituzioni, in particolare il PD, è una pace che non ci sta bene, è una pace che ci vuole oppressi e sfruttati nel mondo del lavoro, a morire nei PCTO, e per questo secondo noi della Rete No War andrebbe risignificata la categoria di pace in chiave anticapitalista, nel combattere il sistema che ci opprime e ci sfrutta.

L’altra questione che si voleva sottolineare è quella dei confini. Perché è bene che stiano venendo accolte le tante persone che fuggono dalla guerra in Ucraina, ma allo stesso tempo, agli stessi confini, vengono respinte le persone che cercano una vita migliore e però vengono da paesi che sono considerati meno vicini. Anche dalla stessa Ucraina, comunque, non vengono fatte uscire (o vengono obbligate ad uscire) centinaia di persone transgender a cui non viene riconosciuta la transizione di genere, sulla base della politica ucraina di evacuazione di donne e persone non funzionali alla guerra, e proibizione nell’uscita dal paese di uomini in grado di combattere.

Io (Syria, NdR) e Pietro (studente del Virgilio, sempre della Lupa), abbiamo parlato dal palco della manifestazione per la pace, a San Giovanni, anche non condividendo del tutto i contenuti di chi aveva convocato la piazza. Tra le questioni rilanciate (oltre all’accoglienza, come dicevamo sopra) abbiamo posto il disarmo, perché armare l’Ucraina (con armi che alla fine del conflitto non si sa nemmeno che fine faranno, e che ora finiscono nelle mani di organizzazioni di estrema destra) non è un modo per portare avanti la pace, ma tutt’altro; abbiamo anche rimesso al centro il dramma del carovita, tra aumento di bollette e prezzo della benzina, parlando allo stesso tempo della mancanza di alcune merci dai nostri supermercati, come olio di girasole e farina.

Dovendo dire in poco, riassumendo, il messaggio che vogliamo mandare a La Città Futura, non possiamo non citare i celeberrimi tre compiti: Istruitevi, Agitatevi, Organizzatevi. Noi li stiamo già sperimentando nel nostro ambito, ma vogliamo dire a chi lotta, lavoratori, precari e fragili, e chiunque altro, ovunque, che noi studentesse e studenti ci siamo, ed avete la nostra solidarietà. Soltanto creando una coscienza collettiva più larga possibile si può evitare che sia possibile l’attecchire di germogli di regimi totalitari, come diceva Hannah Arendt.

02/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Casa_di_Valerio_Verbano_22_febbraio_2019.jpg

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L'Autore

Simone Rossi

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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