Il piano femminista di “Non una di meno” contro la violenza di genere sulle donne - seconda parte

Libere di Autodeterminarci nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza e libere dalla violenza della istituzionalizzazione.


Il piano femminista di “Non una di meno” contro la violenza di genere sulle donne - seconda parte Credits: https://nonunadimeno.wordpress.com/

Segue dalla prima parte.

MILANO. Se è vero che in Italia il settanta per cento delle vittime di femminicidio aveva sporto denuncia contro il proprio futuro assassino, è evidente come sia indispensabile che la risposta giudiziaria in un caso di violenza anche minore sia rapida in modo da assumere anche un ruolo preventivo nella casistica della violenza. Serve allora maggiore efficienza in tutte le fasi: nella prevenzione, nel riconoscimento e nei percorsi di uscita dalla violenza. Vanno ridotti i tempi della giustizia nei casi di reati di violenza di genere, occorre semplificare le procedure di denuncia prevedendo corsie preferenziali per i reati legati alla violenza di genere, corsie dedicate che oggi non esistono nei processi civili e che sono scarsamente praticate nei procedimenti penali.

Anche il Piano Femmnista di Non Una di Meno-NUDM sostiene la necessità di fissare dei termini più lunghi degli attuali tre mesi per la proposizione della querela di parte nella fase della denuncia da parte della donna della violenza, una scelta doverosa che deve tenere in considerazione il travaglio che vive la vittima e i tempi psicologici di elaborazione della violenza e che servono per trovare il coraggio di parlare con altri della brutta esperienza subita.

A Milano dalla denuncia di una violenza alla sentenza di primo grado trascorre mediamente un anno e mezzo, un tempo considerato accettabile per l'Italia, in cui però da Nord a Sud la situazione non è certo omogenea. La denuncia è solo l’atto iniziale della vicenda giudiziaria per le donne: dove la donna è seguita da una rete competente e integrata fra centri antiviolenza – CAV – polizia giudiziaria, servizi sanitario e sociale, pubblico ministero, magistratura e avvocati, le cose possono anche funzionare, ma non è certo la regola nel Paese. Se il processo non viene celebrato entro la scadenza dei termini di custodia cautelare e non ci sono altre condanne, l’aggressore torna libero e a quel punto non c’è più nessuno che lo controlla. Spesso il maltrattatore tende a reiterare le violenze, e allora è necessario sporgere un’altra denuncia; solo così scatta la recidiva e si può allora procedere d’ufficio ed è previsto l’arresto del maltrattatore. In questa fase è importante la valutazione del rischio: in attesa che il maltrattante sia allontanato, la donna deve essere messa in sicurezza, ma certamente non può restare in comunità per mesi. Spesso per fenomeni di negazione e sottovalutazione la maltrattata non riesce a valutare la gravità della minaccia e i rischi reali per la sua incolumità: per questo deve essere assistita da personale empatico, capace e formato, come quello che si trova nei Centri Antiviolenza, che oltre a una formazione professionale specifica – psicologhe, mediche, avvocate – abbia maturato le proprie competenze e sensibilità nel contatto volontaristico e quotidiano con le donne vittime di violenza.

Secondo Nudm quel che serve è un processo penale intelligente e rapido, scevro dal vecchio approccio giudicante e stereotipato, un processo penale che eviti la rivittimizzazione della donna, cioè che non diventi esso stesso violenza per la donna. Ciò è possibile solo se tutti gli operatori sono specializzati in materia di violenza di genere: dalla polizia giudiziaria al pubblico ministero; dall’avvocato fine al giudice; profili professionali che siano allenati sul campo a evitare errori e trappole, per esempio ben avvertiti del fatto che è possibile che i certificati medici ospedalieri parlino solo di traumi accidentali e che la donna sopporti per anni violenze senza mai rivolgersi a nessuno…

In sede di procedimento penale va poi contrastata, secondo Nudm, l’eccessiva “istituzionalizzazione” dei percorsi processuali e comunque va sempre ben ponderata ogni forma di obbligatorietà della denuncia e della procedibilità d’ufficio dei reati nel caso tale procedibilità limiti il diritto di autodeterminazione della donna, o peggio ancora metta ulteriormente a repentaglio la sicurezza della stessa, quando a esempio non abbia ancora trovato collocazioni e dimensioni esistenziali alternative (case rifugio, comunità, etc) alla abitazione domestica teatro delle violenze da parte del partner o ex partner, o non sia libera dalle connivenze e dai ricatti che il contesto anche parentale può offrire al maltrattatore. Deve essere comunque sempre fatto rispettare nei casi di processi per violenza il divieto di mediazione familiare e di soluzioni alternative nelle controversie giudiziarie: il diritto della donna e della persona vittima di violenza di genere deve essere prioritariamente garantito rispetto a qualsiasi altra considerazione e strategia più accomodante di fuoriuscita dalle esperienze di violenza.

Il Piano Femminista antiviolenza ribadisce, conformemente agli orientamenti giurisdizionali più avanzati già esistenti in altri paesi UE, che va assolutamente riformata l’estensione ai reati di genere delle cosiddette “Condotte riparatorie”: esse sono state recentemente utilizzate a fronte di alcune sentenze di Giudici italiani, dopo l’introduzione della nuova causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 162 ter del Codice Penale e introdotta con la recente Legge 23 giugno 2017 n. 103.

Si tratta in sostanza di poter estinguere il reato di violenza (persecuzione, stalking, etc) – senza il consenso della persona offesa o addirittura contro il suo consenso – tramite la compensazione e il risarcimento economico a favore della donna da parte dell’abusante colpevole di violenza.

È evidente che ciò sancirebbe di fatto la derubricazione di un reato di violenza contro la persona a una sorta di “illecito amministrativo” che si può estinguere con una “multa”, con la conseguenza di un sostanziale depotenziano del diritto alla giustizia della persona offesa. Solo dopo il forte coro di dissenso sollevato da molte associazioni di Donne, Centri Anti Violenza, etc – anche alcuni esponenti e alleati del Governo Gentiloni si sono accorti che si è trattato di una manovra giuridica maldestra e si sono affrettati a promettere la riforma della suddetta norma e l’abolizione dell’applicabilità delle condotte riparatorie alle fattispecie di violenza di genere. Nel trattamento giuridico di casi di violenza gli aspetti di natura preventiva della reiterazione della violenza sulla donna, sui suoi figli e sul suo entourage affettivo e familiare devono assolutamente essere tenuti in considerazione: si ricordi un caso efferato di figlicidio: del bambino ucciso per ritorsione contro la madre da parte del padre sottoposto a misure limitative della genitorialità, all’interno di uno spazio di incontro “protetto”, con tanto di educatore appresso. Molti sono i protocolli e le pratiche giuridiche e organizzative in uso che vanno riconsiderati e riformati per evitare la violenza istituzionale – anche incidentale e involontaria – da parte di quanti hanno il compito di tutelare la donna e accompagnarla nel percorso di fuoriuscita dalla violenza: le misure di penalizzazione devono colpire l’autore della violenza, non la vittima. È allora per esempio necessario introdurre modifiche legislative in materia di Affidamento Condiviso (art. 337quater del Codice Civile e segg.) escludendone l’applicazione in tutti i casi di violenza intra-familiare, sia come forma sanzionatoria verso il padre, sia per sottrarre i minori alle possibili vessazioni psicologiche, ricatti affettivi e finanche violenze verbali e fisiche agite su di loro all’indomani della denuncia fatta dalla madre.

Riguardo poi al problema della Violenza assistita dai Minori – diretta e indiretta – cioè subita dai figli e dalle figlie delle donne vittime di violenza, come dei disincentivi alla violenza familiare e degli aspetti sanzionatori di questa odiosa forma di violenza è fondamentale anche assicurare l’applicazione di provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale paterna, perché è impensabile che un genitore offra garanzie come educatore dopo essersi macchiato di un reato di violenza contro la madre del figlio/a. Bisogna smettere di pensare che la violenza e la funzione genitoriale siano distinte: ciò comporta sempre un ulteriore danno sia per la donna sia per le figlie e i figli minori; infatti la Convenzione di Istanbul impone che “nel determinare i diritti di custodia e di visita delle e dei minori siano presi in considerazione gli episodi di violenza”, con lo scopo di non compromettere i diritti e la sicurezza della madre, e delle figli/e. E’ anche importante opporsi ad altri tipi di affidamento quale l’Affidamento Alternato che mettono a repentaglio e svuotano i diritti economici delle donne – tra cui il diritto all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento – e generano ulteriore dipendenza e subordinazione economica agli ex-partner, rappresentando l’ennesimo strumento di ricatto da parte loro. Bisogna anche contrastare una tendenza culturale e psicologica manifestatasi nei Giudici Minorili e Civili: spesso negli ultimi anni hanno preferito abdicare alla propria funzione di valutazione e decisione e hanno delegato di fatto alle e ai Consulenti tecnici d’Ufficio e al personale dei Servizi Sociali. Serve anche un divieto verso procedure di valutazione psicologica e psicodiagnostica sulle donne vittime di violenza e sulla loro capacità genitoriale, valutazione che nel caso il maltrattatore sia il padre dei figli della donna deve essere centrata sulla sola figura paterna evitando l’equiparazione dell’uomo maltrattante alla donna maltrattata.

Sul versante dei risarcimenti alle vittime di violenza l’Italia è stata più volte richiamata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, per non aver ottemperato alla direttiva europea che impone agli Stati membri di strutturare un sistema di erogazione di un compenso equo e adeguato per tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi sui propri territori nazionali. Il Parlamento ha cercato di rimediare al vuoto legislativo sulla questione con la legge 122/2016 "Diritto all'indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, in attuazione della direttiva 2004/80/CE", ma questa norma prevede condizioni troppo farraginose e spesso incomprensibili per ricevere tale “indennizzo”, così da rendere l'esecuzione del diritto praticamente impossibile. Con questa legge di fatto il legislatore si è preoccupato di far risparmiare lo Stato più che di risarcire la vittima. Anche il fatto che anziché di "risarcimento" si parli di "indennizzo" ha fatto storcere il naso alle donne giuriste che si occupano di donne vittime di violenza fisica e sessuale e dei loro figli e figlie. Lo scorso 10 ottobre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto interministeriale del 31 agosto 2017, che dà esecuzione alla Legge 7 luglio 2016, n. 122, con cui è quantificato l'importo dell'indennizzo che lo Stato Italiano corrisponderà alle vittime di reati intenzionali violenti e che sarà prelevato dal "Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell'usura e dei reati intenzionali violenti" un fondo che ammonta a circa 2,6 miliardi di euro anno. Le cifre si aggirano sui 7.200 euro per il reato di omicidio, che sale a “ben” 8.200 in favore dei figli della vittima – solo se si tratti del coniuge o del convivente – invece 4.800 euro per chi è stato vittima del reato di violenza sessuale. In tutti gli altri casi ci sarà un rimborso di 3.000 euro "a rifusione delle spese mediche e assistenziali” solo se comprovate.

È evidente che si tratterà di “Giustizia a rotazione” poiché, in pratica, l’esigibilità di queste somme, da prelevarsi da un fondo esiguo a rotazione, verrà di fatto inficiata e dilazionata a babbo morto negli anni; Telefono Rosa e diversi giuristi hanno eccepito sull’ammontare delle cifre stanziate, ricordando come sentenze di diversi Tribunali abbiano riconosciuto per reati simili risarcimenti ben più cospicui: per una violenza sessuale dai 50 ai 150.000 mila euro. Nudm propone di ridefinire l’offerta reale del risarcimento dei danni nelle varie fattispecie dei reati di violenza secondo nuovi parametri, equi, congrui e uniformi che non sviliscano la gravità del reato ma rimettendo al centro la dignità offesa della donna e la risarciscano effettivamente per il danno economico e sociale che ha dovuto per mesi e spesso per anni sopportare. Ciò comporta fattivamente di porre a carico dello Stato l’anticipazione di tutte le somme disposte dall’autorità giudiziaria in loro favore, sia in sede civile sia penale, e superare le procedure attuali eccessivamente complesse e burocratiche di accesso ai fondi già costituiti.

Non Una di Meno chiede anche di ampliare la tutela costituita dal Permesso di Soggiorno alle donne migranti che subiscono una qualunque forma di violenza, come già avviene per i casi di violenza domestica secondo quanto contemplato dall’Articolo 18 bis TUIM: si tratta quindi di estendere tale tutela anche nei casi di violenza alle migranti sul posto di lavoro, o anche di violenza episodica, svincolandola dal percorso giudiziario/penale e garantendone l’accesso effettivo alle donne prive di documenti sul territorio italiano. Nudm riconosce e segnala il particolare ruolo e valore dei Centri Antiviolenza - CAV per il percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne. I Centri sono stati storicamente spazi autonomi, laici e femministi, dove operano esclusivamente donne, e che fungono da spazi di autonomia, di autodeterminazione e di liberazione, dove si fa elaborazione e si attivano processi di trasformazione culturale e politica per intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne di qualsiasi orientamento sessuale e cioè sia le donne cisgender, sia le transessuali e le lesbiche. Nei CAV vanno ricompresi tutti i centri, gli Sportelli, le Case Rifugio, le Case di Semi-autonomia, e gli spazi autogestiti dalle donne che affrontano il tema della violenza. Nei CAV opera un’equipe di donne integrata e con competenze multifattoriali, che lavorano in condivisione per mettere al centro il progetto della donna, che mantiene la sua autonomia e non è subalterna a nessuna istanza di istituzionalizzazione.

Cardine del lavoro nei CAV è la figura dell’ Operatrice di accoglienza /antiviolenza che oltre a un profilo professionale che può essere utile al suo ruolo (medica, avvocata, psicologa, etc.) possiede una formazione operativa femminista acquisita esclusivamente all’interno dei centri stessi; la sua operatività si fonda nella pratica femminista della relazione tra donne e nel contrasto agli stereotipi e alle discriminazioni di genere, attraverso l’ascolto empatico non giudicante e una giusta vicinanza. I CAV garantiscono la riservatezza, la segretezza, l’anonimato e la gratuità. In essi viene adottata una metodologia indirizzata alla autonomia e mai all’assistenza. I CAV accolgono e sostengono i singoli percorsi di fuoriuscita dalla violenza di ciascuna singola donna che a loro si rivolge, sia attraverso il sostegno legale, psicologico, alla genitorialità e all’autonomia economica (interventi sul fronte formazione, lavoro, casa), ma soprattutto aiutando la donna nella rielaborazione degli eventi subiti e nel percorso di empowerment verso la piena autonomia, nel rispetto dei desideri, dei bisogni e dei codici valoriali di ognuna. I CAV sono una risorsa sociale anche perché intervengono sulla formazione e sulla prevenzione della violenza sensibilizzando il territorio. La pluralità di azioni antiviolenza messe in campo dai CAV e l’obiettivo della continuità ed efficacia dei progetti richiedono ovviamente programmazione almeno triennale e risorse e finanziamenti pubblici adeguati sia a vantaggio delle donne sia per la valorizzazione dei CAV. Non servono nuovi CAV se quelli esistenti non vengono adeguatamente finanziati, è chiaro che Nudm si batte perché le risorse siano dal Governo allocate al Dipartimento delle Pari Opportunità e non lasciate alla responsabilità dei singoli ministeri.

La Conferenza Stato Regioni ha recentemente definito i requisiti minimi necessari dei Centri Antiviolenza e delle Case Rifugio, onde consentirne il riconoscimento a livello nazionale indispensabile per concorrere al riparto delle risorse finanziarie. Secondo il Piano Femminista l’inquadramento e i requisiti proposti sono eccessivamente “neutri”, non garantiscono la piena autodeterminazione della donna e non sono conformi ai principi sanciti dalla Convenzione di Istanbul (sottoscritta e già ratificata dall’Italia). Questi requisiti minimi richiesti non sono neppure stringenti sulla definizione di cosa debba intendersi per “Centro Anti Violenza”, su chi possa candidarsi a gestirlo, e lasciano ampi margini a una interpretazione assistenzialistica che consente margini ampi all’iniziativa del privato-sociale e agli interessi della imprenditoria professionale privata. Il “quadro strategico” presentato dal Dipartimento Pari Opportunità del Governo Gentiloni nel Settembre 2017 si è riservato il potere istituzionale di determinare le scelte delle politiche e degli interventi in tema di lotta alla violenza di genere, escludendo del tutto i Centri Antiviolenza dalla cabina di programmazione e regia. Con la pretesa di voler fare il bene della donna, l’attuale quadro strategico governativo si muove con una impostazione assistenzialistica, emergenziale e di “istituzionalizzazione” della donna, che viene ricondotta alla sua dimensione di soggetto debole, da porre sotto tutela dello Stato, massima istituzione patriarcale moderna. Relativamente al percorso di fuoriuscita dalla violenza ciò si è riverberato ad esempio nella proposta di un Vademecum dell’operatore sanitario (allegato B “Trattamento diagnostico-terapeutico”) che comporta un eccesso di medicalizzazione e di diagnostica obbligatoria e ineludibile a carico della donna che potrebbero addirittura rivelarsi per lei controproducenti, anche in sede di successivo dibattimento penale.

09/12/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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