Classifiche film classici, per ragazzi e documentari

Inauguriamo il consueto bilancio di fine anno con le classifiche dei classici del cinema riproposti in versione restaurata nelle sale, i film di animazione, i documentari.


Classifiche film classici, per ragazzi e documentari

1. Classici del cinema riproposti in versione restaurata nelle sale nel 2021:

Arancia meccanica, di Stanley Kubrick, drammatico, Gran Bretagna 1971, novembre 2021 distribuzione Warner Bros, voto: 9; un grande classico del cinema che non perde nulla con il passare del tempo, né perde di interesse e né manca di offrire un notevole godimento estetico offrendo, al contempo, molto su cui riflettere allo spettatore anche se lo ha già visto diverse volte. Il film dalla forma al contenuto, dalla fotografia, ai colori, al linguaggio, alla musica al montaggio appare quasi perfetto. L’imperfezione è nella conclusione che – per quanto molto realistica, come tutto il film del resto, per quanto in grado di smascherare le contraddizioni del potere e dei mezzi di comunicazione – non lascia spazio a una reale alternativa, a una prospettiva di superamento della società decadente in cui continuiamo a vivere e lottare.

Gran Torino di Clint Eastwood, Usa 2008, premiato come miglior film straniero in Italia e Francia, voto: 9-; finalmente un vero grande classico del cinema riproposto nelle sale. Con questo film Eastwood raggiunge uno dei punti più alti della sua altalenante carriera da regista e attore. Lo sfondo è realisticamente reazionario, con il regista che interpreta in fondo se stesso, un reduce della aggressione imperialistica alla Corea, razzista, intollerante e apparentemente incapace di amore. D’altra parte, l’attitudine opportunista della sua famiglia e, al contrario, la profonda umanità dei suoi vicini immigrati dall’Asia, lo porta, a poco a poco, a superare i suoi pregiudizi xenofobi e a imparare a riconoscersi e ad amare l’altro. Anche perché, sebbene egemonizzato dall’ideologia dominante e di fatto privo di coscienza di classe, è stato per tutta una vita un operaio alla catena di montaggio. Il film non può che piacere per il grande realismo, per i personaggi tipici che rappresenta, per il godimento estetico che assicura e per gli aspetti sostanziali su cui lascia alquanto da riflettere i suoi spettatori. Ancora più apprezzabile è il finale, imprevedibile e in grado di indicare un’importante prospettiva di superamento della guerra fra poveri, scatenata dall’ideologia dominante sempre pronta a fomentare, in particolare negli Stati Uniti, il razzismo.

Mulholland Drive di David Lynch, drammatico, Francia e Usa 2001, nomination all’Oscar e premio miglior regia al festival di Cannes del 2001, voto: 7+; uno dei più riusciti film di Lynch, in cui il regista si dimostra capace di tenere insieme la tendenza intellettualistica del cinema d’autore europeo con l’esigenza di garantire un certo godimento estetico, necessario per l’industria culturale a stelle e strisce. Mulholland Drive è assimilabile alle opere grandi borghesi della crisi del novecento che non riescono a riprodurre squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica. Dunque, pur esprimendo la crisi di un mondo giunto al suo tramonto, il film non è in grado di indicare nessuna prospettiva di superamento. Perciò Mulholland Drive è osannato dalla critica cinefila, al punto da essere addirittura considerato il migliore film del ventunesimo secolo.

Madre di Bong Joon-ho, drammatico, Corea del sud 2009, voto: 7; non c’è dubbio che Bong Joon-ho sappia davvero il fatto suo come regista. Anche questo film giovanile, uscito in versione italiana dopo il successo di Parasite, lo dimostra ampiamente. D’altra parte tutto questo talento rischia di andare perduto, in quanto per creare il colpo di scena finale fa emergere in tutta la sua brutalità la cattiveria dei poveri, per usare un concetto caro a Brecht. D’altra parte, mentre nei drammi brechtiani erano evidenti le responsabilità sociali, economiche e politiche di questa cattiveria “seconda” – ossia quale conseguenza della cattiveria “prima” dei ricchi – ciò non è affatto chiaro nelle opere del regista coreano. Anzi la cattiveria dei poveri, per quanto realisticamente rappresentata, finisce quasi per giustificare quella dei ricchi. Tanto che – esattamente come in Parasite – la tragedia si volge in tragicommedia, in quanto si ritorna (in modo decisamente conservatore) al punto di partenza. Certo, visto che il povero è essenzialmente il sottoproletario tale conclusione potrebbe apparire tutto sommato necessaria. D’altra parte il problema di fondo di questa lettura, solo apparentemente radicale del conflitto sociale, dipende dalla nefasta influenza del Marcuse il quale riteneva che, nei paesi a capitalismo avanzato, la classe potenzialmente rivoluzionaria sarebbe rappresentata dai “grandi esclusi” e non dal proletariato, che resta il grande assente nei film di Bong Joon-ho.

Mr. Klein di Joseph Losey, drammatico, Italia 1976, voto 7-; il film merita di essere visto per conoscere la profonda infamia della Repubblica di Vichy e il collaborazionismo delle classi dominanti francesi con i nazisti. In effetti la classe dirigente francese si era alleata, in funzione subalterna, con la Germania nazista pur di non rischiare un nuovo governo del Fronte popolare. Il film è intrigante, bel realizzato e lascia qualcosa di alquanto di significativo su cui riflettere allo spettatore. Peccato per il finale in cui manca una catarsi all’altezza e una reale prospettiva di superamento. Abbiamo così l’ennesima “tragedia” priva di conclusione, tanto cara all’ideologia dominante per il suo carattere sostanzialmente conservatore, in quanto non lascia aperta nessuna prospettiva di superamento.

Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, drammatico, Francia 1960, distribuito da Cineteca di Bologna da luglio 2021, voto: 6,5; decisamente uno dei film più sopravvalutati della storia del cinema, addirittura considerato fra i 30 migliori film europei di tutti i tempi. Per quanto possa apparire in certi momenti godibile, il film ha un interesse soltanto dal punto di vista formalistico, mentre dal punto di vista del contenuto non ha proprio nulla di significativo da comunicare. Del resto cosa ci si potrebbe aspettare da un film realizzato critici cinematografici cinefili sostanzialmente gollisti? Il loro, del tutto immeritato, successo è un altro frutto avvelenato della guerra fredda, dell’anticomunismo e della conseguente strenua lotta contro ogni forma di realismo.

In the Mood for Love di Wong Kar Wai, Cina (Hong Kong) 1999, voto: 6+; film incredibilmente sopravvalutato tanto da essere addirittura considerato un grande classico del cinema mondiale. Per quanto indubbiamente ben realizzato dal punto di vista tecnico, In the Mood for Love è tutto imperniato su un plot iper-romantico e decisamente noioso. La storia è incentrato su una potenziale storia d’amore, fra due persone tradite dai reciproci coniugi, che non si realizza mai a causa dei costumi patriarcali e decisamente reazionari dominanti – almeno al tempo del film – a Hong Kong.

Happy together di Wong Kar-wai, drammatico, Hong Kong 1997, voto: 6; uno dei risultati prodotti dalla dissoluzione del blocco sovietico è il predominio sostanzialmente incontrastato, anche a sinistra, del formalismo. In realtà la sconfitta sul piano politico era stata già anticipata e preparata sul piano del conflitto delle idee – nel corso della guerra di logoramento per conquistare l’egemonia sulla società civile. In tale scontro ideologico, già nel corso degli anni Sessanta, aveva iniziato a prevalere la concezione ideologica del formalismo da sempre cavallo di battaglia di conservatori e reazionari. Tale posizione negli anni Novanta si è imposta a livello internazionale come pensiero unico. Solo così si spiega il grande successo di critica e la sua riproposizione come se fosse un grande classico del cinema di un film alquanto modesto che lascia davvero ben poco su cui riflettere allo spettatore. Del resto è evidente che tanto il regista che la critica, senza sostanziali differenze fra destra e sinistra, hanno dato la completa prevalenza agli aspetti formali, snobbando decisamente la necessaria dialettica tra forma e contenuto.

Gomorra (New Edition), Matteo Garrone, Italia 2021, voto: 6-; film, romanzo, scrittore e regista assurdamente sopravvalutati, offrono una visione tutto sommato anestetica della criminalità organizzata campana. In effetti, nel film non si fa nessuno sforzo per indagare il fenomeno andando un po’ più a fondo del suo manifestarsi immediato, facendone emergere i risvolti politici, economici e sociali. Anzi, da quest’ultimo e decisivo punto di vista ci si limita a sostenere l’aberrante tesi che sarebbe la camorra a costringere il padronato a sfruttare la forza lavoro. Dunque, vi è una presentazione decisamente superficiale della camorra, i cui protagonisti sarebbero dei poveri sottoproletari dei quartieri più disagiati del napoletano. Di questi ultimi si offre una rappresentazione che tende quasi a naturalizzare i legami tra criminalità organizzata e disagio sociale, senza mai fornire nemmeno la possibilità di una prospettiva diversa e alternativa a quella offerta dalla camorra. Certamente la nuova edizione è migliore della precedente, anche se a tratti appare troppo pedantemente didascalica, senza per altro andare mai maggiormente a fondo nelle problematiche affrontate.

Hong Kong express di Won Kar Wai, Hong Kong 1994, voto: 5-; un altro film del tutto trascurabile assurdamente assurto a grande classico del cinema internazionale. In realtà si tratta di storie prive di qualsiasi dimensione sostanziale, manieristiche e postmoderne. Peraltro il grande sogno della protagonista femminile della seconda parte è di divenire la schiava domestica di un poliziotto di cui si è innamorata perdutamente dopo averlo visto nel locale in cui lavorava. 

Oldboy di Park Chan-wook, drammatico, Corea del sud 2003, voto 0; film assolutamente indecente. Fino a poco tempo fa la riproposizione dei classici del cinema offriva una decisa discontinuità rispetto alle tante, troppe miserie cinematografiche prodotte negli ultimi anni. Purtroppo l’attuale spirito dominante decadentista sta sempre più prendendo il sopravvento anche nella selezione dei sedicenti classici da ripresentare in versione restaurata, che rappresentano delle pure e semplici odi alla distruzione della ragione. Resta incredibile come abbia mantenuto un minimo di credibilità quella “critica” cinefila che oggi, come allora, considera questi pessimi saggi dell’ideologia postmoderna dominante – nella sua fase di compiuta putrefazione – come se si trattasse di veri e propri capolavori dell’arte cinematografica.

2. Film documentari distribuiti al cinema in Italia nel 2021

PresaDiretta – Julian Assange: processo al giornalismo, 30 agosto, voto: 8; per principio non guardiamo mai la televisione, principale mezzo di distrazione di massa e di indottrinamento dell’ideologia dominante e, di conseguenza, non recensiamo programmi televisivi. L’eccezione che conferma la regola è questa ottima e preziosa puntata del programma PresaDiretta in cui si denuncia oltre al caso Assange, le guerre imperialiste, il servilismo del nostro Stato all’impero a stelle e strisce, il gravissimo attacco persino ad alcuni capisaldi del liberalismo, come la libertà di stampa. Il coraggioso e molto accurato documentario su Assange non rappresenta, però, una reale cesura con l’ideologia dominante. Per sottolineare ciò, a scanso di equivoci, si premette subito che i tragici eventi di cui si parlerà sono avvenuti nel “civilissimo” Regno Unito e non, “come ci si potrebbe aspettare, nella dittatura bielorussa”. Ora al di là del fatto che il governo bielorusso è decisamente più legittimato a governare – persino dal punto di vista liberal-democratico – dei governi di tutti i paesi imperialisti, il Regno unito non solo è una delle più aggressive potenze neo colonialiste, ma è la patria, oltre che del liberismo, dello stesso neoliberismo. In tal modo, si finisce per delegittimare da subito l’efficacissima denuncia della puntata, facendo apparire i tragici eventi doviziosamente documentati come l’eccezione che confermerebbe la regola, per cui i paesi imperialisti sarebbero da considerare, paradossalmente, i campioni internazionali della democrazia e dei diritti umani.

Sanpa – Luci e tenebre di San Patrignano, serie televisiva documentaristica realizzata da Netflix, voto: 7,5; il documentario cerca di essere, a ragione, equilibrato e dialettico e, cosa importante, cerca di inserire la questione di San Patrignano in un quadro più vasto. Emerge così che con la crisi dei movimenti e l’inizio del riflusso spariscono improvvisamente le sgangherate macchine degli hippy che spacciavano marjuana dall’Olanda, sostituiti da strani personaggi con l’alfetta e i capelli corti che – con la scusa di offrire l’erba scomparsa dal mercato – cominciano a distribuire gratuitamente l’eroina ai potenziali consumatori. Quest’ultima presto si diffonde, potenziata dall’industria culturale che esalta i divi del rock che ne fanno uso e dallo Stato che non fa assolutamente nulla per arrestarne lo spaccio, né si preoccupa di curarne le vittime. Queste ultime finiscono per gravare completamente sulle famiglie e la società che, esasperate, finiscono con l’accettare la loro reclusione gratuita nella comunità di San Patrignano. Qui un carismatico pseudosantone, sfrutta il lavoro gratuito dei reclusi, criticando aspramente i mezzi di trattamento scientifici messi a disposizione dalle strutture pubbliche, carenti e spesso poco interessate a intervenire. 

Il documentario riesce a non essere noioso, cosa decisamente complicata nella serie. D’altra parte rischia di essere un po’ troppo schiacciato sull’opinione pubblica che tendeva a esaltare il privato che si sostituisce allo Stato, usando metodi autoritari, paternalisti, sebbene pretendesse di essere al di sopra della legge. In effetti fra gli intervistati abbiamo molti personaggi del clan di Muccioli o sui congiunti o giornalisti apologeti, con la parziale eccezione del cronista dell’“Unità” del tempo e del sindaco del Pci del piccolo comune in cui era sorta la comunità. In effetti, spaventa vedere un’opinione pubblica (già negli anni Ottanta) anestetizzata da molti dei pregiudizi tipici degli attuali elettori di Trump o Bolsonaro. Allo stesso modo non può non stupire il constatare come già allora i grandi mezzi di comunicazione erano schierati, unilateralmente, sulle posizioni della destra populista. Colpisce, inoltre, come un personaggio senza nessuna qualifica professionale e con un passato da truffatore da quattro soldi, sia potuto divenire un personaggio centrale a livello nazionale, a ulteriore dimostrazione di quanto possano essere stati terribili gli anni Ottanta. Infine, non può che stupire quanto bisogno di socialità ci sia in una società individualista, egoista e asociale come la liberale, tanto da rilanciare forme decisamente premoderne e reazionarie di comunitarismo.

Fortunatamente, con il terzo episodio, dopo aver descritto l’ascesa di Muccioli fino a divenire l’italiano più stimato dall’opinione pubblica, comincia a poco a poco a emergere il lato oscuro di San Patrignano che – sino a quel momento – poteva intuire solo lo spettatore già provvisto di un giudizio critico autonomo in materia. Fino a metà del terzo episodio il documentario ha un andamento piuttosto naturalistico, che non lascia emergere le contraddizioni e che può essere utile solo per chi ha già una salda convinzione critica sull’argomento, mentre per il pubblico medio finisce per riproporre, grosso modo, la visione in fin dei conti apologetica costruita dall’industria dello spettacolo. Significativa la svolta, anche perché gli aspetti estremamente negativi del personaggio e del sistema di oppressione che aveva costruito emergono proprio quando l’enorme successo gli dà alla testa e lo porta a comportamenti sempre più deprecabili da superuomo nietzschiano. Veniamo così a sapere che vi è un uso sistematico della violenza, della rigida separazione dei sessi, del controllo, della delazione e della umiliazione di qualsiasi voce critica. Peraltro vi è un sistema di censura e di coercizione spaventoso coperto dalla società capitalista che vuole rinchiudere in questo vero e proprio lager i tossicodipendenti per non averli più sotto gli occhi. Senza contare che i malcapitati sono sempre più sfruttati, sulla base del principio scritto non a caso sulle porte dei campi di concentramento: il lavoro rende liberi.

Più il documentario va avanti e più vi è uno sviluppo dialettico, in quanto Muccioli più acquista potere e più tende a gestire la comunità come un sostanziale campo di concentramento. Così per quanto fosse popolarissimo, con enormi agganci politici, istituzionali e con la vergognosa copertura massmediatica delle sue malefatte, queste ultime finiscono per superare il limite di decenza, costringendo la magistratura a intervenire. Così, a poco a poco, anche gli ex tossici del cerchio magico di Muccioli iniziano a non coprirne più sistematicamente le malefatte, cominciano ad apparire i distinguo e, anzi, qualcuno finisce con il rifarsi sul padre padrone per le ingiustizie subite, vuotando il sacco. Al solito gli unici che nel modo più svergognato continuano a difenderlo a spada tratta sono gli imprenditori, che da sempre lo hanno sostenuto e un certo numero di fedelissimi giornalisti. Mentre finalmente i giovani reclusi sfruttano la prima occasione valida per abbandonare la comunità, invece di ammassarsi ai suoi cancelli con la preghiera di essere accolti. Particolarmente spaventosa è la gestione dell’Aids. Tutti i membri della comunità vengono sottoposti a controlli senza essere avvisati di cosa si trattasse e Muccioli, dopo essersi reso conto che due terzi degli internati nella comunità erano sieropositivi, non solo nasconde l’allarmante dato, ma impiega anni prima di rivelare, nel modo più cinico, la tragica verità ai diretti interessati, senza curarsi di quanto possano aver, in modo del tutto inconsapevole, nel frattempo diffuso il virus. Senza contare che Muccioli sfrutta la sua comunità per testare anche i più ciarlatani esperimenti per guarire i malati di Aids. Resta infine particolarmente misterioso come possa essersi diffuso in un modo così ampio l’Aids in una comunità dove era proibito qualsiasi contatto fra i due sessi e si usavano i metodi più coercitivi per impedire ai giovani reclusi di uscire e fare ancora uso di sostanze stupefacenti a rischio. Peraltro si accenna appena a delitti a sfondo sessuale e omosessuale, senza mai affrontare direttamente tale tematica. Infine emerge che proprio Muccioli è stato il principale artefice della legge che criminalizzava chi faceva uso di sostanze stupefacenti, anche leggere come la cannabis, con il risultato di riempire le carceri di tossici, ai quali era data la possibilità di scontare la pena in comunità come quella di San Patrignano. Comunità nella quale sostanzialmente tutto era permesso, come in un mini sistema totalitario, in quanto lo stesso Stato si lavava le mani del problema e lo occultava, scaricandone i costi, che naturalmente ricadevano sullo sfruttamento dei reclusi in comunità. Mentre i finanziamenti a Muccioli raggiungevano cifre strepitose, che il losco figuro utilizzava per comprare i più cari cavalli o cani d’Europa, naturalmente evadendo le tasse ed esportando all’estero, senza dichiararle, ingenti quantità di denaro.

Nell’ultimo episodio emerge come la gestione di Muccioli sia divenuta talmente insopportabile che non solo molti reclusi si convincono a denunciare le sevizie subite, ma diversi esponenti del suo stesso “cerchio magico” lo accusano. Tuttavia è tale la capacità di mobilitazione popolare del populismo di destra, fomentata dai mezzi dei comunicazione di massa, che alla fine i giudici si vedono costretti a far cadere l’accusa di omicidio e a lasciare in piedi soltanto quella di aver concorso all’occultamento di esso, per cui Muccioli è condannato a una pena detentiva ridotta, che non sconta in carcere, ma agli arresti domiciliari. Stessa sorte tocca al macellaio della squadra punitiva, che sebbene venga riconosciuto colpevole di omicidio ha la possibilità di scontare la pena ai domiciliari. A questo punto la stessa condanna di Muccioli è occultata dai mezzi di comunicazione di massa che insistono quasi esclusivamente sulla assoluzione dall’accusa di omicidio. Tanto più che, nel frattempo, con il primo governo Berlusconi, Moratti diviene presidente della Rai. In tal modo, senza nemmeno bisogno di pressioni dirette, la maggioranza dei giornalisti si adeguano al nuovo clima, continuando a realizzare servizi tesi all’apologia di San Patrignano. Così, sebbene quasi certamente Muccioli si ammali di Aids, anche a causa della sua probabile omosessualità nascosta, tutto ciò viene completamente occultato, per non insabbiare la figura divenuta vessillo delle legge e dell’ordine. Muccioli sparisce dalla scena, senza giustificare la sua assenza nemmeno al cerchio magico. Così anche i suoi più stretti collaboratori sono convocati solo dopo la sua morte e si impedisce durante la cerimonia ogni foto o ripresa della salma. Riemergono così i sospetti che ci sia qualche cosa che non torni nel numero enormemente elevato di reclusi nella comunità colpiti dall’Aids, tanto è vero che tale scoperta è stata per anni occultata anche ai più stretti collaboratori. D’altra parte è talmente potente “l’eroe di carta” costruito dall’ideologia dominante che gli stessi autori del documentario sono decisamente portati ad autocensurarsi, tanto che l’impressione che si ha alla fine è che sia stato soltanto appena sollevato il coperchio che cela le nefandezze della comunità, da cui esce un fetore talmente insopportabile, da spingere a richiuderlo al più presto, piuttosto che scoperchiarlo. D’altra parte i rapporti di forza attuali fra le classi rendono sempre più difficile realizzare documentari di denuncia come questo, che mettono radicalmente in questione l’ideologia dominante e la sua narrazione accomodante della storia.

1938 – Diversi di Giorgio Treves, documentario, Italia 2018, voto: 7,5; documentario molto efficace di denuncia del fascismo, del razzismo e, in particolare, delle leggi razziali. Finalmente è stato realizzato e distribuito un documentario non revisionista e rovescista che denuncia in modo adeguato tutta la barbarie del razzismo fascista. Il documentario ha il merito di denunciare il profondo razzismo di Indro Montanelli e il fatto che le leggi razziali non furono affatto un pegno da pagare per l’alleanza dell’Italia con Hitler. Unici nei di 1938 – Diversi sono l’insistere sul fatto che l’emancipazione degli ebrei nel 1848 sarebbe stata merito dei Savoia e il goffo tentativo di salvare la Chiesa cattolica dalle proprie responsabilità storiche nella stessa persecuzione degli ebrei.

Crip Camp – Disabilità rivoluzionarie di Nicole Newnham e Jim LeBrecht, documentario, Usa 2020, voto: 7+; bel documentario che dimostra come una lotta per l’emancipazione di una parte particolarmente discriminata della società abbia ottenuto degli eccezionali successi sviluppandosi all’interno di un movimento generale di rovesciamento dell’ordine costituito definito, un po’ impropriamente, movimento del sessantotto. Anche questa decisiva lotta per l’emancipazione, della più grande minoranza discriminata degli Stati Uniti, è stata una grande lotta per il riconoscimento dell’eguaglianza e della compiuta umanità dei diversamente abili. Una lotta per l’emancipazione che nasce attraverso un rivoluzionario campo estivo per diversamente abili organizzato da sessantottini, in cui si forma il nucleo che darà vita al grande movimento per l’emancipazione dei diversamente abili. Un movimento che ha avuto, nei suoi momenti di lotta più significativi, il pieno sostegno degli altri movimenti, a partire da quello rivoluzionario delle Pantere nere, capaci di riconoscersi in pieno con chiunque si batta per l’emancipazione del genere umano. Naturalmente le conquiste del movimento hanno dovuto resistere e poi contrattaccare dinanzi all’insorgere delle forze della emancipazione neoliberista, giunte al potere con Ronald Reagan.

La strada dei Samouni di. S. Savona, Palestina, Striscia di Gaza, dic. 2008 - genn. 2009, DocuFilm Italia e Francia 2018, voto: 7; importante documentazione degli spaventosi crimini contro l’umanità portati a termine dalle truppe sioniste ai danni di povere e pacifiche famiglie di contadini palestinesi. Questi ultimi – essendo apolitici, molto religiosi, avendo lavorato per anni in Israele e avendo mantenuto pacifici rapporti anche con i coloni – non immaginavano che l’esercito occupante li avrebbe massacrati come monito per tutti i palestinesi. Molto efficaci le ricostruzioni dei tragici eventi, oltre che mediante testimonianze dirette, con efficaci inserti di animazione, molto suggestivi, e attraverso le riprese dirette di aerei e droni sionisti. Peccato che il film risulta gravemente deturpato dall’ideologia postmoderna che porta il regista a uno sguardo puramente naturalistico che resta necessariamente alla superficie dei fenomeni affrontati e pretende di narrare la storia dal punto di vista del cameriere. Tutto ciò rende insostenibile tutta la prima parte del documentario, con il risultato di allontanare anche i pochi spettatori che avrebbero potuto avere accesso a questa pur importante documentazione. Particolarmente negativo è anche il punto di vista, altrettanto ideologico, delle vittime, che vengono spesso – in modo decisamente reazionariocontrapposte alle forze della resistenza.

The Dissident – Il dissidente di Bryan Fogel, documentario, Usa 2020, voto: 7-; significativo e anche coraggioso film di denuncia di uno degli Stati più oscurantisti e reazionari del mondo, da sempre fidato alleato dell’imperialismo occidentale, che considera questa tirannia assolutistica come capofila dei paesi arabi “moderati”. La sua influenza sui paesi imperialisti e sugli Stati Uniti ha fatto sì che, nonostante abbia barbaramente assassinato il più noto giornalista del paese – al lavoro per il Washington Post, proprietà dell’uomo più ricco del mondo – non ha dovuto subire alcun tipo di conseguenza sul piano dei rapporti internazionali. Così, sebbene l’omicidio costituisce un lampante caso di avvertimento di tipo mafioso nei confronti di qualsiasi “cittadino” osi esprimere opinioni non in linea con la monarchia assolutistica, quest’ultima non è ancora posta in questione. Peraltro, con l’aiuto dell’israeliano Pegasus, il regno è riuscito a ricattare pesantemente l’uomo più ricco del mondo e “datore di lavoro” del giornalista massacrato. Peccato che il film dal punto di vista formale sia piuttosto debole e, a tratti, finisca con il risultare alquanto noioso.

I Am Greta – Una forza della natura di Nathan Grossman, documentario, Svezia 2020, voto: 6,5; un buon documentario che mostra come l’impegno di un singolo, se riesce a cogliere e interpretare un bisogno reale collettivo, è in grado di innescare una poderosa mobilitazione, come quella per il clima, purtroppo finita in secondo piano con lo scoppio della pandemia. Colpisce, inoltre, la forza e il coraggio di questa giovane adolescente che senza mezzi termini mette dinanzi ai grandi della terra le loro enormi responsabilità e le continue menzogne sul loro presunto impegno nel contribuire alla lotta per i cambiamenti climatici. Il limite del documentario è la prospettiva acritica e di fatto apologetica nei confronti di questa adolescente diversamente abile. In effetti, per quanto per molti versi ammirevole, colpisce anche negativamente l’impostazione moralista, volta a responsabilizzare il singolo, piuttosto che comprendere che si tratta di cambiare radicalmente il modo di produzione. A tratti si rischia così di scadere nel sottoconsumismo e di farsi – per quanto involontariamente – strumentalizzare da personaggi molto poco raccomandabili, dal momento che manca completamente anche la più basilare conoscenza del materialismo storico.

Challenger, miniserie documentaria statunitense 1x4, voto: 6+: ben fatto, interessante e al contempo avvincente documentario sul più tragico incidente nei viaggi spaziali statunitensi. Il film è un interessante saggio storico sui devastanti anni Ottanta, funestati dalla presidenza Reagan. Alle cui origini vi è la svolta conservatrice dopo due decenni di lotte sociali che ha portato alla piena affermazione egemonica dell’ideologia neoliberista. Così, da una parte vediamo che, per la prima volta, la Nasa è stata costretta ad aprire ad astronauti donne, afro discendenti o di origine asiatica, quale riforma imposta dai movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. Si tratta, comunque, di una riforma improntata all’ideologia neoliberale, per cui le concessioni sono funzionali a dividere il movimento e a portarlo a non essere caratterizzato da grandi obiettivi universalisti – in grado di parlare alla maggioranza del paese e del globo. In tal modo il grande movimento di contestazione è stato frammentato in tanti piccoli movimenti particolaristici, che si rivolgono a minoranze e tendono a isolarsi. Inoltre emerge la spettacolarizzazione e mercificazione dello spazio, per imporre a livello internazionale il modello statunitense. Così “la conquista dello spazio” si è rivelata una micidiale arma di distrazione di massa dinanzi alle precedenti lotte sociali e come compensazione dinanzi alle controriforme portata avanti dal neoliberismo. Così la moltiplicazione dei viaggi spaziali riesce al prezzo di utilizzare – per risparmiare – dei razzi propulsori estremamente pericolosi che, non a caso, i sovietici non si erano mai sognati di utilizzare. Per cui la tragedia non poteva che risultare decisamente prevedibile all’interno dell’insana logica del rischio calcolato che si era adottata. Così, dopo aver sfiorato più volte la tragedia – senza rendere pubblici questi potenzialmente decisivi campanelli d’allarme – il disastro già a lungo dilazionato non poteva che esplodere. Anche in questo caso, naturalmente, tutto verrà insabbiato, per impedire che si individuino le reali responsabilità, che debbono essere ricercate nella smania di apparire, più che di essere, e nella volontà di risparmiare.

Il secondo episodio risulta un po’ noioso e ripetitivo, in quanto non  aggiunge nulla di veramente significativo al precedente. Anche se si accentua come nella società capitalista per finanziare i viaggi nello spazio sia necessario corrompere i parlamentari, che la finanziano, e mantenere alto l’interesse dell’opinione pubblica, con il mito che si stanno gettando le condizioni per cui anche l’uomo comune potrà, in un futuro prossimo, viaggiare nello spazio. In tal modo, nei viaggi spaziali vengono introdotti personaggi non qualificati, come appunto congressisti o il rappresentante dell’uomo qualunque. Inoltre l’esigenza di tagliare i costi e di spettacolarizzare le missioni spaziali, portano ad aumentare sempre più il rischio calcolato, il quale finisce necessariamente per comprendere l’incidente mortale. Infine, significativo come nella società di allora fosse ancora molto elevata, grazie alle lotte dei decenni precedenti, il ruolo sociale dell’insegnante, della cui centrale funzione sociale parla con toni quasi apologetici persino Ronald Reagan. Se pensiamo all’attuale discredito di tale funzione sociale, ci rendiamo anche conto di come siano cambiati in modo drastico i rapporti di forza fra le classi sociali anche sul piano sovrastrutturale della lotta delle idee.

Il terzo episodio conferma che il materiale significativo poteva essere tranquillamente rappresentato in un documentario di due ore, piuttosto che in una diluita e alquanto noiosa serie di 4 puntate. Inoltre il solito metodo postmoderno che esclude il narratore esterno – entro una certa misura onnisciente – non consente di farsi una idea determinata di quanto è avvenuto, né soprattutto di esporre e poter cogliere l’essenziale della vicenda. Così le poche notizie significative sono mescolate ad altre del tutto superflue e alquanto avvilenti, visto che spesso mostrano parenti delle vittime raccontare tutti eccitati i loro ricordi e la loro felicità per un’avventura conclusasi in modo tanto drammatico. Colpisce la totale impreparazione della Nasa, incapace di prevedere il tempo, anche da un giorno all’altro, e di sistemare in tempi non biblici dei malfunzionamenti del tutto prevedibili. L’impressione è che le varie attività necessarie alla missione siano state date in appalto a una serie di imprese private che, per risparmiare sui costi e massimizzare i profitti, offrono servizi incredibilmente inefficienti. Significativo anche lo strutturale malfunzionamento di un ente pubblico, di importanza strategica, gestito secondo la logica privatistica, tipica del capitalismo, per cui le ultime parole non spettano a esperti e scienziati, ma a general manager e, anzi, si invitano gli ingegneri nel dare i loro pareri a ragionare da manager, per cui l’essenziale è che lo “show must go on”, anche perché sono pagati proprio a tale scopo.

La quarta puntata affronta, infine, le responsabilità del disastro. Emerge evidentemente la totale reticenza e impunità dei vertici della Nasa, che ancora oggi giustificano il loro criminale “rischio calcolato”. Decisamente omertoso e in fondo connivente appare il presidente degli Stati Uniti Reagan che spinge il presidente della commissione di inchiesta parlamentare a difendere a priori la Nasa, in quanto si tratterebbe di eroi nazionali e “the show must go on”. Sfortunatamente fra i membri della commissione vi era anche uno spirito libero, nobel per la fisica, che dimostra con un semplice esperimento la colpevole scelta della Nasa di far partire, nonostante la gelata notturna, e il parere contrario della ditta appaltatrice dei missili, la missione. Tanto che uno degli esperti, chiamati a testimoniare nel documentario sostiene che più che un incidente si sia trattato di un omicidio colposo. Al fondo della questione vi erano le menzogne della Nasa che, per farsi finanziare le costosissime missione, aveva promesso un numero di voli assolutamente irrealizzabile, che ha costretto a far partire molte missioni in assenza delle necessarie minime condizioni di sicurezza.

The Truffle Hunters di Michael Dweck e Gregory Kershaw, documentario, Italia, Usa e Grecia 2020, voto 6; documentario che ha ottenuto molti premi e riconoscimenti. Dal punto di vista meramente formale il documentario è certamente ammirevole, ma dal punto di vista del contenuto si mostra sostanzialmente inadeguato. Così, The Truffle Hunters per quanto assicura un certo godimento estetico offre troppo poco su cui riflettere allo spettatore. A rendere stoltamente elitario il film interviene poi l’attitudine postmoderna per cui non solo la vicenda non è per niente contestualizzata, ma il dialetto quasi costantemente parlato nel documentario risulta in buona parte incomprensibile allo spettatore. Ci si consola con la mesta consapevolezza che, comunque, non ci si è certamente persi nulla di sostanziale.

Pepe Mujica, una vita suprema di Emir Kusturica, documentario, Argentina, Uruguay, Serbia 2018, voto: 6-; piuttosto deludente date le aspettative, dal momento che si trattava della vita di un grande uomo politico e di un grande regista, che nel passato avevamo, forse un po’ troppo, mitizzati, e che oggi sembrano ridotti all’ombra di loro stessi. Certo fra tanti farabutti che girano oggi in entrambi gli ambiti, i due hanno quanto meno mantenuto una posizione sinceramente democratica. D’altronde è evidente che entrambi hanno sostanzialmente esaurito ciò che di significativo avevano da dire e le cose più interessanti restano i ricordi del passato.

David Attenborough – Una vita sul nostro pianeta di Alastair Fothergill, Jonathan Hughes, Keith Scholey documentario, Netflix, Regno unito 2020, voto: 5,5; tipico documentario di denuncia della devastazione dell’ambiente, ricco di immagini molto suggestive. Al solito la denuncia dei rischi che la distruzione dell’habitat naturale dell’uomo sta provocando è molto efficace. D’altra parte, come di consueto, chi finanzia il film è parte delle cause di tale situazione e, perciò, è del tutto assente una critica al modo di produzione capitalistico e la necessità di superarlo in senso socialista. Per cui i rimedi proposti sono spesso peggiori del male che si denuncia e vanno dalla ripresa delle tesi reazionarie di Malthus a quelle, ancora più reazionarie, del secondo Heidegger.

They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani di Peter Jackson, documentario, Usa 2018, voto: 5+; documentario sulla Prima guerra mondiale, molto curato dal punto di vista formale, anche se sia il colorare le immagini di repertorio in bianco e nero risulta un enorme lavoro sostanzialmente fine a se stesso, sia il montaggio delle testimonianze è decisamente discutibile tanto dal punto di vista strutturale che contenutistico. Innanzitutto è assolutamente intollerabile il vezzo postmoderno di presentare dei documenti senza analizzarli e interpretarli, secondo il pregiudizio religioso per cui l’interpretazione invece di arricchire il mero documento lo tradisce e ne impone didatticamente una lettura. In tal modo apparentemente non si spiega nulla, lasciando del tutto abbandonato a se stesso lo spettatore, cui si dà a credere di avere dinanzi documenti oggettivi, anzi la “cosa stessa”, mentre in realtà si tratta di una necessaria selezione del tutto soggettivistica e, nel caso specifico, decisamente rovescista. Innanzitutto non si specifica da chi provengono le testimonianze che commentano le immagini, non si distingue, dunque, minimamente sul piano economico, politico, sociale e di classe l’essere sociale dei diversi testimoni. Per cui ogni testimonianza sembra riferita al fatidico uomo qualunque che si ritrova in prima linea. Al contrario, le testimonianza sono radicalmente selezionate per far passare un’immagine sostanzialmente apologetica della prima guerra imperialista mondiale, di cui si cancellano tanto le cause quanto gli effetti. Cosa ancora più grave, questa selezione improntata alla peggiore Kriegsideologie (esaltazione ideologica della guerra), non è opera di un autore convintamente e consapevolmente della destra radicale. In tal caso, per quanto si tratterebbe della peggiore scelta, ci si sarebbe assunti quanto meno la sua responsabilità. Al contrario, si tratta proprio di quella totale mancanza di pensiero critico, non a caso individuato come base del totalitarismo, che porta ad aderire autonomamente, naturalmente, all’ideologia dominante, come se si trattasse dell’unica possibile interpretazione.

The Beatles Get Back 1x3 di Peter Jackson, serie documentaria musicale, distribuita da Disney +, voto: 5. Si tratta in realtà di un documentario di ben 8 ore, che documenta la creazione artistica dell'album Let It Be e la pianificazione della prima esibizione dal vivo dopo tre anni dei Beatles, fino all’ultimo loro concerto sul tetto. Per quanto possa essere piacevole per gli appassionati di questo celebre gruppo musicale, il documentario finisce con l’essere intollerabilmente noioso per la sua spropositata lunghezza. Ci si perde così nei particolari più accidentali documentando, per esempio, delle discussioni prive di qualsiasi rilievo. Peraltro, il consueto vezzo postmoderno di non spiegare nulla e di non far emergere i rarissimi aspetti significativi di questa mortalmente lunga cronaca della morte annunciata dei Beatles rende il documentario davvero insostenibile per i non addetti al culto del celebre gruppo di Liverpool.

Le grand bal di Laetitia Carton, documentario, Francia 2018, voto 5-; documentario che avrebbe potuto essere anche interessante se fosse durato un terzo della durata effettiva, ossia se fosse stato ridotti a un mediometraggio di trenta minuti e se avesse avuto un taglio realistico e non piattamente e noiosamente naturalistico, che lo rende pesante e – dopo i primi trenta minuti – di fatto insostenibile.

Nessun nome nei titoli di coda di Simone Amendola, documentario, Italia 2019, voto: 4,5; documentario ultra postmoderno, con regista e sceneggiatore che rifiutano la loro funzione di raccontare una storia, come quella – nel caso specifico – dei lavoratori manuali di Cinecittà, da un punto di vista universalizzante e si limitano a filmare gli eventi dal punto di vista più distorto, cioè secondo lo sguardo soggettivistico del cameriere. In tal modo, la totalità, la storia, la società e le classi sociali spariscono e restano i ricordi di una persona anziana scarsamente istruita con le sue fissazioni individualistiche. C’era materiale sufficiente a realizzare un cortometraggio, con alcune trovate divertenti da personaggi che sembrano i modelli dei migliori film di Verdone, ma una volta inutilmente dilatati in un lungometraggio il documentario non può che risultare inutilmente noioso e pesante.

L’occhio di vetro di Duccio Chiarini, documentario, Italia 2020, distribuito da Istituto Luce, voto: 4+; documentario a tratti interessante, in quanto scava nel passato fascista, sempre più o meno occultato, della propria stessa famiglia. Così da un caso particolare si ricostruiscono alcune vicende storiche di carattere universale. Peccato che l’intento di capire porti il regista a riscoprire la presunta umanità dei sui parenti fascistissimi mai pentiti e a esaltare il cognato che, per quanto partigiano, li nasconde dalle rappresaglie in quanto, al di là delle diverse vie in cui gli avrebbe portati la storia, vi sarebbe fra di loro un legame umano superiore. In tal modo si finisce, in completo accordo con l’ideologia dominante, per riabilitare, di fatto, anche chi ha sempre militato nel fascismo.

Notturno di Gianfranco Rosi, documentario, Italia 2020, voto: 4-; film insostenibile che ha degnamente rappresentato l’attuale italietta come candidato agli Oscar per il miglior film straniero. Rosi – senza avere una visione del mondo anche minimamente alternativa a quella dominante – pretende di affrontare le molteplici problematiche del Medio Oriente. Il documentarista, però, non si documenta e non svolge un’analisi storica, politica, sociale, di classe, economica, filosofica della realtà, ma cerca esclusivamente delle immagini per valorizzare, dal punto di vista meramente formale, il proprio lavoro. Non avendo una visione del mondo alternativa, subisce in pieno l’ideologia dominante, a cominciare dal post-moderno, per cui non si fa nessuno sforzo per comprendere la realtà, ma ci si limita a metterne in evidenza degli aspetti fenomenici, per altro staccati gli uni dagli altri, che non consentono nessuna comprensione più profonda della sostanza storica. Si tratta di un film elitario, cosmopolita, pensato a esclusivo beneficio dei cinefili.

Il mio amico in fondo al mare di Pippa Ehrlich, James Reed, documentario, Sudafrica 2020, voto: 3,5; fra i film più sopravvalutati dell’anno, dal momento che si è aggiudicato, in modo davvero inspiegabile, il premio Oscar al miglior documentario. Il film oltre a essere del tutto inverosimile e privo di ogni seria base scientifica è tutto fondato sulla concezione reazionaria, lanciata dai romantici e ripresa dai nazisti, per cui la natura sarebbe superiore ai prodotti dello spirito umano. Si tratta di una tendenza ecologista reazionaria oggi pericolosamente tornato di moda, a ulteriore dimostrazione che davvero viviamo in tempi oscuri.

Fran Lebowitz – Una vita a New York di Martin Scorsese, Usa 2021, serie in sette puntate, voto: 3+; intollerabile serie documentaria di Martin Scorsese che, con un delirio romantico di onnipotenza, ci ammorba lasciando campo libero a una sua amica, che considera geniale e piena di spirito mentre, almeno al pubblico italiano che vede la serie doppiata su Netflix, appare una persona priva di qualsiasi qualità di rilievo. A ciò si mescola il rapporto d’amore del regista con la sua città, altro legame puramente personale, soggettivo, privo di qualsiasi universalità. La serie, sin dalla prima puntata, oltre a essere estremamente noiosa, per chi non ha condiviso quel vissuto del tutto particolaristico, ha come unico motivo di interesse la vana ricerca del movente che ha spinto uno dei registi più quotati a incentrare un’intera serie su un personaggio che appare del tutto privo di interesse da un punto di vista universale.

Quello che i social non dicono – The Cleaners di Hans Block e Moritz Riese Wick, documentario, Germania, Brasile e Italia 2018, voto: 2+; documentario su una tematica sostanziale, che avrebbe potuto essere non solo molto interessante, ma al contempo anche molto istruttivo. Peccato che è stato realizzato nel peggiore dei modi, in quanto le enormi responsabilità delle multinazionali che controllano e censurano buona parte dell’informazione e molto più spesso della disinformazione a livello mondiale scompaiono quasi completamente. A tratti il documentario sembra commissionato proprio dai social, tanto appare indirettamente apologetico. Appare evidente che chi ha realizzato il documentario non solo è decisamente incompetente, ma non ha nessuna bussola che gli consenta di distinguere il bene dal male in ciò che viene censurato. Inoltre, non vi è nessuna denuncia dello sfruttamento dei lavoratori del terzo mondo, che anzi appaiono addirittura fieri di essere sfruttati dalle multinazionali.

Fellini degli spiriti 2020 di Selma Dell’Olio, documentario, Italia 2020, voto 1; documentario indecente, senza capo né coda, che cerca di portare avanti interpretazioni ultra forzate e irrazionaliste di Federico Fellini senza nessuna base reale, anzi interpretazioni che vengono smentite dalle testimonianze dello stesso grande regista riportate nel documentario. Di Fellini si tendono a portare fino alle più estreme conseguenze gli aspetti più irrazionalisti e reazionari. Peraltro ci si concentra in modo del tutto assurdo sul Fellini uomo e non sulla sua certo discutibile, ma indubbiamente molto significativa, opera cinematografica. Come se potesse essere oggetto di un interesse universale il Fellini come individuo singolo e non le opere d’arte che ha prodotto.

3. Film di animazione e per ragazzi distribuiti nei cinema italiani nel 2021

Crudelia di Craig Gillespie, commedia, distribuito da Walt Disney, Usa 2021, voto: 7+; film ber rifinito e certamente godibile, rivisita la storia della famosa Carica dei 101, da un punto di vista spiazzante, ovvero dal punto di vista del personaggio che nel celebre cartone animato incarna il male radicale. Rovescia così il significato di un classico prodotto dell’industria dello spettacolo da un punto di vista straniante, nella prospettiva del negativo. Nella contrapposizione e nel rovesciamento dei contrari si presenta anche un significativo squarcio di lotta di classe, anche se essenzialmente incentrata su due grandi antagonisti. Notevole è anche la colonna sonora.

I Croods 2 – Una nuova era di Joel Crawford, animazione, avventura, commedia, Usa, 2020, voto: 7; bel film di animazione per grandi e piccini, godibile esteticamente e che lascia alquanto da pensare sulla necessità di modificare le regole e le usanze del passato, per poter progredire. Se ne deduce che bisogna abbandonare la posizione conservatrice tradizionalista – che rimane prigioniera di vecchie regole, usanze e visioni del mondo – per aprirsi al nuovo e al progresso. Da questo punto di vista diviene determinante apprendere a pensare in modo creativo, con la propria testa. Il film ha ricevuto una meritata nomination come miglior film di animazione ai Golden Globe Awards 2021, forse i riconoscimenti cinematografici più attendibili e decisamente più sensati dei giudizi pesantemente viziati ideologicamente dei festival europei del cinema.

Rocca cambia il mondo di Katja Benrath, commedia, avventura e drammatico, Germania 2019, voto: 6,5; discreto film per bambini godibile e al contempo abbastanza istruttivo. A tratti può essere apprezzato anche dai più grandi. Valido come riscatto per i kazaki pesantemente attaccati, con toni decisamente razzisti, nel vergognoso film Borat. Lo spirito della bambina e il suo modo rivoluzionario di rapportarsi al mondo a tratti è notevole. Peccato che, come spesso accade nel cinema borghese, l’impegno sociale è considerato a favore del sottoproletariato, nel caso specifico proprio del Lumpenproletariat, e mai a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori salariati sfruttati.

Se succede qualcosa, vi voglio bene di Michael Govier e Will McCormack,  cortometraggio di animazione, Usa 2020, distribuito da Netflix, voto: 6+; sinceramente da un cortometraggio di animazione vincitore di un premio Oscar ci si aspetterebbe qualcosa di più. Ciò non toglie che il cortometraggio è certamente debitamente rifinito ed evita cadute nel postmoderno o nell’ideologia dominante. Inoltre, sebbene in modo troppo poco approfondito, denuncia le stragi – troppo spesso – perpetuate nelle scuole negli Stati Uniti.

Trash – La leggenda della piramide magica di Luca Della Grotta e Francesco Dafano, animazione, Italia 2020, voto: 6; considerato che è stato premiato come miglior film di animazione italiano dell’anno era forse lecito aspettarsi qualcosa di più. Certo ci sono delle trovate significative, a tratti i personaggi sono emozionanti e il plot riesce a mediare in modo semplice, immediato e divertente qualche nozione basilare di educazione civica. Resta, dall’altra parte, la dimensione minimal che non può che lasciare l’amaro in bocca, visto che lo spirito dell’utopia si riduce alla raccolta differenziata dei rifiuti. Peraltro, con un contenuto sostanziale così scarno, sarebbe bastato un mediometraggio. In effetti, il formato standard del lungometraggio, se non si hanno contenuti sostanziali da mediare, dopo un po’ rischia di divenire sostanzialmente noioso.

Soul di Pete Docter e Kemp Powers, animazione, avventura, Usa 2020, voto: 5,5; merce dell’industria culturale ben orchestrata e confezionata a pennello come strumento di egemonia della classe dominante. Capace di ottenere il consenso dei subalterni dandogli a intendere che, per godersi la vita, basterebbe semplicemente vivere, senza alcun obiettivo, grande o piccolo che sia. Dunque, non solo i subalterni dovrebbero rinunciare alle grandi ambizioni, ovvero trasformare in senso progressista il mondo, contribuendo alla lotta per l’emancipazione del genere umano, ma non avrebbe nemmeno senso inseguire le piccole ambizioni della realizzazione nel proprio ambito lavorativo, dal momento che tale ambito è così precari e l’occupazione così instabile che non varrebbe la pena puntarci più di tanto. Anche perché, se come spesso accade, il subalterno resta tale, potrebbe perdere il proprio consenso attivo verso la classe dirigente e dominante che, peraltro, sarebbe sempre lì pronta a offrire, se ci si lascia completamente egemonizzare, una seconda opportunità.

Wolfwalkers – Il popolo dei lupi di Tomm Moore e Ross Stewart, animazione, avventura, family, Irlanda, Lussemburgo, Francia e Usa 2020, voto: 5; film riuscito formalmente, ma sconcertante dal punto di vista del contenuto. È un ottimo esempio di come il tema ambientale possa essere utilizzato in senso reazionario. Nel film, in effetti, si tende a umanizzare persino i lupi, mentre gli esseri umani, gli irlandesi colonizzati dagli inglesi vengono rappresentati con tratti bestiali. Inoltre la sacrosanta lotta dei popoli coloniali e degli oppressi viene ridotta a nulla, anzi a qualcosa di sostanzialmente negativo, dinanzi alla lotta per la difesa della natura. Lotta per altro del tutto fittizia, in quanto l’unica soluzione individuata è il ritirarsi della stessa fauna in zone non ancora antropizzate.

Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria di Glen Keane, animazione, Usa, Cina 2020, voto: 4+; ancora un film di animazione sinostatunitense, che dimostra ancora una volta come non ci sia una significativa differenza ideologica tra le opere prodotte nella Repubblica popolare cinese e quelle dell’industria culturale a stelle e strisce. Al di là della prima parte piuttosto riuscita, il film si rivela ben presto una merce piuttosto mediocre dell’industria culturale ormai transnazionale.

Yes-People di Gísli Darri Halldórsson, cortometraggio di animazione, Islanda 2020, voto: 4; certamente deludente per essere stato candidato ai premi Oscar. Per quanto breve, il documentario non ha nulla di sostanziale da comunicare, se non la totale mancanza di connessione sentimentale degli intellettuali che lo hanno realizzato con le masse popolari del loro stesso paese. Sugli elementi più arretrati delle quali si fa una ironia a buon mercato, da un punto di vista marcatamente elitario.

Le streghe di Robert Zemeckis, avventura, commedia e family, Usa 2020, voto 4-; prodotto ben confezionato dell’industria culturale che rilancia la caccia alle streghe, sostenendo che vivono in mezzo a noi e potrebbero nascondersi anche nella vicina di casa. Per altro le streghe mirerebbero a eliminare i bambini. Produrre un film con un messaggio del genere proprio negli Stati Uniti d’America è quantomeno discutibile e appare sospettabile di rovescismo storico. Molto discutibile è, dunque, il massaggio che un film, peraltro decisamente per bambini, veicola. Invece di denunciare l’oppressione delle donne e delle persone di sinistra, si vuol far credere che le streghe esistano veramente.

Opera di Erick Oh, cortometraggio di animazione, Korea-Usa, 9 minuti, voto: 3,5; film assurdamente candidato Oscar come miglior cortometraggio di animazione, categoria davvero minore. Impostato come un videogioco vintage, Opera sembra naturalizzare la società gerarchica classista, in nome di un organicismo reazionario. Tanto che si arriva a sostenere come sia assolutamente controproducente qualsiasi forma di resistenza a tale sistema, in cui è completamente azzerata la libertà dei moderni, e gli uomini vivono come api o formiche. La morale reazionaria sembra essere di chiara impronta assolutista hobbesiana, per cui ogni tentativo di mettere in discussione questo sistema meccanicistico non potrebbe che ricondurre allo stato di natura, in cui vi sarebbe una costante guerra per la vita e per la morte.

Wanda Vision serie 1x9, voto 2,5; serie di supereroi comica; l’autoironia sembra, a ragione, l’unico strumento per far sopravvivere a loro stessi questi noiosissimi superuomini. Anche l’ambientazione vintage degli anni Cinquanta, di cui offrono la parodia, è certamente piacevole. D’altra parte, emerge tutta la natura conservatrice e a tratti reazionaria di questo genere di commedia, dove tutte le contraddizioni, a partire da quelle di classe, di razza e di genere tendono miracolosamente a sparire. Mostrando un’immagine del tutto inverosimile e fondamentalmente truffaldina degli Stati Uniti degli anni Cinquanta, in piena caccia alle streghe.

Nei successivi episodi la realtà si rivela ben peggiore delle apparenze dei primi episodi. Questa sitcom ultra conformista, banale e puramente culinaria – in cui non si manca di sottolineare l’asservimento degli impiegati al padrone, che ha su di loro un potere assolutistico anche per la precarietà dell’occupazione – si rivela non essere altro che il mondo “perfetto” in cui la protagonista, dotata di poteri magici illimitati, ha deciso di far rivivere il rapporto con il marito. La completa assenza di qualsiasi grande ambizione, l’assoluta mancanza di spirito dell’utopia e persino di un briciolo di principio speranza non può che produrre quel “mondo incantato” che la più tossica delle industrie culturali statunitensi – Disney-Marvel – appare in grado di ideare.

A rendere tali aberrazioni ancora capaci di egemonia concorre l’ottima capacità della multinazionale statunitense di creare mezzi di distrazione di massa particolarmente godibili per masse completamente alienate, reificate e private di un briciolo di coscienza sociale. Peraltro la società statunitense presentata in tutta la sua brutale banalità può avere una qualche efficacia solo mostrando l’unica reale alternativa, cioè una società che ha tentato l’assalto al cielo con la transizione al socialismo come un mondo spaventoso e assolutamente invivibile.

Tanto più che il “paradiso” conformista, al quale la coppia di supereroi fa di tutto per adattarsi, è in realtà per tutti gli altri che lo abitano un universo ultra totalitario. Anche se tale universo concentrazionario dovrebbe, comunque, essere giustificato dal fatto che Vanda l’avrebbe costruito per amore e per non essere in grado di rielaborare la morte del marito. Infine – ciliegina sulla torta – la serie finisce con il riabilitare persino la caccia alle streghe, mostrando come a Salem, dove vi fu l’ultimo tragico atto di tale barbara pratica, vi sarebbero state realmente streghe e anzi, queste ultime, sarebbero presenti anche al giorno d’oggi.

Wonder Woman 1984 di Patty Jenkins, azione, avventura e fantasy, Usa 2020, voto: 2; prodotto tossico della più potente e deleteria branca dell’industria culturale, volta al solito a presentare la trista putrescenza della società imperialista come il migliore dei mondi possibili. Al punto che la ricerca del piacere, della felicità, lo stesso desiderio e, tanto più, la speranza in un mondo migliore sarebbero i reali problemi della società contemporanea e costituirebbero anche i motivi dei crolli degli imperi precedenti. Bisogna quindi rinunciare a qualsiasi desiderio e continuare semplicemente a vivere per fare il proprio dovere di produttore. Così, il problema fondamentale della società capitalista, ovvero il fatto che impedisce a ogni uomo di essere felice, viene – in un’ottica rovescista – presentato come il suo aspetto migliore. Secondo il noto apologo liberista le cose andrebbero bene se ognuno fosse lasciato libero di seguire semplicemente i propri interessi e ogni tentativo di razionalizzare e migliorare le cose non potrebbe che avere un esito distopico. Non resterebbe, dunque, che affidarsi ai supereroi, alias ai superuomini, preposti alla salvaguardia dello stato di cose esistenti che, paradossalmente, non immaginano mai di utilizzare i propri super poteri per realizzare un mondo migliore, ma solo in difesa dell’esistente, per quanto irrazionale e ingiusto possa essere. Perciò anche loro devono dare il buon esempio, rinunciando in prima persona ai desideri e alla felicità, per poter dedicare compiutamente la propria vita alla salvaguardia dell’ordine costituito. Anche perché ogni alternativa non potrebbe che essere peggiorativa. Siamo, dunque, alla consueta apologia indiretta dell’irrazionale, ingiusto e inefficace “ordine” esistente.

24/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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