Cominciamento, illuminismo e sapere assoluto

Proseguiamo nella recensione analitica della decisiva monografia che Francesco Valentini ha dedicato alla filosofia di Hegel: Soluzioni hegeliane


Cominciamento, illuminismo e sapere assoluto Credits: http://www.filosoficamente.org/sputiamo-su-hegel/

Segue da “Il radicale storicismo della filosofia di Hegel

Nel quinto capitolo Valentini torna ancora ad occuparsi delle prime categorie della “Logica” hegeliana. Benché la tematica possa apparire ottocentesca, rinviando ai diversi tentativi di riformare la dialettica trasformando la categoria del “nulla” in quella del negativo o dell'Io, tuttavia anche in tempi recenti diversi interpreti hanno colto proprio in questi primi passaggi il vero e proprio punto dolente dell’edificio hegeliano. Al contrario per Valentini si tratta di mostrare la validità dell’esposizione hegeliana di queste prime categorie, deducendone inoltre la loro relativamente scarsa utilità per la comprensione della “Logica” hegeliana. Per Valentini, infatti, la “Logica” hegeliana vera e propria inizia con l’essere determinato, mentre l’analisi delle prime tre categorie non rappresenta altro che il necessario fare i conti con l’opinione nel cominciamento.

Nell’interpretazione di Valentini l’essere corrisponde al puro pensare senza distinzioni, quindi corrisponde al puro nulla, che a sua volta è un puro vuoto. Ognuno dunque è immediatamente passato nell’altro. Tale dileguare corrisponde al divenire, che precipita, dilegua nel Dasein. Non si tratta dunque di un passaggio dialettico, di una negazione della negazione. Valentini si sforza quindi di individuare nell’opera di Hegel delle strutture argomentative simili, che individua: nella celebre figura del trionfo bacchico, nell’opera che dilegua nell’effettualità oggettiva che, a sua volta, dilegua nella cosa stessa o, infine, nell’immediato togliersi del fondamento nell’esistenza, ovvero l’immediato che irrompe quando il fondamento giunge al proprio compimento. “Si tratta – osserva a tal proposito Valentini – pur sempre di passaggi immediati, diremmo automatici, non di contraddizioni che si risolvono” [1].

Il punto è che, in realtà, queste categorie tanto discusse non sono in realtà nemmeno dei pensieri, dato che sono ineffabili e come tali sono meramente opinati. Così la differenza tra essere e nulla è solo opinata in quanto è ineffabile. Lo stesso divenire è ineffabile dato che non è altro che l’espressione di questa relazione di inesprimibili. Così “l’Essere, e con esso l’iniziale monotriade, è un ente di ragione, un’astrazione statica, un nulla” (150). Vi sono così due movimenti di pensiero: da una parte la riflessione astratta che coglie tanto l’essere quanto il nulla come l’indeterminato, dall’altro un tentativo di autoriflessione che finisce però, per il costante essere sbalzato dall’essere al nulla, in un opinare. Ciò che è decisivo e che queste prime categorie non vanno affatto considerate come un modello per le categorie superiori, ma sono in realtà solo il prodotto della massima astrazione da questa concretezza.

Valentini cerca di chiarire meglio queste categorie facendo riferimento a quelle analoghe della Fenomenologia. Lì come qui queste categorie sono considerate dal punto di vista del “per noi”, del risultato, che precede logicamente, anche se segue storicamente. Il risultato dunque che le fonda logicamente non poteva essere conosciuto da chi storicamente ha intrapreso a pensare quelle primissime categorie. Il risultato della coscienza sensibile è, quindi, lo stesso che della monotriade della Logica: l’ineffabile, l’universale come indeterminato, come vuoto ente di ragione. “È un impaccio del pensare e del parlare quello che viene descritto” (153). Da questo impaccio si esce aggiungendo al piano linguistico l’indicare, solo per mezzo di questa uscita dal piano linguistico che rendeva impossibile l’opinione dell’esperienza sensibile, si perviene all’essere determinato della percezione. Il passaggio è, dunque, simile al precipitare nel risultato calmo del Dasein nella Scienza della logica.

L’autore conclude interrogandosi su quale sia il significato, cosa si celi dietro queste prime astrattissime categorie. Il riferimento è ancora alla Fenomenologia o meglio all’Antropologia che descrive l’esperienza eminentemente singolare che precede il costituirsi della coscienza nell’esperienza sensibile. “In questa prima vita spirituale, nessuna differenza è ancora posta, né dell’individualità di fronte all’universalità, né dell’anima rispetto all’essere naturale” (155). Si tratta di una sorta di ombra che precede la luce, caratterizzata da un’ottusa quasi-indifferenza tra me e le cose e da un’originaria simpatia tra anima singola e anima del mondo. Questa anima semplice corrisponde pienamente, per la sua assoluta indeterminatezza, all’essere e alla prima monotriade della Logica e come questa deve determinarsi. Dunque, ciò che precede il determinato resta necessariamente ineffabile, dato che pensare significa determinare. Ora è la riflessione astraente che riesce a isolare questo contenuto e ad attribuirgli le determinazioni di indeterminato, ente di ragione, puro nulla, mentre, dal punto di vista storico della riflessione pura, il tentativo di pensare questo ineffabile è necessariamente andato incontro ad un fallimento. Da qui la critica di Hegel a tutti quei filosofi come Plotino, Spinoza e Schelling che hanno vanamente tentato di riuscire là dove Parmenide aveva necessariamente fallito, critica che Valentini volentieri estende anche ai pensatori posthegeliani che dall’assoluto come risultato hanno preteso di tornare al puro essere, al vuoto originario.

A Hegel critico dell’illuminismo è dedicato il sesto capitolo del libro di Valentini. Hegel ha paragonato la vittoria dell’illuminismo sulla fede cristiana, alla vittoria di un popolo barbaro su di uno più evoluto. Lo spirito del cristianesimo finisce, infatti, per dominare la sua astratta negazione illuministica e ripresentarsi nelle filosofie della riflessione. Per Hegel, infatti, non è più l’illuminismo ad aver permesso all’uomo di uscire dallo stato di minorità, ma il sapere assoluto. L’opposizione tra fede e illuminismo è il risultato del processo che ha portato dalla coscienza effettuale alla coscienza pura, che ha in sé il momento dell’identità e quello della differenza, ma non è cosciente in quanto appartiene al mondo dello spirito estraniato e, dunque, li scinde in fede e intellezione. La Fede tuttavia è qui quella kantiana, la fede del pensare che si oppone all’intellezione del conoscere. Tuttavia, per Hegel, questo mondo della fede non è altro che una fuga dal mondo reale e, quindi, ne riproduce le strutture. “Per un verso noi non siamo di questo mondo, ma per un altro verso dio è di questo mondo: l’antropoteismo cristiano” (164). A questa fede si contrappone appunto l’intellezione, l’appercezione pura che è cosciente di essere ogni realtà. Nel suo operare effettivo, però, essa si mostrerà bensì essere la fatuità della riflessione che sfiora l’oggetto, ma non arriva a comprenderlo. Così ciò che distrugge non è la fede, ma la superstizione, ciò che in sé era già distrutto.

L’opposizione tra fede e intellezione ha, dunque, la sua radice nel fatto che entrambe non comprendono se stesse e, quindi, non comprendono l’altro. La fede, l’in sé, non è altro che il diritto divino, il Padre, a cui si contrappone il diritto umano, il Figlio, rappresentato dall’illuminismo, che appunto non fa altro che negare quell’universale, lo particolarizza. Così questa differenza si supera nel ricostituito Sé, nell’autocoscienza della filosofia critica, che ha le due figure precedenti come suoi distinti momenti: il pensare e il conoscere. Tuttavia a questo risultato si giunge solo dopo l’affermazione e lo sviluppo dell’illuminismo stesso, che si compie nell’utile, che trapassa a sua volta nella libertà assoluta della volontà generale. Quest’ultima ha, però, bisogno per realizzarsi di una volontà particolare, che però non può accettare che come un tradimento della sua universalità, da qui la furia del dileguare che cerca di eliminare il particolare che essa stessa ha posto. Questo movimento puramente negatore, il terrore, finisce per determinarsi: “nel senso che la negazione del particolare è anche la sua tesaurizzazione: la volontà particolare ‘muore’ nella volontà universale, ma ‘rinasce’ come volontà determinata, capace di universalità” (173). Siamo di nuovo al puro Sé della filosofia critica.

Il settimo capitolo è dedicato ad Arte, religione e sapere assoluto in Hegel. Valentini prova subito a definire il sapere assoluto come il senso del processo storico. Dunque anche il sapere assoluto di Hegel è storicizzato in quanto corrisponde all’interpretazione della storia fino alla sua epoca e dalla prospettiva della sua epoca. Attraverso questo sapere si prende coscienza del processo di liberazione dell’uomo. Questo sapere, avendo in sé la sua misura, può raggiungere formalmente la perfezione del conoscere. Da questo punto di vista Valentini si sente di poter rigettare tutte le obiezioni a questo concetto come noiose e sostanzialmente inutili alla comprensione di Hegel, anche perché lo interrogano da un punto di vista ad esso esteriore.

“Lo spirito assoluto – osserva a ragione Valentini – nasce come presa di coscienza di una realtà storica, la realtà del tempo di Hegel e in particolare quella dell’assetto seguìto alla rivoluzione francese e al Terrore” (179). In esso l’oggetto ha perso la sua presunta indipendenza dalla coscienza. Questo è possibile come sintesi tra le due contrapposte posizioni del sapere presuntamente oggettivo, che pone nell’oggetto la sua misura, e di quello soggettivo che pone la sua misura nell’interpretazione. Entrambe queste posizioni per Hegel designano momenti del sapere: il primo la sua identità con sé, la verità, il secondo il diritto assoluto dell’autocoscienza, la certezza. In realtà questi due momenti sono strutturalmente uniti, si richiamano l’un l’altro e insieme costituiscono l’Io nella sua effettualità. Da qui il carattere riflesso-riflettente del sapere hegeliano, che ne costituisce il carattere intersoggettivo ed ermeneutico.

Valentini passa, quindi, a esporre il processo fenomenologico che conduce allo spirito assoluto a partire dal capitolo della Fenomenologia dedicato alla religione. In tale capitolo più che di esperienza religiosa si dovrebbe parlare di storia teologica, o ancora meglio di progressiva comprensione filosofica, demitizzazione della sostanza da parte del concetto, processo attraverso cui l’uomo perviene a liberarsi dalla paura degli dèi. Tuttavia, all’inizio, la conoscenza filosofica è in grado di cogliere soltanto le determinazioni più astratte della sostanza, mentre sono le forme rappresentative dell’arte e della religione a permetterne una conoscenza più concreta. Da questo punto di vista una tappa fondamentale è costituita dal cristianesimo che strappa la sostanza dalla sua estraneità. Con il Cristo infatti muore la rappresentazione dell’essenza divina come distinta dall’uomo, con tale morte si ha la coscienza del negativo, della determinazione. Con la morte del Cristo e la sua resurrezione nella comunità dei fedeli, quest’ultima si eleva distaccandosi dal mondo sensibile.

Questa conciliazione avviene però unicamente nel terreno della rappresentazione, per essere assoluta deve dunque a sua volta conciliarsi con la conciliazione storica presentata nel capitolo precedente. La conciliazione dello Spirito avveniva al livello puramente logico-formale della filosofia della rappresentazione, che aveva fuori di sé il suo contenuto. Ad appropriarsi del contenuto è invece la coscienza religiosa, che si riconcilia con esso nel cristianesimo, ma in forma ancora rappresentativa. Così, dunque, il sapere assoluto si pone come risultato di un processo storico in cui parallelamente la filosofia dispiega l’elemento formale e la rappresentazione il contenuto del senso che ivi si dispiega e che la filosofia hegeliana per prima coglie unificando i due momenti. Il sapere assoluto non è dunque altro che il pensiero puro, filosofico che chiude il percorso della coscienza fenomenologica. Una chiusura che è però una radicale apertura, infatti dal punto di vista del puro pensiero è sempre possibile ripercorrere riflessivamente il cammino percorso, e reinterpetare diversamente il proprio oggetto, che come tale resta inesauribile. Dato che la verità della storia non è altro che la serie delle sue interpretazioni.


Note:

[1] Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini e associati, Napoli 2001, p. 149. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo, in parentesi tonda, il rinvio alla pagina di questo testo da cui la citazione è desunta.

21/03/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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