Elle ovvero della desublimazione repressiva

Film che rappresenta, in modo del tutto acritico, la spaventosa decadenza morale dell’alta borghesia nelle società a capitalismo avanzato, sino all’apologia indiretta dello stupro.


Elle ovvero della desublimazione repressiva Credits: Fotogramma del film

Elle di Paul Verhoeven, Francia 2016, valutazione: 4/10

Una società che considera il modello di rivoluzionario il papa, non può che considerare Herbert Marcuse come un cane morto. In realtà considerare Marcuse un ferro vecchio, significa considerare come un mero residuo di un passato destinato a non tornare il grande movimento di emancipazione della fine degli anni sessanta, che aveva trovato in Eros e civiltà (1955) uno dei suoi testi di riferimento. Considerare del tutto demodé Marcuse, è necessario a mantenere nell’oblio la modalità con cui la società a capitalismo avanzato è riuscita a riassorbire questo grandioso movimento di protesta, fino a strumentalizzarlo per i propri fini di consolidamento dell’ordine costituito.

Come è noto, ne L’uomo a una dimensione, Marcuse definisce – profeticamente essendo il libro uscito nel 1964 – desublimazione repressiva lo stravolgimento nella forma della rivoluzione passiva della grandiosa lotta per la risessualizzazione della persona umana e, in particolare della donna, condotta dai movimenti negli anni sessanta. Il surplus di rimozione, imposto dalla società classista, e in particolare dalla società borghese, tende a reprimere gli istinti e, in particolare, la ricerca del piacere, ben oltre quella rimozione di base, ossia quel certo grado di controllo degli istinti richiesto dalla vita sociale in quanto tale.

Il principio di prestazione, fondamento della società a capitalismo avanzato, impone di impiegare tutte le energie psicofisiche dell’individuo per scopi lavorativi volti ad aumentare la produttività e con essa lo sfruttamento mediante l’aumento del plusvalore relativo. Ciò ha portato, già con l’introduzione del fordismo, a reprimere, in particolare per la classe operaia, tutte le richieste umane di felicità e piacere, portando alla “diserotizzazione” del corpo umano e alla “tirannide genitale”, cioè alla riduzione dell’atto sessuale a puro fatto genitale e procreativo. Del resto la stessa alta borghesia, pur essendo libera di poter udire il canto delle sirene del principio del piacere, come avevano notato già Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (1947), non può cedere all’invito a realizzare il proprio impulso naturale alla felicità in quanto anch’essa è prigioniera del proprio alienante ruolo sociale di sfruttatrice.

Affinché il corpo umano torni alla sua funzione naturale di essere organo di piacere e non di fatica occorre una risessualizzazione della persona umana per cui appunto di sono battuti i grandi movimenti di emancipazione degli anni sessanta e, in particolare, il movimento delle donne volto a fare del corpo femminile non solo un oggetto del piacere maschile, ma un soggetto in grado di autodeterminarsi.

Tali movimenti non sono però stati in grado di rovesciare la logica di fondo della società capitalista e, quindi, non hanno potuto sfruttare il fatto che lo stesso principio di prestazione, su cui si basa una società tutta rivolta al profitto privato, ha creato le precondizioni storiche per la sua stessa abolizione, mediante lo sviluppo tecnologico che ha posto le premesse per una diminuzione della quantità di energia da dedicare al lavoro a vantaggio dell’eros.

Così la classe dominante è riuscita a riorganizzarsi facendo un passo indietro per farne due in avanti. In tal modo, come ha fatto delle grandi lotte delle masse per la democrazia, uno strumento per nascondere dietro un apparente pluralismo la natura strutturalmente oligarchica del dominio borghese, così dinanzi alle lotte per la risessualizzazione ha concesso una tolleranza apparente, che ne cela l’aspetto repressivo. Il suo permissivismo, in effetti, funziona solo per ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Anche la liberazione sessuale ha così assunto una natura ingannevole ossia in apparenza non ci sono più i tabù precedenti, ma in realtà si ha solo una semplice liberalizzazione “amministrata” e commercialmente redditizia della sessualità.

Tutto ciò è tanto magistralmente quanto involontariamente mostrato nel film Elle. Al centro del quale abbiamo il modello di donna emancipata, una manager ricca e colta, capace, affascinante, determinata al punto da essere cinica e spietata. Tale personaggio è brillantemente interpretato da Isabelle Huppert, in quanto le attrici statunitensi, spaventate dal clima di caccia alle streghe scatenatosi in America dopo l’elezione di Trump hanno rifiutato la parte. Al contrario la Huppert, come del resto il suo regista, si sono totalmente impersonati nell’uomo a una dimensione, ossia nell’individuo alienato della società a capitalismo avanzato, colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà, o meglio con l’esistente, sicché per lui non ci sono altri possibili modi di vivere.

La liberalizzazione amministrata e resa commercialmente redditizia dall’industria culturale della sessualità femminile raggiunge qui il proprio culmine tanto da precipitare, del tutto inconsapevolmente per l’autore e la stessa critica, nel suo opposto: ovvero in un’apologia indiretta dello stupro, quale forma massima della riduzione della donna a oggetto del piacere dell’uomo.

Così, sin dalla scena iniziale, questo atto di una brutalità e gravità sempre sottovalutato nella società borghese, viene rappresentato come una sorta di attraente gioco sado-maso, che la protagonista è così emancipata da cercare più volte di riviverlo. Del resto l’altra dimostrazione di tale conseguita emancipazione è la relazione a scopo meramente sessuale con il marito della propria migliore amica. La quale è talmente emancipata che a sua volta, di fronte alla cinica confessione dell’amica, decide di mollare il marito, per stabilire una relazione con la sua amica e padrona. Il cui assoluto cinismo diviene un fattore di fascino irresistibile verso i subalterni, come la violenza dello stupratore esercita una inarrestabile capacità di attrazione sulla vittima.

In tal modo la logica del dominio, della sopraffazione, della violenza della società capitalista, il suo spaventoso cinismo, la sua assoluta spietatezza divengono non solo un qualcosa di naturale, ma qualcosa di cool, un connotato di superiore emancipazione che porta al di là del volgare uomo-massa nella dimensione superomistica al di là del bene e del male.

01/04/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Fotogramma del film

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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