Una notte con Thomas Bernhard

Thomas Bernhard, in un’intervista rilasciata a Peter Hamm, dà sfoggio di cinismo.


Una notte con Thomas Bernhard

Thomas Bernhard, un autore di teatro tra i più corrosivi del ’900, un uomo che dell’irrisione cinica ha fatto il segno distintivo della sua opera, lo ritroviamo in un testo appena uscito per una piccola casa editrice di Pesaro, Portatori d’acqua, nel quale viene pubblicata una sua intervista che ha aspettato più di quarant’anni per essere tradotta e stampata in italiano. Venne registrata infatti nel 1977, durante una notte annaffiata da libagioni, tra Bernhard e un suo estimatore, allora giovane estimatore, Peter Hamm, un importante intellettuale tedesco, da poco scomparso.

Basterebbe leggere un altro libro, sempre di Bernhard, I miei premi (Adelphi, 2009), per venire a contatto con un uomo che della vita si diceva esausto. E nei discorsi per il ritiro dei suoi numerosi premi per la sua opera gli importa soprattutto l’ammontare degli stessi per potersi magari acquistare un’automobile, con la quale sfrecciare sulle strade austriache. Cosa che accade proprio nell’occasione di questa intervista, prima della sua registrazione, sulla strada verso il ristorante, dove avrebbero cenato. Hamm ricorda un viaggio a forte velocità in automobile. Occorre però anche dire che a Bernhard tale trastullo piacesse entro il recinto dell’inutilità. Un modo come un altro per passare il tempo, anche per marcare il tempo di vita.

Nell’intervista veniamo candidamente a sapere che, nonostante il suo scrivere raffinato, per i romanzi, i racconti e per le opere direttamente teatrali, non sopporti i libri, che lo “opprimono” (p. 19). E il paragone viene fatto con “uno che lavora in latteria: di certo non vorrà avere del burro anche a casa. Se tenesse a casa cento o mille panetti di burro finirebbe per impazzire”. I libri come il burro, le analogie e le corrispondenze sono naturalmente tutte libere.

Poco oltre (p. 31) ci dice che “il tè viene prima della penna, no?”. Questo è il riferimento per sapere se si è in forza oppure no, dopo una lunga malattia, se si è fuori pericolo, come a lui era accaduto, dopo una giovanile malattia ai polmoni. Se tenere in mano una tazza di tè rappresenta il ritorno alla normalità, al posto del potere tenere in mano una penna, si capisce anche la causticità dell’autore verso il proprio lavoro, verso se stesso.

Altro punto: l’iniziazione alla vita, alla prosa della vita. Dopo avere scritto alcune poesie, modalità di scrittura poi non più ripresa, il via alla produzione in prosa è stato dato con il rimettere in ordine una cantina, un’immersione nella realtà delle cose. Un lavoro faticoso e poco pagato. Ecco la vera prosa. Si sottintende un senso della vita come reale continuazione di atti fisici. Altro pare non esserci. E spesso ci dice che, per lui, nulla cambia mai realmente nel profondo dell’esistenza. L’immutabilità delle cose (p. 46), un tema centrale nella sua poetica teatrale e letteraria.

In mezzo a rivelazioni esistenziali che dovrebbero incuriosire e sorprendere, vi sono anche alcune inesattezze o falsità biografiche. Ma il tutto rimane all’interno del contesto nel quale nulla si muove mai realmente o veramente (viene in mente Falso movimento di Wim Wenders). È chiaro che questa approssimazione casuale porta anche al rifiuto del potere in quanto tale e delle sue potenzialità di oppressione. Basta un giorno di repressione e una vita si spezza, si incaglia. La vita come incaglio si riesce a distendere solo nel passaggio verso la morte. “L’uomo finché vive è costantemente contratto, e soltanto quando muore si distende. Vive davvero, per la prima volta, soltanto quando è morto, nell’istante in cui non si è ancora irrigidito. È quello l’uomo” (p. 63). Pare una visione necrofila, ma così non è. Questa ricerca del momento di distensione si ha proprio per trovare un rifugio alla disumanità del vivere. Ma è necessario avere un controllo totale (p. 64) su ciò di cui si scrive per poterlo fare, ed evidentemente la morte sfugge a questo controllo, dato che Bernhard non prende in considerazione la pratica del suicidio.

Non si può stare dentro un percorso, senza saperne nulla o poco. La conoscenza del contesto rende possibile una descrizione dello stesso. E nelle modalità di scrittura di Bernhard le ripetizioni sono sovente il segnale del suo incidere nella realtà delle cose e dei rapporti tra persone. Ripetizioni di incisi, di brevi frasi, di concetti. Tutto messo in ordine casuale, almeno così pare e così lui vorrebbe fosse, ma che danno un quadro completo di una situazione alienata. “… per me non sono propriamente dei dialoghi. Il mio teatro non ha nulla a che fare con il botta e risposta. Ognuno parla da solo e dice cose casuali” (p. 73). Questo modo non armonico, a prima battuta, scoordinato, di descrivere situazioni e trame lascia interdetto, ma la vita si trova in tali situazioni spesso: il senso dell’esistenza in vita ci sfugge continuamente. E Bernhard ce lo dice e ridice in continuazione. Difficile da capire e da digerire, specialmente per i critici letterari, tanto che Bernhard arriva a pensare di “scrivere lui da solo le recensioni ai suoi lavori, tanto i critici poco capiscono” (p. 82). 

Del resto per un teatro che ci porta a scoprire sempre cose uguali a se stesse, difficile scrivere recensioni. Se tutto nella sua opera resta uguale cosa interessa la grande bravura di Bernhard, ammesso che lui potesse accettare di essere così qualificato (io credo proprio di no)? Ma insomma la sua definitiva capacità (questo forse potrebbe andare bene) consiste proprio nel farci capire quanta superficialità e inutilità nelle nostre vite che si arrabattano attorno a qualcosa, qualsiasi cosa.

Un punto che ritorna anche nelle ultime righe della conversazione nella quale Bernhard chiude rispondendo all’ultima domanda sul perché allora egli abbia dedicato tempo per l’intervista, stando la nullità di ogni cosa: “Perché ha dedicato del tempo a me, allora?”. La risposta è stata: “… tutto ciò che le ho detto mi è completamente indifferente. Non ne ho il controllo. Non ha alcun senso. Di più non saprei dire” (94).

Naturalmente nelle parole di quella notte vi è anche molto altro, ma il senso profondo è ben riassunto dalla chiusura. Non potrebbe essere altrimenti. Se così non fosse sarebbe collidente rispetto alle modalità di lavoro e di vita di Bernhard. A cosa ci serve tanto cinismo, nell’intendimento del cinismo antico: Antistene, Diogene?

Serve a molto, se si vuole smettere di pensare alla vita come a una somma di atteggiamenti deterministici. Se si vuole smettere di credere di poter costruire il proprio futuro, che notoriamente non esiste, trattandosi di temporalità non esistente. Almeno smetterla di pensare in termini deterministici, dato che non si vive soli su questa terra. Casualità, ripetitività, voglia di irrisione del prossimo e di se stessi. Il tutto in un contesto nel quale, nonostante e proprio per tutto quanto Bernhard ci ha detto, non ci si può mai neppure arrestare di fronte alla vacuità del tempo ed alla sua insensatezza: “… ma dato che sono sempre stato curioso come un bambino, mi convinco che se valico una montagna alle sue spalle troverò qualcosa di nuovo e interessante, e così vado sempre avanti, verso la montagna successiva, o la prossima collina. Tutto per mera curiosità. In fondo è la curiosità, credo, a tenermi in vita” (p. 84). 

(Thomas Bernhard, Peter Hamm, Una conversazione notturna, Portatori d’acqua, Pesaro, 2020)

08/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Tiziano Tussi

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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