Gli ultimi saranno ultimi

Qualche buona intuizione attorno al tema del lavoro e della maternità ma il cinema italiano è ancora permeato di un senso di ineluttabilità del reale di cui fa fatica a disfarsi.


Gli ultimi saranno ultimi Credits: movietele.it

Se un personaggio dal futuro avesse avvertito i nostri avi che alle soglie del secondo decennio del XXI secolo, nel terzo millennio della Storia dell’Uomo, esso avrebbe investito una parte delle proprie energie creative per riflettere sul tema della conciliazione tra maternità delle donne ed esigenze sociali, essi, probabilmente, non avrebbero minimamente pensato che, una volta giunti a questo punto di sviluppo, quel rapporto sarebbe stato ancora così problematico. Ma, a discapito del progresso sociale in cui potenzialmente la Storia umana avrebbe già potuto trovarsi da tempo, attualmente il sistema sociale in cui viviamo e che fa bella mostra di tutte le sue crepe si sviluppa attraverso logiche necessariamente sbagliate se, ancora oggi, il fatto di rimanere incinta per una donna che lavora può provocare gravi problematiche, tolte quelle che abbiano a che vedere con la sua legittima volontà o meno di portare a termine una gravidanza.

Questo il tema affrontato dalla pellicola del 2015 di Massimiliano Bruno e interpretata da Paola Cortellesi e da Alessandro Gassmann. Ambientato nella verdeggiante provincia romana, lontana dall’alienazione della grande città e permeata da rapporti umani più diretti, semplici, forse sin troppo stereotipati, poco stimolanti e, tuttavia, proprio per questo rassicuranti, il film si incentra sulla vita della coppia Luciana (Cortellesi) e Stefano (Gassmann): lui, spiantato, un po’ distratto ma di buon cuore, fatica a contribuire fattivamente alle esigenze economiche domestiche per via del proprio accanito rifiuto a lavorare “sotto padrone”; lei, operaia in una fabbrica che produce parrucche, accetta tutto sommato di buon grado la propria occupazione umile e precaria (e tuttavia sufficientemente stabile), coltivando il sogno di diventare madre. Quando, finalmente, il test di gravidanza consegna alla coppia la notizia sperata, le cose si complicano: Stefano insegue sempre più inutilmente l’illusione di accumulare denaro facile attraverso la conclusione di improbabili affari di straforo, senza avere alcun “santo in paradiso” né alcun capitale investito, e Luciana viene licenziata non appena la direzione dell’azienda scopre la sua gravidanza, grazie a una “soffiata” di una collega neo-assunta (per altro grazie all’intermediazione di Luciana stessa) che non ha resistito a cogliere l’occasione della maternità dell’amica per assicurarsi il rinnovo del proprio rapporto di lavoro, in pieno stile “guerra fra poveri”.

Inizialmente i due tentano di affrontare la situazione in modo razionale, facendo economia, cercando occupazioni alternative nonostante l’incedere della gravidanza e basandosi sul passaparola tra amiche e abbozzate raccomandazioni. Emblematicamente non rinunciano anche a piccole, umili, carinerie vicendevoli come l’accendino kitsch della squadra preferita con il nome del marito inciso consegnato da Luciana come regalo di compleanno al marito, seppure in tempi di magra, nel contesto di un pranzo alla buona con gli amici di sempre.

Ma la tenerezza e la caparbietà della fase iniziale si dileguano con l’aumentare dei conti da pagare e delle scadenze, l’incertezza di un futuro senza un’entrata fissa, per quanto esigua, e l’immaturità del tentativo di evadere la dura realtà dei rapporti di classe attraverso espedienti impercorribili e inaffidabili per coloro che appartengono alla categoria dei subalterni e che rifiutano di giungere ad affiliarsi alle mafie locali per guadagnarsi il pane quotidiano.

Una serie di vicissitudini secondarie si intrecciano alla trama principale, nel goffo tentativo di affrontare differenti problematiche sociali tutte in una volta: dal rapporto conflittuale del poliziotto Antonio Zanzotto coi colleghi (che lo reputano un infame per errori commessi in passato) e con Manuela, un transessuale di cui si innamora marginalizzata dalla asfissiante società paesana, ai problemi di cuori immancabili nella commedia all’italiana che, come un imprescindibile corollario, mostrano come nella difficoltà economica debbano necessariamente assommarsi una serie di incomprensioni, litigi, tradimenti ad imbrutire ancora di più i misero destino degli sventurati personaggi.

Ma lungi dal dare tridimensionalità alla critica sociale portata avanti nella piccola, tutto questo pot-pourri poco digeribile e stravisto finisce per appesantire inutilmente il plot e risultare artefatto.

In generale si tratta di un film che può essere definito in qualche misura innocuo in quanto appare più coraggioso di quanto poi sia realmente nella sostanza: esemplificative risultano certe frasi pronunciate dalla protagonista nel pieno della sua comprensibilissima esasperazione da mancanza di lavoro che la porta (non è uno spoiler, è chiaro sin dalla prima scena del film) a puntare la pistola contro il proprio ex datore di lavoro. Appare ossimorico, infatti, e poco coraggioso appunto, che una donna, giunta all’apice della sopportazione come nel caso di Luciana, rischi la propria vita, quella del feto e quella di terze persone per tornare semplicemente ad “accontentarsi” come prima: “Era una vita di merda, però era quello che c'era capitato e ci piaceva così…”.

Tale deprimente aspetto è rintracciabile sin dal titolo, confezionato appositamente con toni e termini biblici per evocare, al solito, una certa qual rassegnazione ed ineluttabilità alla quale siamo, ormai, purtroppo più che abituati e che sembra rappresentare il leitmotiv di una realtà che appare immodificabile e senza scampo, tolte al massimo un paio di migliorie in più, qualche illusione e un accenno di ribellismo che sanno, però, più di zucchero per mandare giù la pillola, come direbbe Mary Poppins, che di altro.

D’altra parte - per spezzare una lancia a favore del film, giacché comunque quel che passa il convento può essere anche di gran lunga peggiore - positiva appare la centralità data alla tematica del lavoro nella pellicola, di cui si centra con una certa insistenza il ruolo fondamentale e nobilitante: in un’epoca in cui la retorica delle lasse politiche dominante è tutta incentrata sul reddito, con un progressivo scollamento dal ben più fondamentale tema del lavoro appunto, ciò appare tanto più apprezzabile.

03/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: movietele.it

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L'Autore

Leila Cienfuegos

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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