Il prezzo di una sconfitta storica

Il prezzo di Arthur Miller, andato in scena al Teatro Argentina, è uno dei pochi spettacoli di un certo valore di una stagione che si annuncia quanto mai povera in tutti i sensi.


Il prezzo di una sconfitta storica

Il prezzo di Arthur Miller, andato in scena al Teatro Argentina, è uno dei pochi spettacoli di un certo valore di una stagione che si annuncia quanto mai povera in tutti i sensi. I colpi della crisi, che si abbattono sull’ottimismo positivista proprio della borghesia, sono tematizzati in questa interessante pièce messa in scena con grande mestiere da una solida compagnia capitanata da Orsini. Si avverte però la mancanza, in questa amara riflessione sulla crisi, di un’alternativa progressiva rispetto al lento spegnersi della civiltà capitalista.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Il prezzo mette in scena l’andare in pezzi dell’eticità puritana nel momento in cui emerge il suo fondamento filisteo: il materialissimo benessere economico. Con la crisi del 1929 e i fallimenti della piccola e media borghesia, il dramma di Miller denuncia come il tanto celebrato amore puritano per la famiglia si regga essenzialmente sull’interesse economico. Anche se non è detto esplicitamente, dal momento che negli Usa resta un tabù, la pièce lascia intendere tutta l’ipocrisia del calvinismo, per cui si ringrazia Dio dei propri privilegi economici conquistati con un spirito tutto terreno, lo spirito animale del capitalismo, ossia l’esatto opposto della sfera trascendente da cui tutto dovrebbe provvidenzialmente discendere. Tale sfera, in realtà, diviene solo una sanzione post factum dei rapporti sociali stabiliti sulla base dell’homo homini lupo, che domina nella prosaica società civile. Da ciò si pretenderebbe preservare come sfera etica la famiglia, che diviene il luogo in cui il puritano gode i frutti della propria elezione, ossia del proprio spirito animale lasciato libero di operare nella società civile.

Questo ipocrita equilibrio salta completamente nel momento in cui si innesca la crisi economica, dal momento che, con la fine del benessere, viene fuori che era quest’ultimo il meschino fondamento dello stesso amore che legava i genitori. Anche il pater familias perde la fiducia precedente di avere la grazia di dio dalla propria parte. Emerge infatti con chiarezza, dal dramma di Miller, che tale etica è funzionale a chi riesce ad affermarsi nella società civile, mentre diviene disruttiva per chi fallisce. Se il successo significa l’elezione da parte di dio, il fallimento, al contrario, testimonia l’abbandono divino. Così il laborioso padre cade in depressione e finisce per vivere alle spalle del figlio primogenito.

Quest’ultimo, il protagonista del dramma, destinato dalla sua condizione sociale e dalle sue capacità a una brillante carriera, costruita sul grande impegno negli studi, viene travolto dagli eventi. Da una parte perde la fiducia nel sogno americano, fondato sulla concezione calvinista della grazia, dall’altra si ostina a cercar di difendere l’ambito etico della famiglia, dal momento che si rende pienamente conto che, al di fuori di quest’ambito ipocritamente isolato, vi è la legge della giungla della società civile, nella quale non c’è nessuna pietà per chi non riesce a farsi largo. Il mancato successo è simbolo di dannazione e il darwinismo sociale implica il lasciare alla loro triste sorte gli individui più deboli per consentire l’evoluzione della specie. Dunque, il primogenito, protagonista del dramma, abbandona l’università e le sue ambizioni sociali ed entra in polizia per sostenere la ormai fragilissima eticità familiare.

Ciò offre l’opportunità al secondogenito – fino ad allora vissuto all’ombra del fratello, il cui successo negli studi lo portava a stentare – a emergere e a realizzarsi nella società civile mediante l’impegno negli studi. È dunque il secondogenito a realizzare il sogno americano del self-made man, idealizzato dalla concezione calvinista della grazia; così, quando il fratello gli verrà a chiedere un aiuto economico, per poter riprendere gli studi, il secondogenito, nonostante sia già affermato, glielo nega invitandolo a rivolgersi al padre. Quest’ultimo, infatti, era vissuto sulle spalle del figlio, mantenendo però intatto un piccolo capitale in banca.

In tal modo, il protagonista è portato a fare i conti con l’ipocrita condotta del padre, che aveva cercato in ogni modo di non vedere. Tale rivelazione è, perciò, devastante per il primogenito, che ha cercato di dare un senso alla sua anonima esistenza recitando la parte del capro espiatorio, che si è stoicamente immolato per riscattare e preservare la presunta eticità della famiglia. Ormai però è troppo tardi per tornare indietro e il protagonista non può che continuare a interpretare la sua parte di agnello sacrificale, l’unica che conosce, nonostante la moglie lo pungoli continuamente, mettendogli davanti la colpa del proprio fallimento reso evidente dal successo del fratello. Di fronte all’autistico rinchiudersi nel proprio ruolo da parte del marito, la moglie sfoga la propria frustrazione nel risentimento verso il cognato e nell’alcol.

L’autismo del protagonista lo porta a non voler fare i conti con l’eredità paterna e di conseguenza con il fratello, che incarna con il suo successo il suo fallimento, fino a quando il palazzo in cui si trovava l’appartamento del padre, morto da anni, deve essere abbattuto per far posto a nuovi quartieri, prodotti dalla speculazione edilizia. A questo punto il primogenito si trova a fare i conti con il triste spirito conservatore del padre, che ha trasformato la propensione al risparmio, utile alla fase precedente di accumulazione capitalista, in pura tirchieria. Per cui la casa è letteralmente piena di oggetti, anche di scarsissimo valore, di cui ora bisogna quanto prima disfarsi.

In queste condizioni la vendita a un prezzo favorevole risulta un’impresa impossibile, tanto più che il protagonista, che è anche il regista dello spettacolo, deve fare i conti con il suo aver rinnegato lo spirito animale necessario per imporsi nella giungla della società civile capitalista. Perciò nella tenzone con il vecchio commerciante ebreo, interpretato da un abilissimo Orsini, è destinato a una sicura sconfitta. La moglie, consapevole della imminente rotta, ne scarica tutta la responsabilità sul marito e cerca nuovamente rifugio nell’alcol.

Si apre così la lunga complessa e divertente trattativa messa in scena, in cui i modi puritani si rivelano un debole paravento dietro cui si celano gli spiriti animali che risolvono lo scontro nella società civile secondo la legge del più forte. Quando ormai lo scontro si è risolto, come è naturale, a favore dell’anziano ebreo – richiamato dalla pensione per portare a termine quest’ultima impresa, consentendo al contempo al protagonista di mantenere in vita l’artificiale eticità che gli ha consentito di non fare i conti con la frustrazione per il proprio fallimento – compare, vero e proprio deus ex machina, il fratello.

Quest’ultimo ha ormai portato felicemente a compimento la dura e spietata fase dell’accumulazione originaria e intende ora recuperare la rispettabilità grande borghese. Quindi, al contrario delle fobie micro borghesi della cognata, non ha nessuna intenzione di prender parte alla spartizione della misera eredità del padre, tanto più che sta per essere svenduta dal fratello per un piatto di lenticchie. Tuttavia, conciliando il suo spirito animale da imprenditore e la necessità di riconquistarsi una rispettabilità etica fondata sull’ipocrisia, trova subito un espediente per risarcire in parte il fratello primogenito e al contempo guadagnarci. Il commerciante ebreo sovrastimerà, in quanto perito, il valore degli immobili, che il ricco borghese devolverà in beneficenza all’esercito della salvezza, ottenendo così una notevole esenzione fiscale che permetterà a entrambi di arricchirsi.

Non accettando neanche questo compromesso, i due fratelli non possono che arrivare alla resa dei conti. Anche in questo caso, molto più duro e, perciò, più interessante del precedente confronto-scontro con il mercante ebreo, l’esito è deciso in partenza. Il crudo realismo machiavellico del secondogenito non può che avere successo nel far emergere l’ipocrisia e gli interessi economici su cui si fonda l’eticità familiare calvinista statunitense a cui il primogenito ha provato disperatamente ad aggrapparsi.

Questa è anche la fase decisamente più interessante e vivace di uno spettacolo che ci mette un po’ troppo a decollare e che, nella prima e più fiacca parte, si regge quasi esclusivamente sul grande mestiere dei due protagonisti: Massimo Popolizio, regista dello spettacolo, e Orsini. Anche perché tutto il resto, a partire dai costumi, la scenografia e la musica è ridotto al minimo dallo spirito puritano che anima lo stesso Arthur Miller, che costruisce tutto attraverso l’abilissima tecnica del flashback solo narrato dagli attori, dando così molto da pensare e riflettere alla parte del pubblico che è riuscita a resistere alla prima fiacca parte dello spettacolo, un atto unico di quasi novanta minuti senza pause.

Non poteva mancare in conclusione il classico colpo di scena volto a far prevalere, sullo spirito tragico, l’ottimismo conservatore proprio dello stile comico statunitense. Alla fine è proprio la moglie infatti, fino a quel momento la più animata dagli spiriti animali della società civile, a schierarsi dalla parte della debole eticità del marito, anche perché ormai si è entrati nell’autunno della vita e non c’è più spazio e tempo per seguire la strada più aggressiva del sogno americano, ossia dell’affermazione nella società civile, percorsa dal fratello. L’ordine iniziale è così ristabilito, anche se la misera eticità familiare che resta alla coppia – la quale avendo ormai portato a termine felicemente l’educazione dei figli è destinata a estinguersi – è ora accettata dignitosamente e fondata sul reciproco riconoscimento e, quindi, sulla solidarietà fra marito e moglie, assente all’inizio del dramma.

La conclusione, come del resto il dramma, è dignitosa, ma lascia con un po’ di amaro in bocca, perché non apre una reale prospettiva; la catarsi messa in scena è conservatrice e non lascia poi troppo da pensare al pubblico, consegnandoli un oppiaceo lieto fine hollywoodiano. Tanto più che la commedia è stata composta in pieno 1968, ossia in un’epoca in cui anche negli Stati Uniti la parte migliore della società aveva colto l’importanza della sfera etica della politica, che consente di superare le contraddizioni insanabili delle sfere etiche inferiori della famiglia e della società civile.

D’altra parte, mentre in Europa con il sessantotto si era nel momento dell’esplosione dell’interesse per la storia e la politica, negli Stati Uniti si era già nella fase del riflusso, anche perché era già iniziata la crisi di sovrapproduzione che aveva chiuso gli spazi riformisti riproponendo la drastica scelta fra socialismo o barbarie. Vista le debolezza dell’opzione socialista negli Stati Uniti, l’opzione destinata a prevalere, con il senno di poi, era scontata. Da questo punto di vista è indicativo anche il percorso del drammaturgo Arthur Miller che, all’epoca della composizione della pièce, ha già superato il momento della sua fioritura ed è entrato nella fase di un dignitoso tramonto. Portata a termine quest’opera, prevale nell’autore la soluzione epicurea e scettica dell’atarassia e dell’afasia, così Miller per oltre un decennio sembra aver esaurito la propria vena narrativa. Quello che aveva da dire e da dare lo aveva già detto e fatto e, piuttosto che ripetersi stancamente, preferisce uscire di scena, salvo un tardo ritorno negli ultimissimi anni della propria esistenza, nel momento in cui lo poteva fare senza dover mettere in scena la propria decadenza, che è poi la decadenza di una generazione di intellettuali democratici che aveva, un po’ ingenuamente, creduto nel New deal rooseveltiano. Si tratta di una generazione duramente colpita dalla guerra fredda e dalla caccia alle streghe, che è stata definitivamente piegata dalla restaurazione liberista, nella fase della crisi che si apre negli Usa già alla fine degli anni sessanta.

13/11/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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