In scena alle Terme di Caracalla la logica del neoliberismo

L’attuale modo di produzione è talmente in crisi da considerare le proprie stesse sovrastrutture culturali dei faux frais della produzione, delle spese improduttive da ridurre al minimo. Così il paese scivola sempre più nella barbarie, come dimostra esemplarmente il livello sempre più mediocre delle stesse messe in scena al Teatro dell’Opera di Roma


In scena alle Terme di Caracalla la logica del neoliberismo

L’attuale modo di produzione è talmente in crisi da considerare le proprie stesse sovrastrutture culturali dei faux frais della produzione, delle spese improduttive da ridurre al minimo. Con un’opposizione che mira solo al governo nella logica dell’alternanza nella continuità, la classe dominante ha bisogno sempre meno di investire in egemonia. Così il paese scivola sempre più nella barbarie, come dimostra esemplarmente il livello sempre più mediocre delle stesse messe in scena al Teatro dell’Opera di Roma.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Voto: 4+ (Madame Butterfly 7+, Bohème 3, Turandot 3)

La stagione estiva del Teatro dell’Opera alla Terme di Caracalla, incentrata soprattutto sulle tre opere di Puccini Madame Butterfly, Bohème, Turandot, ha registrato un grande successo in termini di pubblico. Eppure, a parte Madame Butterfly, le altre opere sono state messe in scena in modo decisamente mediocre. A dimostrazione che a Roma in estate il panorama culturale offre davvero poco e che persino l’ultimo residuo dell’eredità delle giunte progressive romane, l’estate romana, è oggi un ricordo del passato.

Certo il Teatro dell’opera di Roma non ha una grande tradizione e negli ultimi decenni è stato indubbiamente un’istituzione culturale non all’altezza di una grande capitale europea. Inoltre i tagli pesantissimi del governo Berlusconi hanno inflitto un colpo durissimo alla lirica italiana, uno dei settori in cui il nostro paese fino a qualche anno fa primeggiava a livello internazionale. Tali tagli non solo non sono stati eliminati dai successivi governi, ma l’attuale amministrazione comunale ha cercato addirittura di dare il colpo decisivo al Teatro dell’Opera romano tentando di dare il ben servito a tutto il personale stabile.

L’eccezione: Madame Butterfly

Madame Butterfly è uno spettacolo vero, ben fatto: finalmente siamo dinanzi a una produzione originale realizzata dal Teatro dell’Opera in collaborazione con l’opera di Sidney. Un’offerta all’altezza stimola una partecipazione adeguata, non fatta dei soli turisti, e i posti sono quasi esauriti. Si vede subito che non si è puntato solamente al risparmio procedendo, come ultimamente avviene, con la sciatta e meccanica operazione del copiare e incollare uno spettacolo del passato.

La scenografia e le luci dell’opera dialogano bene con il contesto mozzafiato offerto dalle Terme di Caracalla. Nel primo atto, il palcoscenico non ruba spazio alla suggestione delle rovine al tramonto: forte è il contrasto fra il verde del prato e dei bambù e il sole che si spegna sulle rovine. Molto belli ed essenziali sono i colori della scena e dei costumi.

Fra il primo e il secondo atto la scena cambia completamente, al panorama verde e gioviale del matrimonio, segue il panorama misero di una baracca in cui è costretta a vivere Butterfly dopo l’abbandono del marito. Questa vita da ragazza madre giovanissima è resa con estremo realismo e maestria dal regista Àlex Ollé e dalla magnifica interprete, sia come attrice che come cantante, Asmik Grigorian.

In questa seconda parte magnifiche sono le proiezioni delle luci sulle rovine. Se nella prima scena rappresentavano solo la luna nella prima e unica notte d’amore, nella seconda parte indicano i cantieri intorno alla baracca. Pinkerton, nella moderna messa in scena, diviene un imprenditore senza scrupoli che edifica l’intera zona. Così vediamo crescere, tutt’intorno alla baracca in cui vive la Butterfly abbandonata, grandi edifici moderni, che assumono fattezze diverse rispecchiando la psicologia della protagonista, vera e propria mattatrice. Quest’ultima è rappresentata realisticamente come una popolana ragazza madre, forse un’immigrata, magari con problemi di droga. Suggestiva nell’intermezzo musicale la marcia degli immigrati, che tenta di attualizzare il dramma messo in scena.

Tutto ciò dimostra che con un investimento contenuto nei limiti del buon senso è possibile realizzare una bella messinscena. A dimostrazione che la pessima qualità di diverse opere rappresentate dal Teatro di Roma dipendono essenzialmente dall’ideologia liberale che riduce la sfera pubblica alla funzione di guardiano notturno delle ricchezze dei pochi privati, che dominano sulle masse popolari.

L’opera di Puccini è ambientata nella seconda metà del diciannovesimo secolo a Nagasaki, l’unico porto giapponese aperto agli scambi commerciali con gli occidentali. In questo periodo l’occidente forza il blocco commerciale imponendo al Giappone di sottostare al “libero” commercio. I disastri che provoca sul tessuto socio-economico locale, favoriscono la pronta reazione del paese al dominio occidentale, che porterà ad una rapida modernizzazione del Giappone, allora ancora feudale. Questa riscossa del Giappone, del periodo del Meiji, che gli consente rapidamente di emanciparsi dal dominio occidentale resta del tutto fuori scena nel libretto di Puccini e nella messa in scena in stile contemporaneo presentata alla terme di Caracalla. L’opera di Puccini non nasce, infatti, da un interesse storico per ciò che avviene allora in Giappone, ma da una tragedia in un atto di David Belasco, tratta da un racconto dello statunitense John Luther Long dal titolo Madam Butterfly (1898).

Per quanto l’interesse storico difetti sia in Puccini che nel nuovo allestimento realizzato al Teatro dell’Opera, alcuni elementi della trama sono comunque interessanti: l’ufficiale americano Pinkerton acquista al prezzo di soli 100 yuan, da un sensale senza scrupoli, la possibilità di possedere una geisha quindicenne - Cio Cio San, alias Madame Butterfly – mediante un matrimonio che può essere sciolto arbitrariamente. Lo spietato e cinico Pinkerton, prototipo dell’imperialista occidentale, ha già stabilito che una volta strappata la verginità alla adolescente giapponese, la abbandonerà per convogliare alle vere nozze borghesi con una statunitense.

Da ciò emerge come il colonialismo e l’imperialismo si fondano sul mancato riconoscimento dell’altro, se non nella funzione subordinata del servo, mero strumento di godimento e di profitto. Perciò viene affermato esplicitamente che l’“uomo esperto”, ossia il cinico rappresentante dell’occidente imperialista, non può che approfittare dell’ingenuità che rende debole il popolo colonizzato, naturalizzando la dialettica servo padrone che si impone con la violenza e l’inganno. Al dominio materiale si lega il dominio spirituale, la geisha giapponese appare da subito totalmente egemonizzata dal proprio padrone-marito americano, tanto che si converte immediatamente alla stessa religione del suo signore, facendosi rinnegare dal proprio popolo e dalla sua stessa famiglia. Del resto il libretto di Puccini è del tutto improntato alla concezione orientalista, ossia alla versione che i dominatori danno dei dominati, a dimostrazione che la concezione storica dominante è quella dei vincitori.

Questa completa imposizione della narrazione ideologica del dominatore, improntata al più sfenato orientalismo, penalizza l’opera, che appare priva di personaggi tipici e davvero poco realista. La protagonista, non a caso ribattezzata Madame Butterfly, non ha nulla della tipica geisha dell’epoca e della sua età, ma è completamente forgiata dallo sguardo orientalista che la riduce a un’eroina romantica che si strugge di amore. La bellissima e fragilissima farfalla, una volta ghermita dal conquistatore yankee non potrà che morire in una struggente e, tutto sommato, noiosa agonia, che occupa per intero il secondo e terzo atto, difficilmente sostenibili.

Nonostante il tentativo di attualizzare il dramma, di ravvivarlo e renderlo meno pesante con le luci, le belle scenografie e, soprattutto, con la grande capacità della protagonista, i difetti del libretto impediscono all’opera di decollare.

La regola: Bohème

La scenografia della Bohème, realizzata insieme ai costumi e alle luci da Davide Livermore, è costruita da una serie di schermi disposti sulla scena in cui si proiettano immagini tratte generalmente dai massimi pittori francesi e mitteleuropei di fine Ottocento. Le proiezioni consentono di utilizzare come scenografia le imponenti rovine delle Terme di Caracalla, che fanno da grandioso sfondo al palco. Tuttavia proprio la presenza degli schermi, oltre a soffocare la scena, dal momento che la riducono di circa la metà, impediscono allo sguardo di spaziare sul suggestivo fondale delle rovine classiche. In tal modo va in parte perduto uno degli aspetti che rende accettabile la realizzazione di opere liriche a Caracalla, dove è necessario amplificare le voci. Tanto più quando, come nel caso della Bohème, gli interpreti non sono assolutamente all’altezza di realizzare una discreta opera nonostante questa difficoltà di fondo. Peraltro la stessa idea di proiettare immagini di quadri sugli schermi e le rovine, unico aspetto in un primo momento apprezzabile in una messa in scena davvero pessima, si rivela ben presto un semplice espediente a buon mercato, che consente di non investire tempo e risorse nella costruzione delle scenografie.

A rendere il tutto più difficile c’è il libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, melenso e pieno dei luoghi comuni del più vieto tardo romanticismo. Lo spettacolo si adatta appieno all’ambiente storico in cui è calato, il mondo asfittico e privo di prospettive della Francia di Luigi Filippo, dominato dall’alta finanza, in cui è stato cancellato lo stesso ricordo dei moti rivoluzionari del 1830 da cui pure è sorto.

Particolarmente urtante è il linguaggio aulico e arcaico del libretto, improntato al secentismo programmatico dell’intellettuale tradizionale che non fa che guardarsi la lingua mentre si esprime, anche perché la sua autorità sulle masse ridotte a plebe dipende proprio dalle capacità oratorie. La musica briosa e ironica all’inizio del primo atto, riesce a stabilire un dialogo produttivo e frizzante con i dialoghi scherzosi e autoironici dei giovani bohémien. Ma poi non appare in grado di rivitalizzare un’opera che slitta sempre più in uno zuccheroso melodrammone da fotoromanzo.

I personaggi sono stereotipati, penosi luoghi comuni viventi. Più che tipi, si rivelano vere e proprie macchiette del tutto inverosimili, improntate al livello più mediocre del gusto dominante in epoca tardo romantica. Tanto più che i bohémien, che nella prima scena possono ancora apparire simpatici, per il loro idealismo mitigato da una giusta dose di autoironia, ben presto ci presentano tutto il loro lato deteriore. Anche questo aspetto, come l’asfittica società orleanista, ci è presentato in modo poco critico, senza il necessario effetto di straniamento volto a farne emergere le contraddizioni di fondo e, soprattutto, senza la prospettiva di un mondo migliore che consentirebbe di storicizzarlo facendone emergere i limiti e gli aspetti irrazionali.

I bohémien finiscono per rivelarsi per quello che sono, dei piccolo borghesi privi di genio e reale ispirazione, poveri di contenuti sostanziali da mediare con la propria arte, che vogliono vivere liberi dal lavoro salariato a spese dell’intera società. Essi preferiscono tirare a campare da bohémien, persino far morire di freddo e stenti la donna che pretendono di amare, pur di non divenire lavoratori salariati, nella vana attesa di poter vivere di rendita dopo la morte di qualche ricco parente. Anche la povertà è rappresentata nel modo peggiore, meno realistico. Manca la cattiveria della povertà, su cui ha messo l’accento un autore realista come Brecht, e abbiamo la povertà come la immaginano o meglio come la vorrebbero i ricchi.

La scena di massa della seconda parte del primo atto è scadente. Tutto è fuori posto, come in un mediocre baraccone di fiera, e si scade spesso nel grottesco. Abbondano i luoghi comuni, come gli elementi circensi che sono ormai divenuti un elemento immancabile e scontato di ogni messa in scena. Il palcoscenico, già dimezzato dagli schermi, è riempito all’inverosimile da comparse e personaggi d’ogni tipo, dalle ballerine di Degas a un improbabile King Kong, che fanno più o meno tutto quello che gli viene in mente nel modo più arbitrario e dilettantesco.

La conferma della regola: Turandot

Lo scenario fatto di pannelli di bambù, su cui si apre la Turandot, non valorizza, né dialoga con il meraviglioso scenario delle Terme di Caracalla, piuttosto tende a occultarlo. Nonostante sia l’8 di agosto vi è una notevole presenza di pubblico, che resta stoicamente ai propri posti fino alla fine di un’interpretazione davvero intollerabile.

La logica dei tagli indiscriminati, che dovrebbero consentire di massimalizzare i profitti, è esemplarmente messa in scena nella Turandot; sotto la scure dei tagli finiscono le scenografie, la regia, i costumi, le luci, il trucco, la recitazione degli attori, la qualità degli interpreti, con un paio di lodevoli eccezioni.

La stesso plot, per altro mediocre come in tutte le opere di Puccini, diviene incomprensibile al pubblico non esperto in quanto, per risparmiare, si arriva a non mettere in scena ciò a cui fanno riferimento i personaggi. L’unica cosa accettabile è la presenza di un’orchestra che, senza entusiasmare, rende ancora tollerabile lo spettacolo; non a caso proprio a colpire questo residuo di bene pubblico ha mirato l’attuale giunta capitolina per conto dei poteri forti.

Il fascino esotico della fiaba ambientata in un oriente fantastico è completamente perduto. Tolta l’aura fantastica della fiaba e il fascino esotico per il lontano Oriente resta solo mediocrità, sciatteria e trovate del tutto estemporanee. Particolarmente fastidioso è che per risparmiare sui costumi e dimostrare conformismo all’ideologia dominante, il potere dispotico della Turandot è rappresentato come un fenomeno della Rivoluzione culturale, ossia rinviando impropriamente a quello che nel bene e nel male è stato il momento di rottura più radicare con la tradizione imperiale e feudale cinese. Tutto ciò dimostra, oltre a una preoccupante mancanza di gusto e la piena adesione al rovescismo storico imperante, un assoluto disprezzo per il proprio pubblico.

Del resto ognuno è artefice del proprio destino e, dunque, anche il pubblico, nel suo complesso, fa di tutto per meritarsi la paccottiglia che gli viene propinata. Lo spirito critico è ormai completamente bandito, appare anticonformista e, quindi potenzialmente estremista in quanto contrario al politically correct. I pochi che dissentono si limitano a battere senza convinzione le mani per non urtare troppo il senso comune, ma i più applaudono convinti, nella logica del pubblico televisivo e del fantomatico grande evento cui si ha il privilegio di assistere per potersene vantare sui social network, che anche nel corso dell’opera catturano sempre più spesso l’attenzione della componente più becera, in rapida crescita, del pubblico.

Il tutto è aggravato dai limiti intrinseci dell’opera di Puccini, e dalla scelta programmaticamente antirealista della fiaba dell’ultra reazionario Gozzi. Come le opere precedenti, Turandot è caratterizzata da toni melodrammatici da fotoromanzo, da un esotismo improntato al più bieco orientalismo, da un intollerabile classismo e maschilismo.

13/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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