L’imperialismo quale fase suprema del capitalismo

Generalmente il saggio popolare di Lenin sulla fase suprema di sviluppo del capitalismo è considerato ideologico, nel senso deteriore del termine, dagli interpreti borghesi. La maggioranza dei marxisti e comunisti occidentali ritiene il saggio di Lenin una grande opera dal punto di vista storico, ma necessariamente datata al giorno d’oggi. Al contrario, nel presente articolo, cercheremo di mostrare come l’interpretazione di Lenin sia paradossalmente più attuale oggi di quando fu scritta.


L’imperialismo quale fase suprema del capitalismo

Una degli aspetti più caratteristici dell’imperialismo, dal punto di vista economico, è la radicale trasformazione della funzione delle banche. Osserva a questo proposito Lenin: “la fondamentale e originaria funzione delle banche consiste nel servire da intermediario nei pagamenti; quindi le banche che trasformano il capitale liquido inattivo in capitale attivo, cioè produttore di profitto, raccogliendo tutte le rendite in denaro e mettendole a disposizione dei capitalisti. Ma, a mano a mano che le banche si sviluppano e si concentrano in poche istituzioni, si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali, e così pure della massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese e di tutta una serie di paesi. Questa trasformazione di numerosi piccoli intermediari in un gruppetto di monopolisti costituisce uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista” [1]. Questa “trasformazione”, che ai tempi di Lenin era solo all’inizio, oggi la possiamo vedere quasi compiutamente dispiegata sotto i nostri occhi. Il fatto che la crescente concentrazione fra grandi banche arriva a disporre “di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali” è certamente molto più in grado di descrivere la realtà odierna, rispetto a quella di oltre un secolo fa in cui l’opera di Lenin è stata scritta. Allo stesso modo, il fatto che le grandi banche monopolistiche controllino “la massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime (…) di tutta una serie di paesi” è una tendenza storica che si inaugura all’inizio del ventesimo secolo, poco prima che l’opera di Lenin fosse composta, ma che va avanti fino ai giorni nostri.

Dunque, quello che era originariamente il capitale monetario, finisce con l’assoggettare fondamentalmente a sé il capitale produttivo delle industrie e, più in generale, delle imprese: “la banca, tenendo il conto corrente di parecchi capitalisti, compie apparentemente una funzione puramente tecnica, esclusivamente ausiliaria. Ma non appena quest’operazione ha assunto dimensioni gigantesche, ne risulta che un pugno di monopolizzatori si assoggettano le operazioni industriali e commerciali dell’intera società capitalista, giacché, mediante i loro rapporti bancari, conti correnti e altre operazioni finanziarie, conseguono la possibilità anzitutto di essere esattamente informati sull’andamento degli affari dei singoli capitalisti, quindi di controllarli, di influire su di loro, allargando e restringendo il credito, facilitandolo od ostacolandolo e infine di deciderne completamente la sorte, di fissare la loro redditività, di sottrarre loro il capitale o di dar loro la possibilità di aumentarlo rapidamente e in enormi proporzioni” (65-66). Anche in questo caso il fatto che un “pugno di monopolizzatori” che controllano le grandi banche “si assoggettano le operazioni industriali e commerciali dell’intera società capitalista” è una tendenza certamente più realizzatasi storicamente ai nostri giorni, rispetto all’epoca in cui viveva Lenin, dove era ancora un’ardita previsione e ipotesi di sviluppo proiettata nel futuro.

Il ruolo sempre più centrale delle banche anche nel settore produttivo, favorisce il processo di centralizzazione del capitale che porta al sorgere del grande capitale finanziario. Come osserva Lenin, “non appena la banca «accumula» capitali enormi, non appena la tenuta del conto corrente di un dato imprenditore mette la banca in grado di conoscere, sempre più esattamente e completamente, la situazione economica del suo cliente, – e questo appunto si sta verificando, – allora ne risulta una sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca. Nello stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei Consigli di amministrazione delle imprese industriali e commerciali e viceversa” (73).

La fusione di capitale industriale, commerciale e monetario nel capitale finanziario non porta dunque a un’indifferenziata sintesi fra questi tre aspetti, in quanto la fusione avviene di regola sotto l’egemonia dei capitalisti che vivono di rendita e che si differenziano sempre di più dall’imprenditore della fase precedente che ancora dirigeva la sua azienda. Soltanto oggi vi è una netta divisione fra gli impiegati che svolgono le attività direttive nelle grandi imprese e i proprietari di pacchetti azionari che le controllano dall’esterno, generalmente attraverso un meccanismo di scatole cinesi. “In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso di capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale o produttivo, di separare il rentier che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più «forti»” (95). Tale tendenza al dominio di una oligarchia finanziaria e degli Stati finanziariamente più potenti si sta realizzando proprio ai nostri giorni.

Portato a compimento con lo sviluppo in senso imperialista il ciclo del capitalismo, quest’ultimo è come se ritornasse al suo punto di partenza, ma a un livello enormemente più ampio: “il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usuraio minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usuraio gigantesco” (89). Ciò spiega come mai gli aspetti progressisti del capitale al suo sorgere, siano destinati a venire sempre più meno con il suo sviluppo, in un processo secolare che si sta compiendo proprio ai giorni nostri.

Dunque, tali sviluppi, di cui Lenin nella sua epoca poteva intuire esclusivamente le tendenziali direttici – anche perché non risiederà mai nei paesi centrali per l’affermazione del capitale finanziario – appaiono oggi ancora più in grado di allora di descrivere e comprendere gli aspetti decisivi dell’attuale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Come osserva Lenin “si giunge da un lato a una sempre maggiore fusione, o secondo l’indovinata espressione di N. I. Bukharin, a una simbiosi del capitale bancario col capitale industriale, e d’altro lato al trasformarsi delle banche in istituzioni veramente di «carattere universale»” (75-76).

Il potere del capitale finanziario si afferma sempre di più non solo nei periodi di sviluppo economico, ma anche in quelli di crisi: “mentre nei periodi di prosperità industriale i profitti del capitale finanziario aumentano a dismisura, in quelli di decadenza industriale le imprese piccole e deboli vanno a picco, allora le grandi banche «partecipano» alla compera a buon mercato di queste piccole aziende o al «risanamento» e alla «riorganizzazione» delle imprese dissestate” (90). Anche questo processo è certamente più attuale oggi rispetto al 1916.

Nelle epoche di crisi cresce la tendenza a esportare capitali e, di conseguenza, la tendenza a mettere al sicuro gli investimenti all’estero tramite una politica di tipo imperialista. Anche su questo piano si riproduce una dinamica di concorrenza, in questo caso fra grandi monopoli che assumono sempre di più, per poter sconfiggere i competitori, una dimensione transnazionale. Lenin, dunque, ha chiara già allora la tendenza attuale di sviluppo del capitalismo nell’imperialismo transnazionale, dove a dominare sono sempre più le multinazionali: “a misura che cresceva la esportazione dei capitali, si allargavano le relazioni estere e coloniali e le «sfere di influenza» delle grandi associazioni monopolistiche, «naturalmente» si procedeva verso la creazione di cartelli mondiali” (105).

Importante infine notare come la forma sempre più putrescente che assume il capitale nella sua fase di sviluppo suprema imperialista non implica necessariamente la sua crisi o la sua stagnazione, ma può benissimo connettersi non solo a un ulteriore sviluppo del capitalismo, ma persino a un suo sviluppo in senso accelerato. Secondo Lenin, in effetti, “sempre più netta appare la tendenza dell’imperialismo a formare lo «Stato rentier», lo Stato usuraio, la cui borghesia vive esportando capitali e «tagliando cedole». Sarebbe erroneo credere che tale tendenza alla putrescenza escluda il rapido incremento del capitalismo: tutt’altro” (175). Tale osservazione è di grande importanza, in quanto naturalmente i critici dell’opera di Lenin e chi sostiene che essa sia superata storicamente generalmente ritengono che tale diagnosi di uno stato putrescente del capitalismo fosse erronea, in quanto il capitalismo mai come oggi si sta imponendo a livello globale e mai come oggi i paesi a capitalismo sviluppato dominano a livello internazionale.

 

Note:

[1] Lenin, Vladimir, Ilic, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Laboratorio politico, Napoli 1994, p. 60. D’ora in poi indicheremo direttamente nel testo, per i brani citati da quest’opera, il numero di pagina di questa edizione in parentesi tonde.

09/06/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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