Aspetti economici della crisi attuale del capitalismo (seconda parte)

Seconda parte della relazione sugli aspetti economici dell’attuale crisi del capitalismo presentata alla Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti del 19 giugno scorso. In questa parte si spiegano i motivi teorici e pratici dell’abbandono delle politiche keynesiane da parte degli agenti del capitale e si indicano politiche alternative.


Aspetti economici della crisi attuale del capitalismo (seconda parte)

La panoramica dei dati illustrati ci aiuta a capire la natura della crisi e le possibili rivendicazioni di politica economica.

Gli economisti keynesiani affermano che le crisi della fine del XX secolo furono il risultato della decisione delle autorità pubbliche di tutto il mondo di abbandonare le politiche di sostegno della domanda, e di regolamentazione del credito e della mobilità dei capitali avvenute durante i primi anni ’70. Ma perché gli strateghi del capitale hanno abbandonato la gestione e il controllo in stile keynesiano e hanno optato per l’esatto opposto se tutto funzionava così bene negli anni 50 e 60?

Si tratta dell’ennesima prova di miopia delle classi dominanti oppure, al contrario, le politiche keynesiane sono effettivamente inutili, da un punto di vista capitalistico, in un momento di crisi?

La ragione per cui i governi capitalisti si sono rivolti al monetarismo e alle politiche neoliberiste è che il keynesismo aveva fallito, e aveva fallito nell’elemento più importante per il capitalismo: quello di sostegno alla redditività del capitale.

In altre parole, è stato il crollo del tasso di accumulazione nelle principali economie (che portò a una serie di recessioni nel 1970, 1974 e poi nel 1980-2 ma, soprattutto, a una crescita media annua molto più bassa del ventennio precedente) a spingere gli economisti embedded e i responsabili politici a rompere con Keynes. 

Con meno plusvalore da spartire, non ci si può più permettere i servizi pubblici, lo Stato sociale, i buoni stipendi, la piena occupazione, lo Stato interventista, il deficit spending ecc. Ma tutti questi dietrofront avvennero dopo il crollo degli anni ’70, prima del quale il capitale speculativo (c.d. “finanziario”) era “regolato”, le valute “gestite”, i lavoratori avevano diritti, il governo poteva intervenire fiscalmente e controllava direttamente o indirettamente importanti pezzi dell’apparato produttivo (le c.d. Industrie di Stato). 

Fu il fallimento della produzione capitalista e l’incapacità delle idee keynesiane a funzionare efficacemente che causò il cambiamento di teoria e politica, non viceversa.

D’altronde le idee keynesiane avevano dimostrato di funzionare efficacemente soprattutto nel dopoguerra, vale a dire dopo che la crisi economica prima e bellica poi aveva già fatto il proprio corso, vale a dire distrutto il capitale nella misura necessaria ad alzare il saggio del profitto.

Prima – negli anni ’30 quando furono messe in pratica con Roosevelt, Mussolini ma soprattutto Hitler, il cui Terzo Reich non a caso fu molto lodato da Keynes – la loro efficacia nel garantire alti tassi di crescita e bassa disoccupazione fu molto minore. Tanto che, per dirla col grande economista keynesiano Abba Lerner, “fu soltanto la spesa monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente curò la grande depressione”.

E ieri come oggi, l’approccio keynesiano non è funzionale alla ripresa economica. Per questo la classe dominante se ne serve solo per socializzare le perdite, vale a dire utilizzare i soldi dei contribuenti per salvare aziende private altrimenti destinate al fallimento, e solo nella misura in cui tali interventi non perturbino il “mercato” negli Stati imperialisti e non ostacolino i grandi capitali monopolistici e finanziari transnazionali. La presenza dei fondi di investimento insieme a criteri e prezzi “di mercato” nella nella partecipazione della Cassa Depositi e Prestiti in Autostrade ne è una palese dimostrazione. In ogni caso quel poco che è rimasto di pubblico nell’economia è gestito con criteri privatistici.

La strategia keynesiana per quanto riguarda la politica di bilancio può essere sintetizzata negli stimoli alla spesa (appalti, forniture, servizi pubblici, trasferimenti a famiglie e imprese ecc.) e negli stimoli alla produzione (controllo dei prezzi, la regolazione del settore privato, le nazionalizzazioni, ecc). Per usare le categorie economiche dominanti: sostegno alla domanda e all’offerta, da finanziarsi mediante il ricorso al deficit di bilancio primario, che comporta l’aumento del debito pubblico.

Alla base di tali politiche però, non vi è la constatazione che il problema del sistema economico è costituito dalla sovrapproduzione di capitale (non semplicemente di merci!) – che è la causa della diminuzione tendenziale del saggio del profitto e che a sua volta affonda le sue radici nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali basati sullo sfruttamento di una minoranza di proprietari tra loro in concorrenza sulla maggioranza di diseredati. 

Di conseguenza le risorse a disposizione (espresse come valore complessivo di beni e servizi prodotti, oppure dei redditi percepiti dai proprietari di quelle risorse, quindi salari, interessi, dividendi, rendite) e gli impieghi possibili di tali risorse (rappresentati da consumo individuale e investimenti aziendali) non è detto che coincidano. Lo squilibrio più frequente, anche per chi propugna tali politiche, è dato dalla carenza di domanda rispetto all’offerta disponibile (le merci non si riescono a vendere). Per prevenire o mitigare tale squilibrio, si propone di incrementare la domanda attraverso l’intervento pubblico invece di lasciare che il libero mercato comprima e svaluti la produzione attraverso fallimenti, svalutazioni, disoccupazione, precarizzazione ecc.

Vediamo come funzionerebbe la cosa. Essendo il disequilibrio tra domanda e offerta generato dall’esistenza di molteplici centri decisionali indipendenti tra loro (la concorrenza), si potrebbe pensare che dare un carattere programmato agli impieghi (es. pianificazione degli investimenti) sia un buon modo affrontarlo. Però nella fase in cui lo Stato deve rappresentare tutti i capitali di stanza nel paese e mediare tra i loro interessi, spesso contrapposti, nonché, a livello sovranazionale, con con altri Stati in cui questi capitali operano, non è possibile ridurre a uno i centri decisionali eliminando la concorrenza (neanche all’interno di alcuni selezionati comparti economici, come avvenuto per esempio con l’Iri tra gli anni ’30 e gli anni ’70) ma debbono limitarsi a facilitare la vendita dei prodotti da parte delle imprese private. Come? Limitandosi a incentivare i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese.

Ma il consumo delle famiglie è reso possibile dai loro redditi – per di più salari – così gli investimenti delle aziende sono finanziati dalle risorse a disposizione della società, vale a dire i profitti e la parte più o meno residuale proveniente da salari, interessi, dividendi e rendite non consumati messi a disposizione attraverso il circuito bancario, ciò che gli economisti chiamano con il termine neutro e obliterante di “risparmio”).

Dal punto di vista keynesiano, tuttavia, per riattivare la crescita economica, a dover essere incentivati non sono i salari, la cui crescita determina la crescita dei consumi, che anzi devono diminuire (attraverso una politica monetaria che genera la tanto agognata, dal padronato industriale e commerciale, “inflazione” e quindi erosione del potere di acquisto) bensì gli investimenti. Ma se a guidare i consumi non sono i salari e a guidare gli investimenti sono gli “spiriti animali” dei capitalisti e le loro aspettative di guadagno, si torna dritti dritti all’approccio soggettivo della scuola neoclassica che si basa sulla rilevazione acritica del modo in cui si conduce un’impresa, per cui appare che il profitto è un risultato degli investimenti, remunera il capitale investito, mentre è vero l’esatto contrario, gli investimenti non sono, a livello sistemico, che la capitalizzazione di plusvalore.

L’unico fattore oggettivo che può modificare la quantità di investimenti è il costo che l’azienda deve sostenere per prendere a prestito il denaro, vale a dire il tasso di interesse. E infatti, per confrontare il costo dell’investimento determinato dal tasso di interesse con i profitti che nel corso della sua “vita” ci si aspetta di ottenere, è necessario riportare questi ipotetici profitti a un valore attualizzato utilizzando proprio il tasso di interesse. Pertanto, se il costo è minore del valore attuale dei profitti attualizzati allora l’investimento può aver luogo, altrimenti non conviene.

Da questo approccio deriva che la prima forma di interventismo pubblico si ha sui tassi di interesse praticati dalla Banca Centrale. La convinzione è che ciò possa indurre le banche private che hanno i conti aperti presso di essa a diminuire a loro volta gli interessi che praticano alla propria clientela e così, dato il minor costo per gli interessi, far ripartire gli investimenti effettuati dalle imprese. Ma ciò non basta perché la Bc, come in genere le banche centrali, non controlla che una piccola parte della base monetaria, essendo invece il sistema bancario nel suo complesso che tramite le aperture di credito fornisce liquidità alle imprese. Inoltre liquidità di cui viene inondato il sistema se ne può andare nella speculazione finanziaria, se ritenuta più redditizia dell’investimento nella produzione. Infatti non è servito un gran che portare il tasso di interesse della Bce verso il sistema bancario addirittura a un importo negativo.

Allora dicono ancora i keynesiani, diviene necessario per lo Stato intervenire direttamente utilizzando risorse “proprie” per incrementare la domanda, vale a dire incrementare quantitativamente (e in qualche caso più illuminato guidare qualitativamente) le risorse impiegate, vale a dire i consumi delle famiglie (bloccati dalla politica inflazionistica che erode il potere di acquisto) e gli investimenti delle imprese.

Questo è il compito della spesa pubblica, il cui carattere capitalisticamente improduttivo, però, è bellamente ignorato. A differenza degli investimenti privati, infatti, per questi economisti cambia solamente la metodologia di computo del valore, che non può basarsi sul “valore” inteso come prodotto tra prezzo di mercato e quantità – dal momento che la Pa non produce beni e servizi per la vendita – bensì come prodotto tra quantità e costi di produzione. Ma in questo modo qualunque spreco e distruzione viene contabilizzato come… un aumento di ricchezza!

Le risorse necessarie, tuttavia, lo Stato può prenderle unicamente in due modi:

1) dalla società civile attraverso tasse e imposte che gravano sui consumi e sugli investimenti oppure sui salari e sulle altre fonti di reddito, incluso il profitto delle imprese. 2) oppure mobilitando i capitali “inattivi”, attraverso il debito pubblico. In altre parole, nell’impossibilità di stimolare gli investimenti privati attraverso la diminuzione dei tassi di interesse, la ripresa economica (alias l’aumento dei profitti) sarebbe assicurata agendo sulla domanda, attraverso un aumento della spesa pubblica effettiva.

Quindi, se non si riescono a riattivare gli investimenti privati né a convincere le famiglie che non consumano tutto il proprio reddito a spenderlo, ci pensa il governo per mezzo del deficit di bilancio (vale a dire con spesa pubblica maggiore delle entrate che la finanziano). In questo modo i profitti del settore privato aumenterebbero. Quindi, l’ultima cosa che il padronato dovrebbe fare è tagliare la spesa pubblica in quanto la crisi può essere risolta da una spesa pubblica maggiore. Eppure, come le politiche di austerità confermano, se non per il periodo strettamente legato all’emergenza (crollo Lehman Brothers, lockdown) i governi fanno tutto il contrario. Come mai?

La risposta sta nell’errore di ipotizzare che i profitti derivino dagli investimenti, mentre succede esattamente il contrario. Quindi, se sono l’ammontare e il tasso di profitto a guidare le decisioni di investimento, è su questi che bisogna agire. Non sugli impieghi ma sulle risorse o, per dirla con le categorie economiche dominanti, non sulla domanda ma sull’offerta. E così hanno fatto la generalità dei governi borghesi.

Non a caso due grandi economisti keynesiani, sir Henry Roy Forbes Harrod e Evsey Domar, studiando come garantire la crescita economica, mettono al centro il rapporto tra “propensione marginale al risparmio” e livello degli investimenti. Ecco quindi le “politiche dei redditi” (detassazione dei profitti, compressione dei salari). Ciononostante, la diminuzione degli investimenti in un periodi di crisi è in ogni caso necessaria ad assicurare la crescita economica in quanto costituisce la famosa “distruzione di capitale” di marxiana memoria, parte di quel mix di fallimenti, svalutazioni, disoccupazione, precarizzazione ecc senza il quale il capitale non può uscire dalla crisi. Si tratta della Schumpeteriana “distruzione creativa” che Draghi ha raccolto dichiarando che le “imprese zombie” vanno lasciate morire. 

E tra gli investimenti privati e quelli pubblici, molto meglio sacrificare i secondi conseguendo un surplus di bilancio, altro che deficit! Quindi sotto con i tagli per creare spazi di mercato, ripulirlo dagli agenti decotti e dirottare una crescente fetta delle tasse raccolte al pagamento degli interessi sul debito pubblico, quindi a “remunerare” il capitale “finanziario”.

D’altronde, gli investimenti pubblici e in generale gli stimoli fiscali effettuati durante una crisi producono una contraddizione: mantenere la capacità produttiva in eccesso può aver senso solamente se parallelamente aumenta la manodopera disponibile e il suo il tasso di sfruttamento.

Naturalmente, dal punto di vista della classe lavoratrice, più investimenti pubblici, specie se orientati ad accrescere le condizioni dei lavoratori e i diritti sociali, sono buona cosa. Ma, anche da un punto di vista puramente riformista, occorre avere la consapevolezza che ciò incontrerà la ferma opposizione dei capitalisti e dei governi a loro asserviti e non perché non hanno capito le prediche degli economisti keynesiani, ma perché hanno capito bene qual è il loro interesse.

Quindi qualsiasi conquista di politiche socialmente più eque non dipende dalle prediche degli economisti, ma dai rapporti di forza, in questo momento estremamente a noi sfavorevoli. Il lavoro principale da fare è quindi ricomporre l’unità della classe, spingere per un’unificazione delle condizioni e delle tutele, elevando quelle di coloro che ne hanno meno, promuovere conflitti sociali su questi temi, opponendosi per esempio con una grande mobilitazione allo sblocco dei licenziamenti e alla liberalizzazione degli appalti. Accumulare le forze per preparare un’offensiva su larga scala, avendo la consapevolezza che se le rivendicazioni riformiste possono avere un valore tattico, la strategia non può che essere il controllo pubblico dell’economia da parte di un governo che non risponda agli ordini dei capitalisti. Il tutto all’interno di una lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario REALE, perché è ormai evidente che il sistema, grazie all’enorme sviluppo della produttività, è in grado di metabolizzare sempre meno lavoro. Ci sarebbero le condizioni materiali perché il sempre minore lavoro necessario fosse ripartito fra tutti. Ma dal punto di vista capitalistico anche ciò comporta la riduzione del saggio del profitto. Ecco allora che si intensifica lo sfruttamento degli occupati, si riducono le pause e i diritti e si lascia inoccupato o fortemente precario un crescente esercito industriale di riserva.



02/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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