Brecht e il realismo

A un realismo ridotto a ingenuo verismo dalla pretesa di un fedele rispecchiamento della realtà, Brecht ha opposto l’imprescindibile esigenza dell’opera a organizzarsi in un cosmo in sé ordinato, a superare la separazione che necessariamente intercorre tra un concetto e il suo oggetto, tra la scienza e il suo linguaggio.


Brecht e il realismo

Al dramma tradizionale fondato su una logica aristotelica, che rappresentava i personaggi come dotati una volta per tutte di un determinato carattere, Brecht intendeva opporre il dramma non-aristotelico basato sulla scissione del carattere unitario delle dramatis personae nelle loro contraddittorie proprietà. L’individuo, quindi, non poteva più costituire il presupposto della forma drammatica, ma diveniva il risultato di un complesso processo. Il mondo, infatti, non poteva più essere ordinato dal punto di vista centrale dell’eroe; centrale doveva divenire, invece, il Zusammenspielen degli individui tra loro e con il mondo che li circonda.

Questa concezione dell’arte portò Brecht a un crescente contrasto con la concezione “ufficiale” dei “moscoviti”. Si innescò, così, una polemica indiretta tra Brecht e Lukács, che pure da quelle posizioni era ben distante. Vista oggi questa polemica sembra in gran parte basata su un’incomprensione di fondo tra i due autori che, attaccandosi a vicenda, finivano in realtà per colpire le posizioni dogmaticamente avanguardistiche o conservatrici dei rispettivi epigoni. Nonostante questa doverosa precisazione è utile analizzare, per sommi capi, questa polemica, per comprendere meglio cosa intendesse Brecht con il termine “drammaturgia non-aristotelica”. Come ha notato Mittenzwei, infatti, “più ancora che Stanislavskij per Brecht era Lukács il maggiore antipode, il diffusore dell’aristotelico” [1].

La polemica tra i due si incentrava essenzialmente sulla relazione che doveva stabilirsi tra il moderno scrittore realista e la tradizione. Brecht rimproverava a Lukács di aver voluto imporre degli astratti modelli del passato, senza voler affatto considerare le nuove problematiche con cui ha a che fare lo scrittore moderno. In questo modo il filosofo ungherese aveva finito con il negare qualsiasi valore agli esperimenti compiuti dalle avanguardie per adeguare la forma ricevuta dalla tradizione a una realtà resa sempre più complessa dai progressi della ricerca scientifica. Al contrario, a Brecht premeva di far emergere nei suoi scritti il differente contesto in cui erano costretti a muoversi gli scrittori moderni. Come abbiamo già visto, per questo autore la differenza fondamentale era costituita dalla perdita di importanza del momento soggettivo nel nuovo ordine sociale.

Ciò, ovviamente, non significava dover eliminare, livellare ed abbandonare al suo destino il soggetto, come pretendevano i critici dogmatici “murxisti”, volendo servirci di un termine ironico di Brecht. La rappresentazione del livellamento dell’individuo nella massa non dipendeva da una scelta formale della soggettività creatrice, ma doveva essere considerata una scelta in un certo senso imposta in una società a capitalismo avanzato. Certo, l’artista non avrebbe dovuto limitarsi a prenderne atto, presentando questo stato dei fatti come un destino implacabile ed immutabile, ma doveva indagare tutte le contraddittorie potenzialità in esso contenute. Così, i personaggi a tutto tondo della letteratura classica, che Lukács indicava come modelli per lo scrittore realista, apparivano a Brecht del tutto inutilizzabili. Un loro aproblematico inserimento nell’opera avrebbe voluto dire cedere a quell’illusione “ideologica” di poter artificialmente ricostruire una pseudosoggettività individuale. Non bisognava, infatti, dimenticare che era la stessa società borghese che, contraddittoriamente, nel momento stesso in cui cancellava l’individuo, ne riproponeva ideologicamente il mito [2]. Come Adorno e Benjamin, anche Brecht preferiva, allora, rifarsi alla “cattiveria del nuovo” piuttosto che alla consolatoria bontà del vecchio. Non potendo più appellarsi alla vecchia concezione dell’individuo, occorreva spingere all’estremo la nuova situazione se si voleva produrre una reale trasformazione

Lo scrittore moderno, a parere di Brecht, non può più pretendere di dare forma alla realtà nella sua opera a partire da una personale Weltanschauung. In questo modo, certo, le singole parti dell’opera troverebbero la giustificazione nell’economia del tutto, ma ogni dettaglio in sé considerato sarebbe completamente privo di relazioni con quella realtà di cui l’opera voleva dar conto. Dato che ormai la “realtà” diviene riconoscibile solo nella sua dipendenza da leggi generali, i dettagli divengono per lo scrittore moderno degli strumenti indispensabili per costruire questa dipendenza. Solo grazie a questo indispensabile momento costruttivo-ricostruttivo sarebbe possibile guardare attraverso il particolare la nuova totalità. Il dettaglio, quindi, non deve più essere considerato come rappresentativo di questa totalità dell’opera, ma come il modello indispensabile alla sua intelligibilità [3].

Per non restare schiacciato sul piano fenomenico della rappresentazione della realtà, l’autore deve servirsi dello stile come di una “lente di ingrandimento”. Per dominare la “demoniaca” complessità della nuova sostanza non ci si può limitare, infatti, alla semplice descrizione di processi e situazioni. I dettagli non devono rifiutarsi al loro compito di costituire dei modelli chiarificatori della realtà. Questa, infatti, può essere presentata come trasformabile solo se guardata-attraverso quei modelli chiarificatori.

La concezione del realismo che Brecht oppone a quella dei “moscoviti” si sviluppa, quindi, dal tentativo di trovare un precario equilibrio tra due estremi opposti nello spazio lasciato aperto da una doppia negazione. A un realismo ridotto ad un ingenuo verismo dalla pretesa di un fedele rispecchiamento della realtà, di una pura ricostruzione Brecht ha opposto, infatti, l’imprescindibile esigenza dell’opera a organizzarsi in un cosmo in sé ordinato, a superare la separazione che necessariamente intercorre tra un concetto e il suo oggetto, tra la scienza e il suo linguaggio. Allo stesso tempo, però, egli ritiene necessario opporre al puro costruttivismo e alla pretesa assoluta autonomia del piano estetico l’imprescindibile legame che unisce l’arte alla vita, anche nel suo prenderne le distanze (o meglio proprio nel suo prenderne le distanze). Il momento costruttivo e quello conoscitivo-ricostruttivo devono esser considerati, allora, due imprescindibili momenti dello stesso processo unitario che dà vita all’opera d’arte. Questi due momenti si richiamano vicendevolmente, si implicano in linea di principio: l’uno deve necessariamente presupporre l’altro per poter espletare fino in fondo la sua particolare funzione. Il compito supremo affidato da Brecht all’arte è, allora, quello di manifestare sensibilmente questo gioco di richiami tra i due ambiti, mostrandolo esemplarmente all’opera. 

La realtà per Brecht non poteva più essere considerata come uno stato delle cose di per sé esistente, come una struttura naturale e sociale in sé fondata, cui la soggettività agente deve cercare continuamente di adeguarsi. Il suo statuto ontologico, infatti, è dato solo in quanto è dialetticamente rapportato al soggetto che la esperisce e, quindi, la umanizza inserendola nel tempo “qualitativo” della storia. 

Lo scrittore realista, per rendere comprensibile la realtà al suo pubblico, non può limitarsi a trasmettergli delle impressioni sensoriali. Il suo ruolo, infatti, deve essere attivo per poter essere attivizzante. Egli deve intervenire sulla realtà, deve prestargli le sue forme e, con l’aiuto di tutte le tecniche letterarie e conoscitive a sua disposizione, deve rappresentare, per quanto è possibile, il suo conformarsi a leggi. Solo così si può trasmettere esemplarmente al proprio pubblico quell’atteggiamento critico che permette di intervenire sulla vita stessa, di trasformarla conoscendola. Proprio per questo motivo la drammaturgia non-aristotelica non si limita a presentare al proprio pubblico un’azione scenica, ma gli comunica un’attitudine. In altri termini, la dialettica su cui si fonda l’opera è data proprio dalla tensione a rappresentare la realtà così com’è, ma solo per suggerire al pubblico che potrebbe essere diversamente, che è necessario interrogarsi sul come dovrebbe essere. È possibile rappresentare la realtà, infatti, unicamente nella sua infinita molteplicità, nella sua irriducibile distinzione di livelli, nel suo perpetuo movimento trasformativo, nella sua insopprimibile contraddittorietà. Presupposto indispensabile della rappresentazione è, allora, la lotta perpetua contro ogni forma di ideologia, di schematismo, di determinismo, di pregiudizio.

 

Note:

[1] Mittenzwei, W., Der Realismus Streit um Brecht. Grundriß der Brecht-Rezeption in der DDR 1945-1975, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar 1978, p. 61.

[2] Cfr. Knopf, J., Über literarische Formen muß man die Wirklichkeit befragen. Brechts Ästhetik der Widersprüche, in BRECHT 85, pp. 190-203, 1985, p. 198.

[3] Anche Brecht, come aveva fatto Benjamin nel Dramma barocco tedesco, avvertiva il bisogno di rivalutare l’allegoria di fronte al simbolo della tradizione classicista e romantica, riportato in auge dall’espressionismo (cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con Hauptmann, E., Frankfurt a.M. 1967, vol. 15, p. 44, vol. 16, p. 756, vol. 17, p. 1040). Caratteristica fondamentale dell’allegoria è, infatti, la sua non-trasferibilità. “Mentre un simbolo sta per qualcosa d’altro e quindi non sta per se stesso, dunque «significa» qualcosa, l’allegoria sta per se stessa ed ogni tentativo d’interpretarla unilateralmente e di risolverla non si cura della sua essenza” Ludwig, K.H., Bertolt Brecht. Philosophische Grundlagen und Implikationen seiner Dramaturgie, Bouvier Verlag Herbert Grundmann, Bonn 1975 p. 10, cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, cit., vol. 15 p. 50, 370 e 455. Tuttavia, l’allegoria non dovendo portare in sé come il simbolo la predisposizione ad accogliere l’universale, assume il significato di una sfida lanciata a quel “profano mondo borghese” in cui al dettaglio non è riconosciuto più nessun valore. Solo conservando la sua ineliminabile autonomia il particolare può proporsi come cifra, come modello di un universale altrimenti irrappresentabile. Il particolare è così salvato e permette al fruitore di cogliere l’universale. Solo in questo modo la ricchezza metaforica dell’opera non perde quell’immediatezza che gli consente di attenersi al piano del concreto, del singolo che porta in sé sensibilmente il suo “significato”.

Il recupero di alcuni elementi della drammaturgia barocca, che abbiamo già visto nei Lehrstücke, non significava certo per Brecht sacrificare alla cura per il dettaglio il valore di modello interpretativo della realtà che deve possedere l’opera. L’affastellamento di dettagli, a spese di quella totalità a cui pur l’opera doveva aspirare, è già condannata da Brecht nei romanzi di Döblin. Lo stesso Wallenstein di Schiller era criticato da Brecht per il suo sovraccarico barocchismo che nascondeva il contenuto ideologico dell’opera dietro l’apparente neutralità della rappresentazione.

22/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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