Hegel e la lotta della ragione contro la positività della tradizione

La presa di coscienza di tutti i problemi che lo sviluppo storico incontrava nella stessa Francia rivoluzionaria, dovevano condurre il giovane Hegel a riflettere sulla drammaticità del processo attraverso il quale la ragione si era venuta affermando sulla positività nel mondo moderno.


Hegel e la lotta della ragione contro la positività della tradizione

Al centro della riflessione del giovane Hegel, tutta intrisa degli ideali della Rivoluzione Francese, vi è l’interesse per la ricostituzione di una cultura popolare e nazionale, in grado di fare anche della Germania, sul modello della Francia, uno Stato moderno. Questo progetto entra inevitabilmente in contrasto con la cultura cristiana, che viene avvertita come un che di estraneo, in modo particolare per quanto riguarda l’Antico testamento. Forte è, dunque, il contrasto tra un popolo vecchio e schiavo delle proprie catene, il popolo cristiano-tedesco oppresso dai lacciuoli della tradizione feudale, e un popolo che doveva apparire necessariamente, per contrasto, giovane, come quello della Grecia classica. L’ideale greco è, quindi, concepito da Hegel nella più stretta relazione con le vive contraddizioni della sua epoca e più in generale della modernità. Si tratta del fine – comune a tutta la sua epoca a partire dai romantici – della riconquista del bei-sich-sein nel mondo, della libertà concreta, della vita infinita in grado di ricomprendere il dualismo della modernità, consentendo al soggetto di “togliere” l’altro da sé, per ritrovarsi completamente nella natura [1]. Di contro ad una religione protesa a creare cittadini del cielo e non della terra come quella cristiana, di fronte a un rinvio utopico e sovrasensibile della realizzazione pratica dell’ideale, piuttosto che alla costruzione intramondana dell’utopia nel qui e ora del mondo sensibile, emerge il valore esemplare della religione dei Greci. Essi, come nota Hegel, “si avvicinavano agli altari dei loro buoni dèi recando gli amichevoli doni della natura, inghirlandati di fiori, vestiti coi colori della gioia, diffondendo letizia con il loro aspetto aperto invitante all’amicizia e all’amore” [2].

Si affaccia così, già in questi frammenti giovanili, un tema destinato ad avere ampia fortuna nell’opera hegeliana – in modo particolare, come vedremo, nella sua concezione della tragedia – quello della frattura dell’intero, la cui unità può essere riconquistata solo attraverso il suo compiuto dispiegamento nella molteplicità tendenzialmente infinita della sua particolarizzazione; la conciliazione non è più vista in contrapposizione alla lacerazione, ma come un prodotto del suo radicale svolgimento. In altri termini, si tratta di individuare una concezione della religione in grado di favorire il più possibile la realizzazione – nel qui ed ora del mondo storico – del dover essere di una comunità umana, retta unicamente dall’universalità razionale dell’imperativo categorico.

Questa concezione, come già si è detto, ha molto probabilmente una delle sue fonti nella rousseauiana religione del cittadino [3] – una religione civile in cui è superato il dualismo caratterizzante la religione cristiano-moderna tra doveri verso la nazione e doveri religiosi, cui si erano più o meno ispirate anche quelle esperienze di religione civile sperimentate, senza successo, dalla Rivoluzione Francese. Proprio dai tentativi compiuti in questo senso in Francia deriva probabilmente l’adesione hegeliana alla religione del cittadino, decisamente meno problematica di quella di Rousseau che – proprio sulla base delle esperienze calviniste, che aveva potuto osservare da vicino nella sua Ginevra – era ben consapevole dei rischi legati ad una fede esclusiva e dispotica. Di tale contraddizione Hegel non sembra affatto rendersi conto negli anni d’immediata adesione alla Rivoluzione. Solo in seguito alla presa di coscienza degli esiti terroristici della dittatura giacobina, egli metterà da parte – nei manoscritti di Berna – questo interesse per la religione popolare, cercando rifugio nel più rassicurante ambito trascendentale della religione razionale kantiana.

Prima di passare a questa fase ulteriore della riflessione hegeliana sulla religione è importante provare a fissare le conquiste teoriche maggiormente rilevanti di questi anni di Tubinga, soprattutto per ciò che concerne la formazione della concezione hegeliana del tragico. Lo svolgersi impetuoso degli avvenimenti sul proscenio della storia mondiale non manca di riverberarsi sulla concezione del tragico del giovane Hegel, che subisce, proprio alla luce di questi eventi, una trasformazione profonda rispetto al periodo di Stoccarda. Il piano esistenziale è l’unico a non apparire toccato da questo radicale sconvolgimento, dato che non v’è traccia nei manoscritti tubinghesi di una crisi personale prodotta dagli eventi decisamente drammatici d’oltre Reno e, in un primo momento, almeno fino alla piena presa di coscienza della drammaticità degli eventi francesi, non sembra scalfita neppure l’idea del progresso storico. Tuttavia, alla linearità della precedente concezione illuminista si viene sostituendo l’idea del salto qualitativo, della rottura rivoluzionaria. Proprio la consapevolezza che la radicale cesura rivoluzionaria debba svilupparsi e conquistare progressivamente i più diversi settori dell’attività spirituale [4] e, ancora di più, le regioni che come la Germania ne sono state toccate in maniera solo liminare, porta Hegel a mettere in dubbio la sua concezione sostanzialmente priva di contraddizioni dell’epoca moderna. La presa di coscienza, poi, di tutti i problemi che lo sviluppo storico incontrava nella stessa Francia, lo dovevano condurre a riflettere sulla drammaticità del processo attraverso il quale la ragione si era venuta affermando sulla “positività” nel mondo moderno.

La visione solare e fondamentalmente ottimista della concezione tardo illuminista del periodo di Stoccarda comincia a macchiarsi di zone d’ombra. L’istanza herderiana che porta il giovane Hegel a dubitare di ogni razionalistica filosofia generale dell’umanità e a sospettare delle troppo facili generalizzazioni di categorie sovrastoriche, che pretendono di essere valide nei più diversi contesti, si fa sentire anche qui; essa, nondimeno, lo stimola a una maggiore attenzione per l’analisi fenomenologica e via via anche filologica, fondata sulla necessità di salvaguardare gli irripetibili tratti peculiari delle diverse nazioni, o meglio popoli, che si affacciano sul palcoscenico della Weltgeschichte [storia del mondo, storia universale]. Non si tratta più per il giovane Hegel di assimilare in maniera sostanzialmente passiva, di prendere atto di un rivolgimento del pensiero e poi anche politico avvenuto in un passato, per quanto prossimo, ma di partecipare attivamente, benché in maniera critica, alla drammatica lotta che la ragione stava conducendo contro la positiva tradizione storica. Si tratta di un conflitto dall’esito non più garantito in partenza, come aveva in qualche modo preteso certa visione della storia di stampo illuminista o anche l’attesa pregna di aspettative escatologiche [Erwartung] del movimento culturale protoromantico dello Sturm und Drang [tempesta e impeto], alla cui influenza Hegel non aveva potuto sottrarsi. Al mito di un inarrestabile progresso dell’assetto politico, fondato sulla diffusione dei lumi nelle classi dirigenti, fa ora seguito la più realista, anche se non priva di elementi utopici, idea di un cammino che l’umanità è destinata a compiere in direzione della piena realizzazione della ragione. La meta di questo processo deve restare necessariamente indeterminata, dato che questo stesso fine supremo, in seguito alla ricezione della filosofia critica, assume sempre di più nella sua stessa struttura la configurazione del “dover essere” [5].

Dal punto di vista della riflessione, a questa problematizzazione della visione della storia, fa riscontro il progressivo entrare in rotta di collisione di due fondamentali acquisizioni teoriche alle quali Hegel, almeno per il momento, non sembra in grado di rinunciare. Da una parte vi è la sostanziale accettazione della prospettiva della filosofia critica, per cui le strutture dell’Io trascendentale sono considerate una conquista incontrovertibile ed in qualche modo definitiva, tanto che egli non ritiene necessario un loro ulteriore approfondimento. Dall’altra vi è l’acquisizione, teoretico-esistenziale della tortuosità del processo di progressivo sviluppo della cultura nel mondo positivo, le cui svolte impreviste e l’esigenza sempre più fortemente avvertita di lasciarne aperti i risultati, lo inducono a ritenere l’affinamento ed il pieno dispiegamento dell’analisi storico-fenomenologica un compito impellente. L’oggettiva difficoltà dovuta all’esigenza di tenere insieme questi due elementi [6] porta Hegel, non ancora in grado di mediarli teoreticamente, a oscillare tra la decisa critica del positivo – inteso come il puramente altro da sé, nella prospettiva della ragione pura pratica – e la necessità di una critica del presente, che lo costringe a fare i conti, a calarsi sul piano fenomenologico, nel territorio dello “storico pensante”, in cui la purezza dei princìpi è messa costantemente a repentaglio da un’esigenza di realismo e di critica dall’interno del mondo fenomenico, progressivamente avvertita come imprescindibile.

Note:

[1] Su questa problematica ha osservato Janicaud: “il paradosso della bella libertà greca sta in questo enigma di una tekne che, pur realizzandosi secondo le sue peculiarità si fa trasparente alla physis, di modo che può affermarsi l’impressione che la natura non ha cessato di parlare di se stessa, senza essere stata provocata o sollecitata.” Janicaud, Dominique, Hegel et le destin de la Grèce, Paris, Vrin 1975, p. 43.

[2] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 110, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 197.

[3] Da ciò derivava, inoltre, l’esigenza pedagogico-politica, fondata sul “ripristino non già di particolari «contenuti» delle civiltà passate, bensì del valore vivificante della convinzione interiore, della loro rispondenza completa, forte e coerente nel tempio del cuore e dei sentimenti umani” (Lacorte, Carmelo, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 247), che così tanta influenza avrà sia su Schiller, che su Hölderlin e Hegel.

[4] Si affaccia così anche in Hegel il tema della Erwartung [attesa pregna di aspettative escatologiche], che caratterizza l’intero Sturm und Drang [movimento culturale protoromantico]. Questo concetto “traduce in termini di spiritualità – e in ciò consiste la sua peculiarità oltre che il suo limite – le varie esigenze e i diversi conati verso l’edificazione di una nuova realtà umana, nella sua complessiva articolazione spirituale: religiosa ed artistica, filosofica, pedagogica, politica, ecc.” Id., Il primo…, op. cit., p. 180. Come nota Rosenzweig: “le idee rivoluzionarie dovettero subire una notevole trasformazione nelle loro menti, nelle quali si incontravano le forze liberate dallo Sturm und Drang e l’ideale classico al suo sorgere.” Rosenzweig, Franz, Hegel e lo stato [1920], ed. italiana a cura di Bodei, Remo, Il Mulino, Bologna 1976, p. 35.

[5] Come ha ben visto Lacorte: “L’ideale della Volksreligion [religione popolare] non è però concepito come la soluzione che ripristina la vita di quelle comunità primitive – la quale è per Hegel storicamente scontata ed irriproducibile – né, tanto meno, come l’esperienza del misticismo (valida per il singolo e rinunciataria di fronte al complesso delle religioni che legano l’uomo alla società); ma piuttosto come il risultato storico di una escatologia umana da cui l’uomo riesca conciliato con se medesimo” Lacorte C., Il primo…, op. cit., pp. 34-55. Non ci appare condivisibile, invece, la contrapposizione posta dallo stesso interprete tra la concezione della religione kantiana e quella hegeliana: “la riduzione, e non il semplice accordo, della religione alla morale, e di questa alle strutture trascendentali ed eterne, valide per ogni tempo e luogo, del soggetto umano, donde all’ideale religione il carattere di meta, ognor più prossima e mai completamente realizzata, delle aspirazioni dell’uomo ad una società perfetta, attraverso l’incessante progredire delle idee e degli istituti; e insomma la filosofia della storia del criticismo, che indirizza e sostiene la corrispondente filosofia della religione, non è in linea con gli orientamenti fondamentali di Hegel, per il quale il soggetto della religione non è l’individuo singolo, né l’uomo come genere, ma la collettività storicamente individuata di un popolo, di una comunità che vive in un’epoca determinata. (…) l’ideale religioso si è anzi già più volte, storicamente, realizzato, fosse esso il cristianesimo evangelico delle prime comunità cristiane o il politeismo pagano del popolo greco” Lacorte C., Il primo…, op. cit., p. 226. In effetti, da nessun manoscritto composto nel periodo di Tubinga emerge l’idea di una realizzazione storica dell’ideale nel cristianesimo primitivo, né ci pare che Hegel veda nel mondo greco una piena realizzazione positiva dell’ideale, quanto piuttosto un suo manifestarsi esemplare. In altri termini, non si dà opposizione tra le analisi storico fenomenologiche di Hegel e la riflessione trascendentale di Kant, almeno nelle intenzioni del primo, per il quale le credenze religiose sono da considerare come indissolubilmente legate al grado di incivilimento spirituale di un popolo storico – un po’ sulla linea dell’Educazione del genere umano di Lessing.

[6] Si tratta, del resto, di una problematica ben presente nello stesso Kant e che non mancherà di ripresentarsi a diversi livelli di sviluppo del sistema hegeliano.

19/05/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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