Il contraddittorio sviluppo del socialismo in un solo paese

Dalla nuova politica economica al degenerare della lotta all’interno del PC dell’Urss.


Il contraddittorio sviluppo del socialismo in un solo paese Credits: http://www.boutiquemilitairequebec.com/nouveau/drapeaux/pages/urss.htm

1. La nuova politica economica (la NEP 1921)

Lo stato di eccezione, che aveva giustificato le misure draconiane del comunismo di guerra, tende a venir meno con la vittoria dei rivoluzionari nella guerra civile di contro alle forze nazionali e internazionali della contro-rivoluzione. Nel marzo del 1921 Lenin, dopo una lunga e complessa lotta politica condotta come al solito inizialmente da posizioni minoritarie, riesce a far approvare dalla maggioranza del partito rivoluzionario, in cui era ancora ben saldo il centralismo democratico, la NEP, ovvero la Nuova politica economica.

Lenin è, infatti, convinto che non si possa passare allo sviluppo di un’economia socialista nelle campagne senza aprire un terribile conflitto con i tantissimi piccoli proprietari agricoli che si erano venuti affermando proprio con la rivoluzione che aveva redistribuito la terra ai contadini che la lavoravano. Questi ultimi non dovevano, secondo la decisa presa di posizione di Lenin, essere espropriati con la forza dalla proprietà della terra che lavoravano e di cui si erano infine appropriati, ma dovevano essere convinti dai rivoluzionari che dovevano fargli comprendere i vantaggi della collettivizzazione per lo sviluppo di un’agricoltura moderna e produttiva. Tuttavia, per essere efficace, tale opera di convincimento non poteva basarsi esclusivamente su argomenti idealistici, ma doveva necessariamente esser fondata su solide basi materialistiche.

In altri termini, Lenin si rende conto che per affermare la transizione al socialismo nelle sconfinate e arretratissime campagne del paese dei soviet – devastate prima dalla Grande guerra e, quindi, dalla Guerra civile – era prima necessario sviluppare un’industria pesante in grado di fornire le macchine agricole necessarie a un più razionale e intenso sfruttamento della terra che rendesse conveniente anche agli occhi dei contadini, naturalmente e tendenzialmente scettici, la collettivizzazione. Quindi, sino a che non si fossero realizzati questi presupposti materialistici, indispensabili ad affermare il modo di produzione socialista con il consenso della maggioranza degli agricoltori, era necessario raggiungere un compromesso, per quanto avanzato, fra il vecchio e il nuovo ossia tra un’economia contadina che tendeva a svilupparsi spontaneamente in senso piccolo-borghese e l’esigenza di affermare anche fra le masse agricole l’esigenza di una reale adesione al socialismo.

In questa fase così delicata di transizione era necessario non solo consentire lo sviluppo del commercio dei piccoli produttori agricoli ma anche, per contrastare il diffondersi del mercato nero e della tendenza dei contadini a produrre esclusivamente per l’autoconsumo, liberalizzare in modo relativo e regolamentato il sistema economico per favorire gli investimenti esteri indispensabili per far ripartire l’arretrata industria del paese pesantissimamente provata dalle guerre e dall’embargo imposto dai paesi imperialisti.

Lenin era pienamente consapevole della tragicità di tali drammatiche scelte che costituivano un netto arretramento di contro al disperato slancio soggettivistico in avanti del comunismo di guerra. Al punto che Lenin non solo riflette, ma apre il dibattito all’interno delle forze rivoluzionarie sulle conseguenze tragiche che avrebbe prodotto questo ripiegamento del processo rivoluzionario su una sostanzialmente inedita forma di capitalismo di Stato. Lenin era dunque consapevole che questa inattesa situazione in cui lo Stato posto, grazie alla rivoluzione, sotto il controllo delle classi subalterne attraverso il governo della loro avanguardia, organizzata nel partito rivoluzionario, doveva riuscire nella difficile impresa di riuscire a domare e a indirizzare in vista di una ripresa del processo di transizione al socialismo, gli animal spirits della società civile che la NEP aveva tanto involontariamente quanto necessariamente contribuito a rilanciare.

Il ripiegare sullo sviluppo di un contraddittorio sistema misto, in cui elementi del modo di produzione socialista avrebbero dovuto convivere conflittualmente con elementi del modo di produzione capitalistico avrebbe comportato un riacutizzarsi della lotta di classe, dal momento che la ritirata strategica delle forze rivoluzionarie avrebbe consentito un rafforzarsi e riorganizzarsi delle forze più o meno consapevolmente contro-rivoluzionarie, appena sbaragliate nella lunga e travagliatissima guerra civile. Si tratta, dunque, agli occhi di Lenin, di una spaventosa e al contempo necessaria tragedia storica, che richiede il massimo impegno delle forze rivoluzionarie per impedire la possibile e incombente instaurazione di una società capitalista.

Grandezza e limiti della NEP

I piccoli proprietari nelle città e, soprattutto, nelle campagne potendo vendere direttamente il surplus prodotto tendono ad affermarsi insieme alle illusioni della piccola borghesia. Ancora più pericolosa per la sopravvivenza della transizione al socialismo era poi la relativa liberalizzazione economica indispensabile per attrarre gli irrinunciabili investimenti esteri per aggirare, per quanto possibile, l’embargo e lo stato di assedio imposto dalle potenze imperialiste. In tal modo la piccola borghesia, a partire dai Kulaki nelle campagne, conosceva un momento di oggettivo slancio che rischiava di mettere in discussione la ancora incerta capacità di egemonia del blocco sociale subalterno affermatosi grazie alla Rivoluzione. Perciò era essenziale, secondo Lenin, che lo Stato socialista rimanesse il principale soggetto economico, mantenendo ben salda nelle proprie mani la gestione della grande industria – a partire dal settore elettrico e siderurgico – e il pieno controllo del sistema bancario e creditizio.

Nonostante le accuse di tradimento rivoltegli contro dai settori più estremistici e utopisti delle forze rivoluzionarie Lenin riesce a vincere quest’ultima e particolarmente sofferta battaglia, tanto da far accettare alle forze dei rossi – galvanizzate dall’epocale vittoria nella guerra civile pur a fronte dell’attacco diretto e indiretto delle potenze imperialiste straniere – questa parziale e necessariamente tragica restaurazione del capitalismo, come un’indispensabile misura transitoria imposta dallo stato di necessità, che sarebbe stata però senza alcuna remora abbandonata appena lo sviluppo delle forze produttive del paese – in primo luogo industriali, conditio sine qua non dell’affermazione del socialismo nelle campagne – lo avrebbero infine consentito. Tali drammatiche misure di politica economica finirono con l’apparire necessarie alla maggioranza delle forze rivoluzionarie anche a causa del pessimo raccolto del 1921 che aveva prodotto, in campagne già durissimamente provate dai precedenti conflitti, una spaventosa carestia. Da quest’ultima il paese riuscirà a venir fuori, riconquistando e arrivando a superare finalmente i livelli produttivi pre-bellici.

Sia detto per inciso, tale senso della tragicità di questa parziale reintroduzione di un sistema misto, di questo inedito ibrido che Lenin stesso a più riprese ha definito capitalismo di Stato, manca del tutto tanto negli apologeti della nuova politica economica intrapresa dai paesi tutt’oggi autodefinitisi in transizione al socialismo, quanto nei loro inflessibili e spietati critici “da sinistra”.

2. Il complesso e contraddittorio processo di costruzione della democrazia sociale in un solo paese

Dal punto di vista socio-politico le forze rivoluzionarie, non intimorite da questa ripresa delle forze controrivoluzionarie, proprio per non dargli il tempo necessario a riorganizzarsi pienamente, procedono spedite nel dare nuove forme istituzionali d’ispirazione socialista al paese. Sono così infine spazzate via le arretratissime strutture semi-feudali ancora dominanti nelle sconfinate campagne del paese della rivoluzione, si afferma quantomeno a livello giuridico la piena uguaglianza di tutti i cittadini e le cittadine, il posto di lavoro diviene un diritto del cittadino sovietico, come l’assistenza sociale e il diritto a un’istruzione gratuita e di massa.

Per la prima volta nella storia, le forze al governo di un paese mirano apertamente a realizzare, nonostante le tragiche contraddizioni della fase storica, una democrazia sociale ed economica. Sorge a tal proposito nel 1922 l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss), che costituisce a sua volta un evidente passo indietro rispetto alla precedente Repubblica socialista federativa sovietica, imposto dalla recrudescenza della guerra di classe con le forze interne ed esterne della controrivoluzione, fatto però come ripiegamento necessario al rilancio del processo rivoluzionario.

Tale forma maggiormente centralizzata e, dunque, meno libertaria di unione di repubbliche socialiste sovietiche mantiene a ognuna di esse la propria costituzione, puntando a una maggiore centralizzazione dei settori strategici della difesa, dei rapporti con l’estero, dei trasporti e della pianificazione economica. Delle assemblee popolari, dei consigli dei lavoratori, i Soviet, sono gli organi deliberanti a tutti i livelli; dalla singola circoscrizione, dal singolo posto di lavoro i ceti popolari eleggono dei rappresentanti nei soviet di comune, di regione e di repubblica e da qui si passa al Soviet dell’Unione, principale organo legislativo dello Stato rivoluzionario. D’altra parte, però, il permanente stato di assedio imposto dal nemico di classe esterno e il volontarismo utopistico di troppi giovani rivoluzionari convinti di poter procedere a tappe forzate, con impeto soggettivo, verso l’estinzione dello Stato porta al progressivo indebolimento delle strutture deliberative dal basso e di questa forma consiliare di democrazia diretta.

Dovendo difendere il paese dei soviet dinanzi al costante stato d’eccezione imposto dalle potenze imperialiste, che minacciano di continuo la sopravvivenza stessa del paese e l’illusione di poter forzare in modo dirigista il processo di transizione alla società socialista, finiscono con il rafforzare il primato degli organi esecutivi, che producono un progressivo accentramento dei grandi processi decisionali prima nel Presidium del Soviet supremo e poi nel Politburo e nell’Ufficio del comitato centrale eletto dopo la rivoluzione, di cui facevano parte Lenin, Sverdlov, Trockij e Stalin. Nel frattempo, a marcare sino in fondo la rottura con l’impero zarista, diviene capitale la città di Mosca, posta in una zona più centrale rispetto alla periferica Pietroburgo, simbolo dell’autocrazia zarista.

La lotta fra la linea di Stalin e quella di Trockij

La situazione all’interno del partito comunista – che con il passare del tempo sempre più decisamente sostituisce la propria dittatura a quella del proletariato, che si sarebbe dovuta affermare mediante il potere dal basso dei soviet – tende a trascendere dopo che un attentato terroristico di esponenti anarchici dei populisti di sinistra ferisce gravemente Lenin, considerato responsabile della firma del trattato di pace di Brest-Litovsk che era costato la perdita di molti territori che avevano fatto parte dell’impero zarista. Il vuoto di potere che si viene a creare dopo che il più significativo e carismatico dirigente rivoluzionario è impossibilitato a svolgere la sua funzione dirigente – decisiva per mantenere unito il partito nonostante l’accesa dialettica interna che lo anima – inizia il confronto che si muta sempre più in scontro per la linea da dare al partito e, attraverso di esso, all’intero paese.

Continua nei prossimi numeri

15/09/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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