La coscienza infelice

Concludiamo la trattazione del secondo capitolo della Fenomenologia dello spirito dedicato all’autocoscienza affrontando la celebre figura della coscienza infelice


La coscienza infelice Credits: https://borderonline.it/2017/12/06/la-dialettica-servo-e-padrone-di-hegel-di-enrico-nascimbeni/

Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi

Segue da: Fenomenologia dello spirito VI parte

Lo scettico finisce, paradossalmente, proprio con il dipendere da quelli stessi contenuti esteriori che ritiene di aver ridotto a nulla

Se lo scettico arriva a giudicare di nessun valore il contenuto stesso dell’autocoscienza – dal momento che essendo quest’ultima la fonte di ogni verità è la sola realtà sostanziale, mentre i suoi contenuti transeunti e sempre mutevoli sono meri fenomeni, propri dell’ambito non scientifico delle opinioni soggettive – si genera la contraddizione fra la sua certezza di essere la sola origine della verità e il suo costante avere a che fare con contenuti che non può che ritenere, in sé, nulli. Così come il soggetto trascendentale, l’Io di Fichte quale principio primo della Dottrina della scienza, finisce inconsapevolmente per auto-negarsi risultando, a un’analisi più attenta, dipendere costantemente dal non-Io che deve negare per affermarsi come assoluto, così lo scettico dipende dai contenuti esteriori che non fa che ridurre a nulla dinanzi all’unico elemento stabile e immutabile della forma dell’autocoscienza.

Inoltre, così facendo, altrettanto contraddittoriamente lo scettico da una parte considera nullo ogni contenuto dell’autocoscienza, ma dall’altra pretende che il contenuto della sua asserzione, dell’asserzione della propria autocoscienza sia vero. In altri termini, dubitando di tutto, lo scettico dovrebbe altrettanto necessariamente dubitare del proprio stesso atteggiamento scettico, in quanto non può che essere anch’esso un contenuto dell’autocoscienza, che come tale ha considerato nullo.

La coscienza infelice

Dunque l’autocoscienza scettica si scopre da una parte come superiore a ogni determinazione – dal momento che quest’ultima è tale solo in quanto è una determinazione dell’autocoscienza – ma, d’altra parte, è sempre impegnata a negare tutto ciò che è determinato, perché in quanto tale non è assoluto, ma un semplice particolare, finito, mutevole, transeunte e, perciò, inessenziale, accidentale. Tale contraddizione è risolvibile solo superando l’autocontraddizione di cui rimane prigioniero lo scettico, che non è in grado di superarsi nella successiva figura – sia dal punto di vista logico che storico – ovvero nella coscienza infelice propria del cristiano. Quest’ultimo per superare la contraddizione dello scettico tiene per sé il lato accidentale, mutevole, finito ed empirico e proietta in un assoluto al di fuori e al di sopra di sé il momento opposto della libertà assoluta, che lo scettico aveva confinato nella propria autocoscienza soggettiva.

Questo è il fondamento del sorgere di una nuova figura della storia della maturazione della coscienza sino a raggiungere il sapere assoluto, una figura corrispondente all’esperienza storica e spirituale del cristianesimo. All’interno di questa nuova figura, che fa da termine medio fra il necessario dissolversi del mondo antico e l’affermarsi del mondo moderno, la coscienza divenuta necessariamente misera e infelice, per la crisi strutturale e irreversibile del proprio mondo storico. Perciò non può che cercare una consolazione nel rapporto che istituisce con un assoluto in cui ha ipostatizzato, nell’assolutamente altro da sé, quella libertà che aveva conquistato, ma che subito dopo aveva nuovamente perduto nel mondo storico. All’auto-dissolversi del mondo antico seguono, infatti, secoli bui in cui l’intera civiltà umana non solo non si sviluppa più, ma tende – in particolare nel mondo occidentale – a perdere il patrimonio teorico e fattuale che aveva precedentemente acquisito.

Le radici ebraiche dello spirito del cristianesimo

Così il primo momento della nuova figura ci appare come un ricadere indietro, in quanto la coscienza non ha ancora tesaurizzato consapevolmente i momenti precedenti, e non comprendendo di essere giunta a un livello superiore della spirale – che rappresenta lo sviluppo storico e spirituale della coscienza – ha l’impressione di essere retrocessa a un momento antecedente, nel caso specifico allo spirito dell’ebraismo. Quest’ultimo, in effetti, è la base religiosa e storica del cristianesimo che ne rappresenta, in un primo momento una riforma. Perciò, all’origine del cristianesimo, come nell’ebraismo, l’uomo dipende ancora compiutamente da un signore onnipotente e a lui assolutamente estraneo, con il quale non può, dunque, stabilire un rapporto di reciprocità, di amore, ma soltanto di soggezione. Dal momento che, per uscire dalla contraddizione in cui si era cacciato lo scetticismo, il cristiano aveva separando nel modo più netto gli opposti, tenendo per sé, in quanto soggettività particolare, mutevole, transeunte e finita l’aspetto accidentale e proiettando in un assoluto ipostatizzato e completamente estraneo a sé il sostanziale, l’infinito, il perfetto e vero. Fra questi due termini opposti la prima relazione che si riuscirà a stabilire non potrà che essere un rapporto del tutto ineguale, in cui il riconoscimento è solo unilaterale, un rapporto assimilabile, sebbene in un grado superiore, a quello fra servo e padrone. Qui al posto del servo abbiamo la creatura e al posto del padrone il creatore, ma la prima si autodefinisce come serva della seconda, cui si rivolge con il termine di mio Signore. E mentre la prima riconosce la seconda come fonte di verità, la creatura non è riconosciuta come tale nemmeno da se stessa.

La tragica esperienza delle crociate

Successivamente l’assolutamente altro da sé della coscienza infelice viene tolto da questa distanza infinita, concretizzandosi, determinandosi, ovvero incarnandosi in un uomo. In quest’ultimo, però, si ripresenta – anche se a un livello superiore – la contraddizione dello scettico, poiché è al contempo vero uomo (in quanto Gesù di Nazareth) e vero dio (in quanto Cristo). Tuttavia, la pretesa del cristianesimo di poter attingere l’assoluto, di poterlo cogliere in un essere determinato, nel Gesù storico, è inevitabilmente – in quanto auto-contraddittoria – destinata al fallimento. Come hanno dimostrato definitivamente la tragica esperienza delle crociate e come già era stato preannunciato nel racconto evangelico nella storia delle tre Marie che si erano recate al sepolcro, volendo onorare il cadavere di Gesù, mentre quest’ultimo in quanto Cristo non può permanere nel mortum, ma è necessariamente risorto a nuova vita. Così anche i crociati, nonostante gli innumerevoli sforzi e gli altrettanto inutili massacri, conquistata Gerusalemme non troveranno altro che un vuoto sepolcro, visto che l’assoluto non può che essere vivente. In tal modo faranno la tragica esperienza che l’assoluto non può essere condannato a rimanere prigioniero di un individuo storico vissuto secoli fa che, in quanto tale, del resto, non può che rimanere troppo distante dalla coscienza umana, che permane così nella propria infelicità. Tanto più che la religione – dal latino religo, che sta a indicare il legame fra uomo e dio – tende a svilupparsi solo con il progressivo riconoscersi dell’uno nell’altro, in modo da superare l’antico rapporto dell’ebraismo fra servo e signore e stabilire un rapporto di amore e di comunione reciproca.

La mistica medievale

Perciò il cristiano non arriva sino a cogliere l’assoluto nell’idea speculativa – in cui il soggetto umano e l’oggetto divino finalmente arriveranno a fondersi, a realizzarsi nella totalità, che non può che essere sempre un soggetto-oggetto – ma resta, in primo luogo, all’esperienza della devozione. In essa il fedele cerca di togliere se stesso, di superare i propri limiti, la propria determinazione nell’assoluto indeterminato che tende a divinizzare, in quanto lo ha posto come l’assoluto altro da sé. Tale esperienza – a-criticamente riproposta, ai tempi di Hegel, dal secondo romanticismo – è definita in termini polemici dal filosofo come un vago e sentimentale pensare in modo astratto, indeterminato, musicale, un mero brusio di campane, in cui inevitabilmente si risolve la calda nebulosità della mistica medievale. L’esperienza è però in sé costruttiva, in quanto il soggetto impara così ad astrarre dal quotidiano transeunte, dall’accidentale per ritrovare l’essenziale, la propria essenza sebbene estraniata. Ma pretendendo di astrarre da tutto per ristabilire un rapporto con l’intrasmutabile, finisce per ritrovare unicamente la sua vuota autocoscienza, una pura forma che rifiuta ogni contenuto in quanto ha paura, determinandosi, di smarrire la propria purezza. Sembra una ricaduta nello scetticismo, ma siamo comunque a un livello superiore. L’autocoscienza, infatti, non ha più contenuti estrinseci, ma cerca un contatto con l’intrasmutabile che, però, per quanto non ne sia consapevole, non è altro che se stessa. Così l’intrasmutabile o resta vuoto e indeterminato, in quanto totalmente altro dalla coscienza infelice o è questa stessa coscienza infelice, quindi qualcosa di soggettivo, finito, transeunte che non può soddisfare la brama di assoluto dell’autocoscienza.

Il cristianesimo operativo nell’esperienza storica del calvinismo

Dinanzi a questo scacco della mistica medievale la coscienza, divenuta consapevole dei limiti della propria attitudine puramente contemplativa, di fuga dal determinato, dalla realtà, cerca la soluzione nell’attitudine opposta. La coscienza diviene attiva in particolare nell’esperienza storica del calvinismo in cui, sebbene tutto dipenda dalla grazia divina, il cristiano deve dimostrare di essere fra i pochi eletti, mediante il successo attraverso l’impegno nella società civile. Si forma così in nuce quello spirito imprenditoriale per cui, non a caso, il modo di produzione capitalistico si affermerà in primo luogo proprio nei paesi calvinisti, dove per altro tende anche a svilupparsi nella sua forma più pura.

D’altra parte, come mostra Hegel, neanche il cristianesimo operativo del calvinismo è in grado di superare la distanza fra uomo e dio e portare così a compimento il percorso religioso, in quanto il prodotto dell’agire umano è reso solo a parole, nel rendimento di grazie a tavola, all’intrasmutabile. Dinanzi a questa tavola riccamente imbandita, opera dell’infaticabile impegno del calvinista nella sfera dei bisogni all’interno della società civile, il soggetto si sforza di togliere la propria limitatezza riconoscendo che il proprio successo non è merito proprio, ma unicamente dell’elezione divina di cui non si può che rendere grazie. D’altra parte tale assoluta dedizione del calvinista finisce per mostrare la sua vera natura o tentando vanamente di occultare agli altri la propria attitudine ipocrita – in quanto in cuor suo l’uomo di successo nella società ringrazia in realtà il proprio ego – o si mostra essere un’ulteriore esasperazione della scissione della coscienza infelice. Nel calvinismo più bigotto si mantiene la più cieca fiducia che tutto è sempre e solo il prodotto di dio, ovvero dell’assolutamente altro da sé.

L’ascetismo

Tale infelicità della coscienza cristiana raggiunge il suo culmine nell’opposta esperienza dell’ascetismo. Per cui all’esperienza operativa del calvinismo, una volta emersa la sua ipocrisia, il suo restare sempre più prigioniera dell’affermazione del proprio sé nell’ambito finito della società civile, succede la tendenza a fuggire da questo mondo per ristabilire un puro rapporto con il divino. Si afferma così l’ascetismo, in cui ci si distacca da ogni piacere o desiderio che ci lega al mondano, per potersi dedicare unicamente a sviluppare il rapporto con l’intrasmutabile. In realtà anche nell’ascetismo tende a nascondersi un’attitudine fondamentalmente ipocrita, in quanto l’eremita invece di seguire l’unico comandamento lasciato dal Cristo ai suoi discepoli, ossia di amare il proprio prossimo come se stessi, è tutto concentrato su se stesso, sull’ammirazione della propria anima bella, ossia rivolge tutte le proprie attenzioni alla contemplazione del proprio ombelico.

Continua nel numero 249

24/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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