La parabola dell’economia politica – Parte X: Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita

I capitalisti commisurano il plusvalore estratto non al solo capitale variabile, ma a tutto il capitale: in tal modo il plusvalore si trasforma in profitto. Avvicinandoci alla complessità del reale e alla concorrenza fra diversi capitali si vede che il plusvalore viene ripartito fra i capitalisti di tutti i comparti, produttivi e improduttivi, in ragione all’incirca proporzionale al capitale anticipato. I prezzi che ne scaturiscono differiscono dai valori, ma è la legge del valore a determinarli con le opportune mediazioni.


La parabola dell’economia politica – Parte X: Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita

La trasformazione del plusvalore in profitto, del saggio del plusvalore in saggio del profitto e dei valori in prezzi di produzione

Dal punto di vista dei capitalisti il risultato economico, che sappiamo scaturire dal solo plusvalore, corrispondente al lavoro non pagato, deve essere valutato in rapporto all’intero capitale anticipato e non al solo capitale variabile. Lo scopo del capitale è la sua autovalorizzazione, e la si misura confrontandola con tutto il capitale. Diviene perciò, da quel punto di vista del capitale, cruciale il saggio di incremento del capitale, ΔD/D. Il plusvalore, in quanto rapportato all’intero capitale prende così la forma di profitto e l’efficienza delle imprese è misurata dal saggio del profitto, cioè il rapporto fra i profitti realizzati e tutto il capitale anticipato. Tale rapporto è espresso dalla seguente relazione

r=pv/(c+v)            (1)

dove r è il saggio del profitto, c il capitale costante, v il capitale variabile, e il profitto in questa fase dell’analisi viene identificato con il plusvalore, pv. Questa relazione produce l’illusione che tutto il capitale, e non solo la forza-lavoro, contribuisca a produrre profitti.

Essendo questa la misura del rendimento di un capitale, i capitalisti cercheranno di investire i loro capitali nei settori che consentono di realizzare il maggiore saggio del profitto, che comporta, a parità di valore del capitale anticipato, anche maggiori profitti assoluti. Questa tendenza fa sì che accresca la competizione fra i capitali allocati nei settori maggiormente profittevoli, con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti di quei settori, determinando una tendenza alla diminuzione dei valori di mercato dei rispettivi prodotti e quindi dei corrispondenti profitti e un aumento in quelli dove invece la competizione va diminuendo. Naturalmente, non sempre è possibile spostare capitali da una sfera a un’altra della produzione, e sussistono ostacoli di varia natura a questi spostamenti, ma ciò non toglie che l’aspirazione di ogni capitalista sia di operare nei settori più remunerativi. Perciò si viene realizzando una tendenza alla formazione di saggi del profitto più uniformi possibile fra i diversi settori. Questo almeno in regime di concorrenza in quanto il monopolio consente saggi del profitto più differenziati. Non di meno anche nelle imprese monopolistiche il risultato viene rapportato all’intero capitale e non al solo capitale variabile e quindi anche i prezzi di monopolio tendono a commisurarsi al capitale complessivo investito.

Nel libro I del Capitale, viene trattato l’immediato processo di produzione e valorizzazione astraendo dalla competizione tra capitali. Pertanto, Marx non si occupa della tendenza sopra citata e ipotizza che i rapporti di scambio fra le merci oscillino intorno ai loro valori, cioè si vendano tendenzialmente a prezzi proporzionali alla quantità di lavoro astratto sociale in esse contenuto. In quella sede i prezzi sono quindi prossimi ai valori e cioè, come abbiamo visto, a c+v+pv. Tale impostazione è coerente con il metodo marxiano di analisi e di esposizione che prevede il passaggio da determinazioni più astratte a quelle più concrete.

Nei manoscritti e abbozzi per il terzo libro – pubblicati poi da Engels – avente per oggetto il processo complessivo della produzione capitalistica, Marx si deve misurare con l’operare di questa competizione e la sua ripercussione sul sistema dei prezzi.

Dal punto di vista dei capitalisti conta il saggio del profitto, ma, a parità del saggio di sfruttamento pv/v, si verificherebbe che tale saggio sarebbe maggiore nei settori a meno intensità di capitale.

Per fare un esempio, immaginiamo due capitali di identico importo, 100, ma di diversa composizione: 50c + 50v il primo, che produce vini, e 75c + 25v il secondo, che produce lampadine. Il saggio di sfruttamento è tendenzialmente uniforme fra i settori, perché i rispettivi orari di lavoro non sono molto difformi e altrettanto il costo di riproduzione della forza-lavoro (capitale variabile). Supponiamo che tale saggio di sfruttamento o saggio del plusvalore sia del 100%, cioè che la giornata lavorativa sia suddivisa esattamente a metà fra lavoro necessario e pluslavoro. In questo caso il plusvalore prodotto in ogni ramo sarebbe pari al capitale variabile in esso impiegato. In questo modo, però, i due capitali avrebbero due rendimenti diversi. Il primo realizzerebbe un profitto complessivo di 50 e un saggio di 50/100=50% e il secondo un profitto di 25 e un saggio del 25%. In queste condizioni è evidente che i capitalisti che fabbricano lampadine cercherebbero, per quanto possibile, di riallocare i propri capitali nella produzione di vini e, comunque, i capitalisti che entrano per la prima volta cercherebbero di collocarsi in quel settore. Ne deriverebbe un incremento di offerta di vini che farebbe scendere il loro valore di mercato e i profitti di quel settore, e una diminuzione di offerta di lampadine con conseguente aumento del loro prezzo e dei profitti relativi. Questo movimento continuerebbe fintanto i prezzi di mercato non raggiungessero un importo tale che la differenza fra i rispettivi saggi del profitto diventassero di scarso rilievo per i capitalisti.

Marx definisce “prezzo di produzione” questo nuovo “centro di gravità” attorno a cui oscillano i prezzi di mercato. Si tratta dello stesso problema per risolvere il quale si era arrabattato Ricardo, che aveva cercato di trovare una soluzione considerando che il lavoro oggettivato nei mezzi di produzione, che egli chiama erroneamente capitale fisso, fosse stato oggettivato in epoche diverse e pertanto avesse consentito di realizzare un profitto in più cicli produttivi. In tal modo, i prezzi avrebbero dovuto tener di conto sia della quantità di lavoro complessivamente oggettivato nella merce sia del tempo trascorso dalla produzione dei mezzi di produzione. Quindi, in definitiva, per Ricardo non sarebbe solo il lavoro che determina il valore delle merci, ma anche il tempo.

Marx cerca invece una soluzione che non contraddica la legge del valore, e la individua in un meccanismo di trasformazione dei valori in prezzi di produzione che salvaguardi a livello macroeconomico le grandezze pv, c e v e con esse il saggio generale del profitto e costituisca pertanto un ponte che colleghi (faccia discendere) i prezzi di produzione ai (dai) valori.

Per prima cosa, cerca di determinare il saggio medio del profitto nella società. Essendo il plusvalore l’unica fonte del profitto, e prescindendo da altri prelievi di plusvalore, interesse, oneri della distribuzione, quali rendite e tasse, si può identificare il profitto sociale con il plusvalore sociale e quindi il saggio medio del profitto, a questo livello di astrazione, è dato dal rapporto fra plusvalore globale e capitale globale impiegato nella società che possono essere rilevati dalle sommatorie di una tabella che riassume i dati dei singoli settori. Nella (6), a differenza della (5), si usano le lettere maiuscole per indicare i valori aggregati a livello del sistema economico e non quelli del singolo capitale. Il saggio medio del profitto, r*, risulta essere

r*=Pv/(C+V)                 (6)

Questo sarà il saggio generale del profitto che si realizzerà tendenzialmente in ogni ramo produttivo. E i singoli prezzi di produzione si formano applicando tale saggio del profitto al capitale complessivo impiegato in ciascun settore.

La legge del valore non verrà contraddetta, perché le quantità aggregate rimarranno le stesse sia prima sia dopo la trasformazione, così come il saggio del profitto.

Nel caso dei due soli settori ipotizzato all’inizio (vino e lampadine), è possibile costruire una tabella simile alla seguente, ove nuovamente le lettere maiuscole rappresentano le grandezze aggregate (colonna “Totali”) e le minuscole le grandezze nei singoli settori.

 

VINO (1)

LAMPADINE (2)

TOTALI

Quantità prodotta [q]

lt. 100

50

 

Capitale costante [c]

50 c

75 c

125 C

Capitale variabile [v]

50 v

25 v

75 V

Plusvalore [pv]

50 pv

25 pv

75 Pv

Capitale complessivo [K=c+v]

100 (c + v)

100 (c + v)

200 (C + V)

Valore della produzione [W=c+v+pv]

150 w

125 w

275 W

Valore unitario del prodotto [w/q]

1,5

2,5

 

Saggi di profitto settoriali [r = pv/(c + v)]

50%

25%

 

Saggio del profitto medio [r*=Pv/(C+V)]

   

37,5%

Profitti settoriali [π=k·r*/100]

37,5

37,5

 

Prezzi di produzione [pp = c+v+π]

137,5

137,5

 

Differenza fra valori e prezzi di produz. [w-pp]

-12,5

+12,5

 

Prezzo unitario [pp/q]

1,375

2,75

 

Quindi i prezzi di produzione differiscono dai valori, ma derivano dalla loro trasformazione. Tuttavia, rimane immutato il plusvalore complessivo prodotto e la somma dei profitti realizzati è identica alla somma del plusvalore socialmente prodotto. Solo che il plusvalore non va direttamente ai capitalisti del settore in cui è prodotto, ma l’operare della concorrenza determina un trasferimento di plusvalore dal primo al secondo settore (-12,5 e +12,5 nel nostro caso). In pratica, se astraiamo da differenze dei saggi del profitto che possono permanere a causa della viscosità che ostacola il movimento dei capitali produttivi, il risultato è quello di un riparto del plusvalore globale prodotto fra i vari capitalisti in proporzione al capitale anticipato da ciascuno di essi. Quasi come se il sistema fosse una società per azioni in cui ogni azionista percepisce dividendi in proporzione al capitale posseduto. Ciò, però, non in virtù di normative o diritti innati, ma per effetto della concorrenza tra capitali. Questo risultato lo possiamo sempre ottenere anche in tabelle a più di due settori e a importi diversi del capitale in ciascun settore anticipato.

Il mercato, pur determinando prezzi che gravitano attorno quelli di produzione e non ai valori, non crea né distrugge valore, che ha origine solo dal pluslavoro, bensì si limita a ripartirlo in modo differente tra i capitalisti: i maggiori profitti dell’uno corrispondono ai minori profitti dell’altro. Tuttavia, il fatto che i prezzi di produzione siano proporzionali al capitale impiegato determina la percezione da parte degli agenti economici che il valore scaturisca dal capitale complessivo e non dal solo lavoro. Ripetendomi, come il moto di rotazione della terra determina la percezione che il sole giri intorno a essa, l’apparenza dei fenomeni non permette di percepire immediatamente la loro essenza.

Per semplificare l’esposizione non si è considerato il capitale fisso e il tempo di rotazione. Basti sapere che anche il tempo di rotazione, al pari della composizione del capitale, incide sulla formazione dei prezzi di produzione, oltre che sul saggio del profitto.

La procedura adottata da Marx ha dato luogo a una disputa iniziata con la pubblicazione del libro III del Capitale e non ancora sopita. Il rilievo che viene fatto dalle posizioni antimarxiane – e anche da alcune che, pur apprezzando Marx, equivocano nell’interpretazione della sua teoria – è che le grandezze delle merci componenti i capitali costanti e variabili utilizzate siano espresse in termini di valore. Ma anch’esse, in quanto prodotti di precedenti processi produttivi, dovrebbero essere sottoposte a un processo di trasformazione. Se il costo effettivo delle singole merci che compongono il capitale differisce dal loro valore, allora anche il saggio generale del profitto calcolato secondo il lavoro in esse contenuto potrebbe differire da quello calcolato secondo i corrispondenti prezzi. Errore, questo, che comporterebbe conseguenze, da molti giudicate irreparabili, per tutto l’impianto teorico del Capitale. Vi sarebbe pertanto una grave contraddizione logica tra il Marx del libro I e il Marx del libro III, e con ciò la sua teoria del valore e le tesi che ne discendono sarebbero inconsistenti.

Senza dilungarsi troppo nell’esporre questa complicatissima disputa, su cui torneremo più dettagliatamente dopo avere trattato le discussioni verificatesi a seguito del contributo teorico di Piero Sraffa, che ha utilizzato anche strumenti matematici di una certa complessità, è sufficiente ricordare quanto abbiamo già affermato nella parte che trattava il capitale costante e variabile, e cioè che il ciclo D-M-D’ parte dal denaro e ritorna al denaro, e che quindi il valore del capitale anticipato corrisponde al lavoro sociale rappresentato dal denaro speso per l’acquisizione di c e v. Non a caso, Marx denomina “prezzo di costo” (e non valori!) la sommatoria di queste grandezze che intervengono nella determinazione del saggio generale del profitto. In tal modo, le grandezze di c e v utilizzate in tabella sono grandezze a suo tempo già sottoposte alla trasformazione in prezzi.

Lo stesso Marx, quasi prevenendo queste critiche afferma che “la parte del prezzo delle merci che sostituisce il valore del capitale impiegato deve ricostituire questi valori capitale consumati”, ed è quindi “interamente determinata dalla spesa fatta entro le rispettive sfere di produzione” per acquisire le componenti del capitale costante e di quello variabile [1]. Inoltre, è pienamente consapevole che anche il prezzo di produzione delle merci che compongono il capitale anticipato, cioè il costo effettivo sostenuto dai capitalisti per acquistare i mezzi di produzione e la forza lavoro (prezzo di costo di C e V), può differire dal lavoro in essi contenuto:

È necessario tenere presente questo nuovo significato del prezzo di costo e ricordare quindi che un errore è sempre possibile quando, in una determinata sfera di produzione, il prezzo di costo della merce viene identificato con il valore dei mezzi di produzione in essa consumati” [2].

Tuttavia, i prezzi di produzione sono comunque dominati dalla legge del valore: variazioni nel prezzo di costo sono imputabili esclusivamente a variazioni della produttività del lavoro (variazione della produttività nel comparto produttivo dei mezzi di sussistenza, che comporta un diverso saggio del plusvalore; variazioni della produttività del lavoro nel comparto dei mezzi di produzione e conseguente diversità della composizione organica), così come le variazioni del saggio medio del profitto. A ogni modo, il prezzo di produzione è dominato dal valore, è il valore in forma più complessa, dove i produttori non sono più semplici lavoratori ma capitalisti e per loro non conta solo il capitale speso nell’acquisto di forza-lavoro, ma tutto il capitale.

Le singole composizioni organiche, le dimensioni dei capitali e la produttività del lavoro determinano la massa complessiva del plusvalore, anche se la ripartizione del plusvalore fra capitalisti avviene secondo la legge del profitto uniforme. Così il capitalista di un settore a più bassa composizione organica si ritrova a guadagnare meno rispetto al pluslavoro sottratto ai propri operai, mentre il capitalista più innovativo aggiungerebbe al plusvalore prodotto dai propri lavoratori la parte ceduta dal primo capitalista.

Ma questo “diritto” di ogni capitale a ricevere la sua quota di profitto determina una sorta di illusione ottica. I soggetti economici percepiscono che il profitto sgorga dal capitale stesso, che il capitale è produttivo, e non che il profitto consiste esclusivamente in lavoro non pagato. In ciò costituisce il feticismo del capitale.

La ripartizione del plusvalore in profitto, guadagno commerciale, interesse e rendita

I capitalisti industriali sono quelli che direttamente “succhiano” pluslavoro ai propri operai e quindi “producono” plusvalore. Non ne sono però l’esclusivo proprietario, in quanto devono ripartirlo con altri capitalisti che svolgono altre funzioni.

Guadagno commerciale

Il capitalista commerciale si occupa di vendere il prodotto in cui è fissato il valore (e quindi il plusvalore). In tal modo agevola la circolazione del capitale e ne riduce i tempi, evitando al capitalista industriale di dotarsi di una propria rete commerciale e consentendogli di specializzarsi nella sola produzione. Pertanto pretende un suo guadagno. Una quota del plusvalore gli viene quindi ceduta perché ciò conviene anche al capitalista industriale. Nel commercio il ciclo D-M-D’ avviene senza l’interposizione del processo produttivo: ci si limita a vendere la merce a un prezzo superiore a quello di acquisto e il profitto sembra sgorgare spontaneamente da semplici transizioni commerciali, senza l’intervento del lavoro. In realtà, con questa attività non si produce niente, ci si appropria semplicemente di una quota di plusvalore prodotto nell’industria.

Interesse

Il capitalista finanziario presta denaro al capitalista industriale per consentirgli di fare il capitalista anche con il denaro preso in prestito. In tal modo gli permette di fare investimenti nell’industria per renderla più competitiva o per ampliare la sua scala della produzione. Al capitalista industriale, quindi, conviene cedere a quello finanziario una parte del maggiore plusvalore che così può ottenere, sotto forma di interesse sul denaro preso in prestito, purché quello che resta all’industriale sia maggiore di quello che avrebbe potuto ottenere in assenza del prestito. In questo caso il ciclo del capitalista finanziario diviene D-D’, senza che la merce giochi alcun ruolo (presto denaro, ricevo alla scadenza più denaro). La cosa appare particolarmente miracolosa perché il denaro pare produrre denaro, avere una sua capacità produttiva e consentire di raggiungere lo scopo della valorizzazione del capitale per virtù “magiche”. In realtà, anche in questo caso, il solo lavoro produttivo produce plusvalore, di cui una parte viene ceduta al capitalista finanziario. La produzione capitalista è produzione di più denaro attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro. Il denaro da solo non potrebbe fruttare. Quindi è proprio in questa circolazione D-D’ che il feticismo del denaro e del capitale si esprime al massimo livello. 

Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine. In D-D’ abbiamo la forma empirica del capitale, il rovesciamento e la oggettivazione del rapporto di produzione alla più alta potenza: forma produttiva di interesse, la forma semplice del capitale, in cui esso è presupposto al suo proprio processo di riproduzione; capacità del denaro, ossia della merce, di valorizzare il proprio valore indipendentemente dalla riproduzione, la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente” [3].

Rendita fondiaria

Il proprietario fondiario mette a disposizione i beni immobili necessari al processo produttivo, siano essi i campi dove coltivare o allevare bestiame, oppure gli edifici in cui si effettuano le lavorazioni. Anche a lui è dovuto un compenso per questo servizio sotto forma di rendita fondiaria e qui non c’è nessuna metamorfosi: quello che si vende è l’uso temporaneo di un bene immobile il quale pure sembra possedere capacità produttive. Non vi è dubbio che la terra, la natura, insieme al lavoro, sia “madre” dei beni necessari all’uomo. Marx non ha mai negato il suo importantissimo ruolo nella produzione di valori d’uso. Però, dal punto di vista della società capitalistica, la ricchezza astratta, il valore e il plusvalore, sono prodotti unicamente dal lavoro produttivo e ripartiti fra i capitalisti. La terra non ha valore né costi di produzione, ma solo un prezzo scaturente dalle leggi di mercato.

Il plusvalore, quindi, si ripartisce fra profitto industriale, guadagno commerciale, interesse, rendita fondiaria ecc., ma è nell’azienda produttiva che esso viene prodotto a prescindere da come viene ripartito fra i vari capitalisti. Tuttavia, se ci si ferma alla superficie dei fenomeni, sembra che il capitale commerciale, il capitale finanziario e il capitale fondiario, al pari di quello industriale, abbiano una loro “produttività”, contribuiscano alla produzione e siano remunerati per questo loro contributo. Si perde così di vista il fatto che la fonte di tutti questi redditi è il lavoro non pagato, il pluslavoro.

Criticando la “formula trinitaria” di Smith, secondo cui al capitale va il profitto (“interesse” per Smith), alla terra la rendita fondiaria e al lavoro il salario, Marx rileva che in tal modo “il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato”. Tali quote della ricchezza complessiva prodotta non paiono avere niente in comune.

 “Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente a una determinata formazione storica della società. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale. [...] Viene poi la terra, la natura inorganica come tale, rudis indigestaque moles, in tutta la sua selvaggia primitività. [...] E infine, come terzo in questa alleanza, un semplice fantasma, ’il’ lavoro, che non è altro che un’astrazione, l’attività produttiva dell’uomo in generale, per mezzo della quale egli rende possibile il ricambio organico con la natura. [...] L’economia volgare non fa altro, in realtà, che interpretare, sistemare e difendere le idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l’economia volgare si senta particolarmente a suo agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto contraddittori – e ogni scienza sarebbe superflua, se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero – e che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno” [4].

 

Note:

1.Marx, Il Capitale, Libro III, Ed. Riuniti 1989, p. 199.

  1. Ivi, p. 206.
  2. Ivi, p. 465.
  3. Ivi, pp. 927-930.

 

20/05/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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