La parabola dell’economia politica – Parte XVIII: IL trattato della moneta di J.M. Keynes

Nel Trattato della moneta Keynes introduce una serie di distinguo rispetto alla teoria economica mainstream. Fra questi spicca la suddivisione dell’economia in due macrosettori nei quali il prezzo del prodotto realizzato nel mercato può non corrispondere ai costi effettivamente sostenuti, inclusa la remunerazione del capitale. La possibilità di scambi fra i settori non in grado di assicurare l’equilibrio l’aveva anticipata Marx oltre 60 anni prima.


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Proseguiamo l’illustrazione critica dell’economia keynesiana riferendo della sua prima opera importante.

Marshall, maestro di Keynes, e gli economisti della scuola marginalista si opponevano all’intervento dello Stato nell’economia. Essi temevano che tale ingerenza potesse determinare una riduzione dell’efficienza del sistema economico, mentre Keynes sollecita tale intervento.

Se, al pari degli ortodossi, ritiene che la domanda di investimenti sia influenzata dall’andamento del tasso di interesse, non condivide che la concorrenza determini movimenti di tale tasso tali da assicurare l’uguaglianza fra risparmi e investimenti e con ciò la piena occupazione dei fattori produttivi.

Il suo interesse alla distribuzione del reddito e il riconoscimento della contrapposizione di interessi tra le classi, lo avvicinano a David Ricardo e alla tradizione ricardiana. L’influenza del marginalismo però lo porta a differenziarsi dal grande economista classico e a non ammettere che i profitti derivino da una sottrazione dal valore prodotto dal lavoro.

Ogni discordanza della realtà dagli schemi paludati teoria liberale, considerato dall’ortodossia come un fatto patologico e contro la natura del sistema economico, è invece per il barone di Tilton un elemento connaturato al capitalismo maturo e se provoca effetti spiacevoli deve essere combattuto per rendere tale sistema più efficiente e più tollerabile socialmente. Tanto più che la fase sotto osservazione di Keynes vede l’irrompere dell’alternativa “bolscevica” e socialista in genere, assai temute, insieme a quella del fascismo, ugualmente non desiderata ma contro cui si accanisce di meno, probabilmente perché corrisponde di più all’idea di cooperazione fra le classi che l’economista caldeggiava e soprattutto non mette in discussione radicalmente i rapporti di produzione.

Molte novità del lascito keynesiano sono quindi dovute alle trasformazioni economiche e sociali intervenute nelle economie capitaliste del ’900. Per esempio l’importanza della rendita finanziaria nelle società moderne prevale su quella della rendita fondiaria (ma c’erano arrivati prima Hilferding e Lenin) e, al pari di quest’ultima, svolge un ruolo negativo. Anche le crescenti lotte della classe lavoratrice inducono Keynes a proporre politiche in grado di moderare queste tensioni e di ricondurle all’accettazione della logica capitalistica, in cambio della piena occupazione, di una distribuzione meno iniqua e di welfare. Queste politiche e questi obiettivi sono visti quindi come fattori stabilizzanti a salvaguardia dei rapporti sociali esistenti, al pari del corporativismo.

Come accennato nell’articolo della settimana scorsa, la prima relativa presa di distanza di Keynes dall’ortodossia neoclassica emerge nel suo Trattato della moneta [1]. In tale saggio l’analisi delle condizioni di equilibrio fra domanda e offerta utilizza la distinzione fra il settore che produce mezzi di produzione, che Keynes denomina “beni strumentali”, e quello che produce beni di consumo. Le decisioni in merito agli investimenti e alla produzione sono assunte dagli imprenditori. I costi dei “beni strumentali”, i salari e la remunerazione “normale” dei capitalisti determinano il valore della produzione e con ciò il reddito disponibile per la domanda di lavoratori e imprenditori i quali possono spenderli in consumi o risparmiarli. Le decisioni di spesa tuttavia possono non soddisfare i requisiti dell’equilibrio perché la parte di reddito indirizzata verso i consumi non dipende direttamente dal loro costo di produzione. Da qui la possibilità di una mancata corrispondenza fra il prezzo di mercato dei beni di consumo e i loro prezzi di produzione e quindi fra i profitti realizzati sul mercato e la remunerazione normale degli imprenditori del settore, con la possibilità che anche il pagamento dei salari sia precluso o che si debba dare corso a licenziamenti.

Anche nel mercato dei beni strumentali può verificarsi un analogo disequilibrio. Il prezzo di mercato di tali beni dipende infatti – lo vedremo meglio nei prossimi articoli – dalle aspettative degli imprenditori, dal comportamento del sistema bancario e da quello dei risparmiatori. Tale prezzo di mercato può pertanto divergere da quello di produzione.

Se le decisioni di risparmio e quelle di investimento vengono prese da soggetti distinti, non può essere negata la possibilità che si verifichi una discordanza fra di loro. Oltre alla possibilità di squilibri settoriali di segno opposto che si compensano fra di loro, si può verificare anche un eccesso o un difetto netti della domanda complessiva rispetto al valore di equilibrio della produzione, cioè un disequilibrio generale che può portare alla formazione di perdite.

Questo interessante aspetto della teoria keynesiana ci induce a rammentare la critica di Marx a Ricardo. Il contesto non è identico: Keynes spiega gli squilibri con la difformità dei prezzi rispetto ai redditi, Marx, nei suoi schemi di riproduzione li spiega con difformità fra le produzioni dei singoli settori, in termini di quantità e di valore, rispetto alle necessità della riproduzione sociale equilibrata. Tuttavia è evidente che le divergenze fra le quantità di merci prodotte da un settore rispetto al fabbisogno – alla domanda, quindi – dell’altro, si ripercuote nei prezzi realizzati nel mercato e quindi, nella sostanza, i due approcci si assomigliano molto e diviene difficile negare che la ripresa negli anni 30 di questa tematica da parte di Keynes prenda spunto dalla pionieristica elaborazione marxiana - magari filtrata da suoi collaboratori più edotti di tale elaborazione - che a sua volta trae ispirazione dal Tabelau économique di Quesnay.

C’è però una differenza più importante. Keynes, a differenza di Marx, e conformemente a Ricardo, distingue due casi di disequilibrio:

1) quello in cui si hanno squilibri nei due settori di eguale ampiezza e di segno opposto, che quindi si compensano e nel sistema economico nel suo insieme si verifica la condizione di equilibrio generale, investimenti uguali ai risparmi (I=S);

2) quello in cui si ha invece disequilibrio generale dovuto a una differenza netta positiva o negativa tra I e S.

Pertanto egli giunge a concludere che gli squilibri puramente settoriali tendano a scomparire, mentre il disequilibrio generale non si elimina se non intervengono altri fattori. Di diversa opinione è Marx per il quale gli squilibri parziali danno luogo a ripercussioni fra i vari settori, amplificandosi grazie a un meccanismo da egli descritto [2] – e che successivamente Keynes formalizzerà con il suo moltiplicatore ma che in questa fase della sua elaborazione, pare non prendere adeguatamente in considerazione.

Per sottolineare la differenza fra Marx e Keynes vale la pena di riportare le sferzanti parole rivolte dal primo a Ricardo, il quale ugualmente non coglieva gli effetti generali di una sovrapproduzione parziale.

“[...] anche Ricardo ammette la saturazione del mercato per singole merci [...]. L’impossibilità della sovrapproduzione non viene quindi negata per qualche sfera particolare della produzione. Essa consisterà nella [impossibilità della] simultaneità di questo fenomeno per tutte le sfere di produzione e quindi [nell’impossibilità] di una sovrapproduzione generale. [Ma la sovrapproduzione è] sempre e soltanto relativa, vi è sovrapproduzione perché vi è sovrapproduzione in altre sfere […]. Vi è quindi sovrapproduzione soltanto perché la sovrapproduzione non è universale”. Se vi fosse una sovrapproduzione nella stessa proporzione, in tutti i settori, “tutte le sfere di produzione conserverebbero il medesimo rapporto reciproco; dunque sovrapproduzione universale è lo stesso che produzione proporzionata” [3].

“Non vi sarebbe sovrapproduzione se la domanda e l’offerta si bilanciassero, se la ripartizione del capitale fra tutte le sfere di produzione fosse talmente proporzionata che la produzione di un articolo implicasse il consumo dell’altro e quindi il suo proprio consumo. Non vi sarebbe sovrapproduzione se non vi fosse sovrapproduzione. Ma poiché la produzione capitalistica non può lasciar libero corso a se stessa che in certe sfere […] non sarebbe possibile una produzione capitalistica se essa si dovesse sviluppare contemporaneamente e uniformemente in tutte le sfere […] Dunque spiegare la sovrapproduzione da una parte con la sottoproduzione dall’altra è come dire: se si avesse una produzione proporzionata non vi sarebbe sovrapproduzione […] Se la domanda e l’offerta si bilanciassero; e così se tutte le sfere implicassero le stesse possibilità di produzione capitalistica e della sua espansione […] O, ancor più astrattamente: non vi sarebbe sovrapproduzione da una parte se vi fosse uniformemente sovrapproduzione da tutte le parti. Ma il capitale non è così grande da sovraprodurre così universalmente e per questo si ha una sovrapproduzione universale” [4].

Astraendo dalla pur rilevante circostanza che per Ricardo non è possibile una sovrapproduzione generale e per Keynes sì, la critica di Marx è calzante anche nei confronti del secondo laddove sostiene la possibilità di sovrapproduzioni settoriali che si compensano senza colpo ferire.

Infine, la possibilità di squilibri settoriali lascia intuire la superiorità di un’economia consapevolmente pianificata non solo rispetto a un’economia di laissez faire pura, ma anche rispetto a un’economia in cui il ruolo dello Stato si limiti a politiche espansive di tipo keynesiano.

Note:

[1] J.M. Keynes, Trattato della moneta, trad. it. di P. Sraffa, Fratelli Treves, 1932.

[2] K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. II, ed. Einaudi, 1955, pp. 576-78.

[3] Ivi, pp. 584-5, enfasi di Marx.

[4] Ivi, p. 587, enfasi di Marx.

 

19/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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