Le illusioni del postmodernismo - terza parte

La fase economico-sociale attuale è del tutto diversa dal capitalismo moderno?


Le illusioni del postmodernismo - terza parte

Segue da Parte II.

Che cosa c’è di nuovo nel postmodernismo?

Prendo il titolo di questo rapido intervento da un capitolo del libro di Alex Callinicos intitolato Contro il postmodermismo, ma questa domanda se la pongono in molti, tra i quali mi limito a menzionare in maniera incompetente alcuni economisti, dopo aver già rammentato la nozione di “tardo capitalismo” di Madel, che sarebbe solo il frutto delle strategie per mantenere in piedi il capitalismo e contrastare le sue contraddizioni.

Secondo Callinicos l’epoca del modernismo si sarebbe sviluppata tra il 1890-1930, e sarebbe caratterizzata da un ordine dominante semi-aristocratico, una economia capitalistica semi-industrializzata e da un movimento operaio semi-emergente o semi-insorgente (per esempio, la Rivoluzione russa, i fasci siciliani).

Come Eagleton, questi autori si chiedono se le trasformazioni di cui abbiamo parlato in precedenza abbiano effettivamente significato il passaggio a una nuova società, una nuova era, o addirittura alla fine del capitalismo. Vi sono molti argomenti contro questa ipotesi.

Contro i sostenitori della fine della classe operaia, uno degli elementi costitutivi del capitalismo, Callinicos osserva che ai processi di deindustrializzazione occidentale hanno corrisposto processi di industrializzazione del Terzo Mondo, tanto che globalmente il numero dei lavoratori manuali è complessivamente aumentato.

A ciò possiamo aggiungere una riflessione di Eagleton, il quale scrive: ”Il potere del capitale ci è oggi così tristemente familiare, è così totalmente onnipotente e onnipresente, che anche larghi settori della sinistra sono riusciti a considerarlo naturale, dando per scontato che si tratta di una struttura talmente inamovibile che è quasi impossibile trovare persino il coraggio di parlarne” (1998: 35).

Seguendo sempre Eagleton, questo atteggiamento emerge dalla convinzione propria della sinistra di aver subito una gravissima sconfitta: non solo il socialismo non si è mai realizzato, è anche crollato (ci sono stati solo dei tentativi in paesi arretrati); inoltre, sempre per questi radicali, gli strumenti teorici individuati per elaborare il progetto di emancipazione universale sono tutti fallaci, tutti da buttare via. Anche pensare all'emancipazione non ha senso, perché essa rientra nella concezione occidentale del mondo (si pensi al cristianesimo), che per liberare l'uomo alla fine ha prodotto i campi di concentramento, i gulag, il disastro ecologico. Meglio ridimensionare le nostre pretese.

Al contrario, Eagleton sostiene che la rottura di fase non c'è stata e che gli strumenti teorici della modernità e del marxismo, che in essa si colloca, non sono fallaci, anche se debbono essere interpretati in modo non semplicistico e riduttivo. Inoltre, riconosce dei meriti ai postmoderni, che consistono soprattutto nella riscoperta e nella valorizzazione delle differenze.

In particolare, per comprendere questa valorizzazione, soffermiamoci brevemente sulla nozione di différance (diversa da différence) di Derrida, dotata di un significato ambiguo. Da un lato, partendo dal testualismo (secondo cui tutto è interpretazione) il filosofo francese afferma che il segno (una parola, un simbolo) non può mai cogliere nella sua totalità ciò che ha la pretesa di sostituire, dall’altro, tuttavia, rimanda, richiama inevitabilmente ciò che indica. Tuttavia, questa evocazione, questo richiamo, non potendo stabilire una relazione intima, stretta con ciò che vuol rappresentare, sottolinea solo l’assenza dell’oggetto e lo sforzo umano di riuscire a carpirne solo le tracce.

Come si vede, una posizione non fiduciosa nelle possibilità conoscitive dell’uomo, che si basa anche sulla riflessione di Nietzsche, da cui Derrida ricava la nozione di “decostruzione”, che gli consente di smembrare i vari punti di vista, le diverse interpretazioni, per mostrare come siano sempre unilaterali e nascondano sempre interessi di vario tipo. Per esempio, per il filosofo tedesco, alimento principale della cosiddetta French Theory, la morale con i suoi doveri, sensi di colpa, castighi, affonda le sue radici nella dimensione economico-giuridica, reprime pulsioni del tutto naturali, spingendo l’individuo al raggiungimento di obiettivi inappaganti e fallaci. Il suo vero scopo è di fornire al Potere i mezzi per opprimere gli esseri umani, dare un fondamento alla disuguaglianza e alla violenza, che governano le relazioni sociali.

Ritornando agli economisti, Gianfranco Pala critica l’idea che la nuova organizzazione del lavoro detta postfordista (torna sempre il post contrapposto in questo caso a fordismo) costituisca un nuovo modo di produzione, e a suo parere non rappresenta la fase conclusiva della grande produzione industriale, giacché in essa si esprime, sia pure in nuove forme, il principio generale della flessibilità (lavoro, macchine, salario) immanente al sistema capitalistico stesso. Quindi, l’economista italiano afferma che nulla di strutturalmente nuovo c’è nella Nuova Era, sbocciata dalla vecchia economia fordista di produzione di massa, concretatasi in un nuovo ordine più flessibile, basato sui computer, sull’informatica, sulla robotica e sul fatto che il sapere si è trasformato nella sua principale forza produttiva.

Un altro interessante contributo alla riflessione sulle cosiddette novità del postcapitalismo lo ricavo da una intervista a Roberto Fineschi, fatta da Ascanio Bernardeschi, di cui spero di aver capito sino in fondo il senso. Nel Capitale, opera incompiuta e in larga parte non pubblicata dallo stesso Marx, il filosofo senese individua la presenza di diversi livelli di astrazione, spesso mal compresi. Prendendo in considerazione questa sfasatura secondo Fineschi possiamo trovare la soluzione a una serie di problemi, che spesso sono stati mal formulati.

L’esempio proposto è quello dell’operaio di fabbrica concepito come l’unico vero soggetto antagonista, cui molti hanno contrapposto i protagonisti dei nuovi movimenti sociali (ecologisti, femministe, animalisti etc), i quali sarebbero i veri portatori del verbo rivoluzionario. Questa contrapposizione non ha senso se si tiene conto che, come dice Fineschi, quando Marx descrive il lavoro nelle manifatture e nelle grandi industrie, “non sta parlando solo di figure storiche (operai manuali), ma in realtà sta sviluppando una teoria delle forme del processo del lavoro all’interno del modo di produzione capitalistico, delle modalità attraverso le quali si realizza il processo lavorativo”. Prosegue Fineschi: “Tali modalità non sono necessariamente la manifattura e la grande industria, ma sono determinazioni esemplificate da queste forme, ma non solo da queste”. Esse possono essere identificate nella cooperazione lavorativa, nel contributo parziale del lavoratore al processo, nella sua subalternità, che può manifestarsi anche nella sua esclusione, all’automatizzazione, che trasforma il lavoratore in controllore. In questa prospettiva manifattura e industria diventano fenomeni storici (“figure”), nelle quali le modalità lavorative su menzionate si dispiegano; anche nel caso in cui alcune specifiche figure si dissolvano, le forme proprie del modo di produzione capitalistico persistono.

Nel sistema attuale, nel quale si dispiega l’attività lavorativa, non sono presenti solo queste figure, ma sono individuabili anche altri sistemi organizzativi del lavoro, in cui le forme prima citate (parzializzazione, subordinazione, cooperazione etc.) sono consistenti e strutturali, anche se le prime fanno uso dei computer per collegare individui che lavorano in luoghi diversi e distanti. Inoltre, queste nuove figure sono sempre salariate, ossia sottomesse al “processo di valorizzazione del capitale”. Esse non stabiliscono l’esito del loro lavoro, lo producono per il capitale, ottenendo un salario, che può assumere la forma del compenso per la partita IVA.

Se adottiamo questo punto di vista e non guardiamo al lavoro salariato solo nella sua classica forma contrattuale, secondo Fineschi “i potenziali soggetti antagonisti vanno moltiplicandosi perché tutti gli individui che si trovano a lavorare in varie forme in processi eterodiretti dal capitale per il quale lavorano in forma diretta o indiretta di salario si trovano completamente sussunti a queste modalità”. Il loro modo di lavorare è sostanzialmente cooperativo, parziale, subordinato, di supervisione etc.

Queste considerazioni consentono a Fineschi di superare i vari post, come per es. postoperaismo, perché se distinguiamo tra “figura storica” e “figura di più alto livello astrattivo”, le cose non sono sostanzialmente cambiate e la teoria di Marx resta in piedi con queste specificazioni.

Pur nella differenza, l’analisi di Fineschi può essere accostata quella di Andrea Martocchia, astrofisico e conoscitore del mondo della ricerca, che si sofferma sugli esiti delle “riforme” dell’università, il cui scopo è stato di depotenziare il sistema formativo pubblico mai visto prima. Questa trasformazione ha determinato il trasferimento grandioso di risorse dal pubblico al privato; fenomeno che ha prodotto l’esaurimento della funzione pubblica e democratica dell’università, il cui compito primario era quello che formare cittadini politicamente consapevoli.

Questi cambiamenti hanno comportato l’introduzione dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca (ANVUR), l’apertura ai Consigli di amministrazione ai privati, portatori di interessi privati, la professionalizzazione dell’educazione superiore e la sua subordinazione alle esigenze del mercato. Il potere baronale ed imprenditoriale è divenuto assoluto, grazie anche alla trasformazione del rettore in padrone indiscusso delle università, accrescendo i processi, già consistenti, di lottizzazione politica, economica, accademica della ricerca. In questa prospettiva, il volto dell’università assume caratteri mostruosi: da un lato mantiene il suo aspetto feudale dovuto all’aumentato potere dei baroni, dall’altro accentua la sua subordinazione al capitalismo, giacché l’ANVUR ha lo scopo di dare spazio alle linee di ricerca produttive sul piano tecnologico, relegando sempre più alla marginalità le discipline alla base della formazione dello spirito critico. Fenomeno questo diffuso in tutto il mondo occidentale che sta operando un netto ridimensionamento delle discipline umanistiche in nome della loro “improduttività”.

Ora, e ciò ci consente di ricollegarci a Fineschi, coloro che lavorano in questo importante settore produttivo si distinguono certo dai lavoratori manuali, che solitamente identifichiamo con il proletariato. A differenza di quest’ultimo, per la loro condizione incerta e precaria – d’altra parte condivisa ampiamente con la forza lavoro manuale –, dovuta sostanzialmente al blocco delle assunzioni nell’ambito della ricerca e dell’università, non sono nemmeno in grado di programmare la loro riproduzione e quindi di mettere su famiglia. Nonostante questa differenza – non poi così sostanziale –, che suggerisce a Martocchia di definirli “intellettuariato” per il lavoro intellettuale svolto, condividono con il proletariato tutti quegli altri aspetti di cui si diceva prima, ossia lavorano nelle medesime disumane condizioni.

Naturalmente dobbiamo alla Banca Mondiale questo terribile programma di disinvestimento, il quale è l’evidente obiettivo di favorire le nuove università telematiche anglosassoni, che si propongono offrire un’educazione standardizzata a tutti gli studenti del mondo e per di più in inglese.

Tale politica in Italia ha prodotto circa 50.000 precari nella ricerca e circa 150.000 nella scuola, senza contare le migliaia di giovani che con un titolo accademico migrano all’estero per trovare un’occupazione congrua. Essi sono per le loro condizioni di lavoro assimilabili al proletariato, essendo sfruttati, malpagati, impiegati in un’attività incongrua con la loro preparazione e proprio per questo anch’essi contribuiscono ad ampliare la categoria degli sfruttati, già individuata da Fineschi, in sintonia con le modalità proprie di questa fase storica.

Un altro elemento messo in luce da Martocchia è rappresentato dal sottolineare che “la vera essenza del sistema economico capitalistico non risiede nell’innovazione e nella competizione scientifica-tecnologica”. Questa è solo una versione propagandistica che vale esclusivamente nelle fasi espansive del tutto diverse dall’attuale caratterizzata dalla sovrapproduzione, in cui i capitalisti distruggono le forze produttive e acuiscono lo sfruttamento del lavoro vivo. Questa è la ragione per la quale non si mira nei paesi tardo-capitalisti ad espandere il sapere scientifico e si cerca di mantenere su di esso un controllo monopolistico, incentivando il disinvestimento di risorse attribuite agli enti pubblici, da cui il sapere può essere teoricamente diffuso a tutti. In questo senso, continua Martocchia, non stupisce l’intervista all’ex ministro Sacconi, il quale ha dichiarato che occorre rivalutare il lavoro manuale, prendendosela con i “distratti e cattivi maestri”, che sollecitano i giovani ad acquisire una preparazione che non è più richiesta dal mercato.


Bibliografía

Bernardeschi A., La cassetta degli attrezzi di Marx. Intervista a R. Fineschi.

Callinicos A., Contra el postmodernismo: una crítica marxista, Bogotá 1994.

Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma 1998.

Martocchia A., Dall’università dei baroni all’università dei padroni.

10/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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