Religione razionale e popolare

Solo nella prospettiva della difesa del primato della concezione razionale della religione sulle sue declinazioni positive e della necessità di difendere il piano storico-fenomenico dal disprezzo con cui lo consideravano i sostenitori dell’ortodossia è possibile intendere l’interesse del giovane Hegel per la religione.


Religione razionale e popolare

Solo nella prospettiva della difesa del primato della concezione razionale della religione sulle sue declinazioni positive e della necessità di difendere il piano storico-fenomenico dal disprezzo con cui lo consideravano i moralisti sostenitori dell’ortodossia [1] è possibile intendere l’interesse del giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel per la problematica religiosa. Hegel sembra preoccupato – come già Johann Gottlieb Fichte – di preservare l’assoluto da ogni compromesso con la positività storica. Anche in tal caso, seguendo Fichte, Hegel non fa che radicalizzare la già kantiana critica alla religione statutaria [2]: è solo la drammatica necessità del farsi positivo del trascendentale, per venire incontro all’impossibilità da parte dell’uomo di superare del tutto la sua componente naturale, a giustificare la religione cultuale, oggettiva, positiva. “Per ciò che riguarda le cerimonie – osserva Hegel – per un verso nessuna religione popolare si può pensare che ne faccia a meno, ma per l’altro verso niente è più difficile che impedire che esse vengano considerate dalla gente comune come l’essenza della religione” [3]. 

In altri termini, se l’uomo come ente positivo non fosse necessariamente affetto dalla sensibilità, l’intera religione oggettiva perderebbe il suo significato [4]. L’idea della divinità sorge dall’insufficiente autonomia morale della maggior parte degli uomini, che vi ricorrono per l’imperio che essa è in grado di esercitare sulle passioni, per riportarle sotto il controllo della ragione. Del resto Hegel, pur essendo attratto dalla filosofia critica, mantiene un interesse altrettanto vivo per diversi esponenti della tradizione illuministica – quali Jean-Jacques Rousseau, Gotthold Ephraim Lessing e Voltaire, poi affiancati da Edward Gibbon e Montesquieu – sui quali si era indirettamente formato già negli anni di Stoccarda. In questa epoca egli sembra maggiormente interessato a cogliere la continuità tra la filosofia critica e la tradizione illuministica, anche a costo di correre il rischio di perdere di vista gli aspetti maggiormente innovativi della filosofia kantiana. Come ha osservato, ci pare a ragione, Franz Rosenzweig: “non fu proprio Kant, il Kant storico di Königsberg, che irruppe nello sviluppo spirituale di Hegel con impeto rigoroso ed esclusivo; fu quel Kant, per contro, già penetrato nella corrente storica. Il primo Kant aveva esercitato su Hegel soltanto un vigoroso influsso accanto ad altri; aveva tollerato altri dèi accanto a sé” [5]. Del resto. nel testo numero 12 [6] – che Herman Nohl aveva considerato un abbozzo preparatorio a Religione popolare e cristianesimo – composto da una serie di citazioni che Hegel doveva ritenere utili per la sua riflessione critica sulla religione, spiccano oltre a brani del Saggio di critica ad ogni rivelazione di Fichte, passi tratti da autori come Joachim Heinrich von Campe e Moses Mendelssohn, che continueranno a svolgere una funzione importante anche nelle opere di questi anni [7].

Ciò emerge chiaramente dalle riflessioni del giovane Hegel relative al superamento della positività dell’universalismo formale kantiano, cui si affianca la concezione illuminista della religione, fondata sulla ricerca ancora induttiva di una serie di princìpi universali presenti, in modo più o meno sviluppato, nelle varie credenze storiche. Per Hegel, in effetti, ciò “che importa è solo la religione soggettiva: essa ha un suo proprio vero valore. Disputino pure i teologi intorno ai dogmi, ai contenuti della religione oggettiva, intorno ad una migliore determinazione di questi: al fondo di ogni religione vi sono invero pochi principi fondamentali, che poi nelle diverse religioni vengono più o meno modificati e deformati, presentati in maniera più o meno pura” [8]. 

Appare qui evidente come il primato kantiano della ragion pratica sulla teoretica, portato alle estreme conseguenze da Fichte [9], su cui si fonda il primato della morale sulla teologia, si riallacci nella riflessione hegeliana con la religione naturale dell’illuminismo, con l’intima adesione alle poche, sovrastoriche verità, che costituiscono il fondamento di tutte le credenze storicamente determinate.

 

Note:

[1] Per quanto riguarda gli insegnanti del collegio teologico in cui Hegel si era formato, di contro a chi, come Johann Salomo Sempler, si era interrogato sulle trasformazioni storiche del cristianesimo e strenuamente battuto contro il principio d’autorità – che aveva condannato ogni innovazione radicale dell’interpretazione del cristianesimo – Gottlob Christian Storr aveva opposto l’autorità fondante della rivelazione, finendo per considerare l’analisi dello sviluppo storico del cristianesimo come sostanzialmente irrilevante.

[2] Edoardo Mirri, pur accentuando eccessivamente i debiti kantiani del giovane Hegel nel periodo di Tubinga, ha colto per primo e dato ampia dimostrazione di come non sia più possibile accettare la schematica contrapposizione fra la hegeliana religione popolare [Volksreligion] tubinghese e la religione razionale kantiana: “[nei frammenti tubinghesi] si tratta infatti di risalire dalla «Volksreligion» al criterio stesso che la sostanzia, la pura religione razionale kantiana, e commisurare ora con quest’ultimo il cristianesimo anch’esso assunto nel suo criterio, o, che è lo stesso dire, nella sua originarietà” G.W.F. Hegel, Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 43.

[3] Id., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 107; Id., Scritti…, op. cit., p. 193. Nella sua sostanziale polemica contro il cristianesimo, il giovane Hegel oscilla tra religione soggettiva e religione popolare. Solo con il sostanziale fallimento del tentativo di scristianizzazione nella fase più radicale della Rivoluzione francese, durante negli anni di Jena, la religione soggettiva prenderà il sopravvento. Tuttavia a Francoforte vi sarà una nuova inversione di tendenza e proprio il soggettivismo del Cristo, del cristianesimo e del kantismo verrà rimesso in discussione. In tale contesto già si affaccia la critica al soggettivismo della borghesia – sulla scia della critica schilleriana alla parcellizzazione delle mansioni, presente anche in Johann Wolfgang von Goethe – cui si opporrà il mito della bella oggettività greca.

[4] Va inoltre considerato che la stessa importanza riconosciuta da Hegel alla sfera della rappresentazione – in grado di incidere immediatamente sulla sfera emozionale e volitiva dell’uomo, permettendo più ancora delle astrazioni teologiche di realizzare la religione soggettiva – è riconducibile alle riflessioni di Fichte sulla religione nel Saggio di una critica di ogni rivelazione. Come ha scritto Mirri: “la religione in generale, insomma, e la rappresentazione di Dio in particolare, hanno il solo compito di prolungare e di garantire la morale. La conseguenza di tutto ciò è che, se l’uomo avesse abbastanza forza per obbedire alla legge della sua ragion pratica, se la caduta originale non lo avesse irretito nella sensibilità e non avesse perciò oscurato la coscienza morale, non avrebbe bisogno alcuno di rivelazione; questa sarebbe superflua nel senso che nulla potrebbe aggiungere all’insegnamento della ragion pratica” Id., Scritti…, op. cit., p. 34.

[5] F. Rosenzweig, Hegel e lo stato [1920], tr.it., Il Mulino, Bologna 1976, p. 47.

[6] “In qual misura – si domanda il giovane Hegel – è da apprezzarsi la religione, come soggettiva o come oggettiva? Soprattutto per quanto riguarda i sentimenti? La religione oggettiva è piuttosto teologia: v. Fichte «Introduzione». Fino a qual punto il ragionamento può immischiarvisi perché essa resti religione? Di qui sono da giudicare le invettive contro gli idolatri. I sacrifici ed i concetti su cui essi si fondano non si possono mai introdurre in un popolo che abbia raggiunto un certo grado di illuminamento (noi ci siamo troppo allontanati dalla natura, nella quale non vediamo mai la mano della benefattrice, ma sempre e soltanto le nostre ansie); essi devono sorgere dallo spirito fanciullo di una nazione e perpetuarsi nelle sue usanze. Come possono mantenersi, una volta che ci siano, in una nazione illuminata? Ad essi si conviene, e ne viene sostenuto, lo spirito della gioia e del benessere; presuppongono infatti un’offerta spontanea. Di tutti i concetti che i greci ebbero dei loro dèi, benché ci appaiano così assurdi, così in contraddizione con il nostro ideale (Mendelsohn, Gerusalemme, pag. 101) e così umilianti, si deve considerare che erano legati nel modo più stretto con il concetto di destino. Teoria veramente umana. Risibile al contrario è l’argomentazione che Dio permetta alcuni avvenimenti, come risibile è la motivazione di questo permettere, con il quale si crede di salvare la provvidenza” G.W.F. Hegel, Gesammelte…, vol. I, p. 75; Scritti…, op. cit., p. 158. Come ha osservato Mirri, a proposito di questo testo 12, “«Fra le annotazioni di maggior interesse si segnalano quelle relative alla distinzione fra la «religione soggettiva» e la «religione oggettiva», che Hegel deriva appunto dalla critica di Fichte (ed è da notare che anche per la «religione soggettiva» Hegel prospetta un «destino» di decadenza a vuoto moralismo, come è accaduto per la riforma protestante: tanto poco essa poteva costituire un ideale per il giovane Hegel!), quelle sulla contrapposizione fra la concezione greca del «destino» e quella cristiana della «provvidenza» (contrapposizione che comparirà anche altrove – anche nel testo n. 16 – come esemplificazione della più vasta tematica che contrappone la razionalità morale greca all’irrazionalità cristiana)” Id., Scritti…, op. cit., p. 140.

[7] Per quanto riguarda Mendelssohn: “questo autore, molto famigliare a Hegel già negli anni di Stoccarda è menzionato tra quelli letti da Bök nelle sue lezioni universitarie. Hegel lo cita ripetutamente negli abbozzi preparatori al testo tubinghese sulla Volksreligion, quando accenna alla caratterizzazione dello «spirito della religione ebraica»” Carmelo Lacorte, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 290). Che che ne dica Rosenkranz e altri interpreti le osservazioni del giovane Hegel sulla religione popolare e il cristianesimo sono immediatamente legate alla pubblicazione della Religione di Kant e del Saggio di critica ad ogni rivelazione di Fichte, dal quale punto di vista Hegel recupera criticamente la Jerusalem di Mendelssohn.

[8] Id., Gesammelte…, vol. I, p. 89; Scritti…, op. cit., p. 175.

[9] Come è stato giustamente osservato: “la distinzione «teoretico» e «pratico» e la dottrina del «primato» della ragione pratica è ben presente all’attenzione di Hegel. Egli stesso, infatti, ha esplicitamente formulato il pensiero che occorra occuparsi, più che di Spekulationen, dell’elaborazione di «concetti più universalmente utilizzabili»” C. Lacorte, Il primo…, op. cit., p. 193.

21/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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