Alla ricerca di una esistenza comune - parte I

Prima parte di un’indagine giuridica e linguistica sul tema dei diritti umani.


Alla ricerca di una esistenza comune - parte I

Prima parte di un’indagine giuridica e linguistica sul tema dei diritti umani, tra universalità e particolarità. Per dirla con Judith Butler, “Nessuna nozione di universalità può basarsi facilmente all’interno di una singola cultura perché il concetto verace di universalità costringe ad una comprensione della cultura come relazione di scambio e lavoro di traduzione”.

di Renata Puleo

La conoscenza della Lingua italiana è diventata da qualche anno il requisito per l’ottenimento del permesso di soggiorno nel nostro Paese [1].La Lingua viene così fagocitata all’interno del pacchetto di misure securitarie gestito direttamente dal Ministero degli Interni. I Centri Territoriali, oggi CPIA, che si occupano di insegnare la Lingua Italiana ai migranti insieme ad una pletora di centri accreditati, hanno l’onere di certificare la competenza e di riferire alle questure. Nello svolgimento del proprio lavoro gli insegnanti che hanno un confronto serrato con le problematiche della migrazione, sanno che il loro compito va ben oltre la didattica specifica, in quanto tocca direttamente il campo del diritto e della legge. Il contatto con le tematiche attinenti al complesso dei cosiddetti diritti umani, li induce altresì a constatare come, sia per loro, sia per l’opinione corrente, questa locuzione perda di pregnanza, tanto giuridica quanto pragmatica, sfumando nel luogo comune, in una sovraesposizione culturale e politica che la rende banale, spesso priva di ricadute pratiche.

Quando ci si riferisce a violazioni o ad omissioni perpetrate a danno di soggetti non appartenenti per nascita – e/o per diritto acquisito - al corpo della nazione, quando è difficile, o impossibile, far capo ai diritti di cittadinanza, è divenuto consueto il rimando al complesso dei diritti umani (DU) come dispositivo di salvaguardia personale, non garantita dalla legge ordinaria. Li si invoca, da destra come da sinistra, nel caso in cui un abuso appaia direttamente collegabile alla appartenenza ad una comune umanità, spesso senza rinvio ad un sicuro inquadramento concettuale, sia dei due termini presi separatamente, sia presi in locuzione. Non solo, sulla scena politica internazionale, la consistenza giuridica dei DU, il loro stesso con-sistere, dà luogo a infinite discussioni, tanto che i 192 paesi aderenti all’ONU, e spesso firmatari di patti ispirati al rispetto dei DU, non ne condividono né la definizione estensiva né le pratiche.

Il cittadino di uno Stato (per ius solis o per ius sanguinis) è vincolato alla rete dei diritti e dei doveri stabiliti, in quello Stato, in forza di legge. Un essere umano, qualsiasi sia la sua nascita, provenienza, destinazione, può esigere di esercitare un insieme di diritti definiti appunto umani, che inglobano e incorniciano, in una sorta di piano logico superiore, quelli positivi, istituiti nel luogo in cui vive o transita.

E’ cittadino chi abita la città, intesa come comunità politica, secondo il modello offerto dalla polis greca e dalla civitas romana, riferimenti per noi immediati; per la recente storiografia, meno provinciale, anche secondo il modello islamico[2]. Il cittadino è colui che gode del diritto politico in senso ampio e porta la responsabilità personale di tale inclusione. La parola Stato ha rimandi ancora più complessi. Contrapposto in Gramsci a società civile, inteso dunque come governo e come dominio [3]; contrapposto - o corrispondente - a Nazione laddove si voglia porre al margine, o viceversa sottolineare, l’origine di uno Stato legata alla supremazia di un gruppo etnico dominante e vincitore (Franchi su Galli; Spagnoli su civiltà indie, ecc).

Molto spesso Stato/Nazione, come corpo dotato di organicità e coerenza interna, conservate mediante l’espulsione di chiunque possa essere considerato estraneo e fonte di contagio [4]. Gli enciclopedisti francesi definivano Stato quello costituito “da una quantità considerevole di persone [che ha] una certa distesa di territorio […] contenuto in determinati confini [se chi lo abita] obbedisce ad un unico comando” [5]. Definizione che sembra maneggiare con cautela il problema dei confini – oggi nuovamente importante in molte parti del mondo – e evita di menzionare la Lingua Nazionale considerata, da molti giuristi e politici, un fattore essenziale di coesione nazionale.

Spostandoci di piano, si può constatare come la storia del corpus dei DU non sia molto più lunga di quella della formazione degli Stati e sia frutto di una elaborazione filosofico-politica soprattutto occidentale. Troviamo traccia di un diritto a sottrarsi a pratiche mortificanti, al bando, alla morte senza giusta causa, negli Habeas Corpus inglesi della seconda metà del ‘600 [6].Il modello fondamentale per la definizione dei DU, nei documenti redatti nel primo e nel secondo dopoguerra, rimane la Dichiarazione Francese del 26 agosto 1789 che, nei i suoi 17 articoli, riconosce tratti comuni e prerogative inalienabili ad ogni essere umano, rifacendosi ad un diritto naturale anteriore a qualsiasi legge positiva [7].

L’incertezza delle definizioni non dipende solo da una esigenza politica di genericità, ma dalla difficoltà contenuta nel riferimento all’umanità, ciò che è pertinente all’uomo. Tale difficoltà riguarda il confine tra gli umani e l’animalità, separazione mai davvero definitiva, animalità a cui il nostro stesso corpo, pur in mancanza di un corredo istintuale definito, continuamente richiama. Fino a tutta l’età moderna, la ferinità era il baratro nel quale precipitava l’homo sacer, separato, escluso dalla communitas, la donna impura o non avvicinata con i rituali stabiliti ad evitarne il contagio, il fuggitivo – prigioniero o schiavo che fosse – che la legge autorizzava a cacciare come una fiera [8], il bambino quando nato deforme, non incluso sotto il potere del padre, non legittimato a far parte della società istituita. Il caso dei bambini fa pensare all’effetto di perturbazione che provoca chi è in-fans, privo della Lingua, e al continuo gioco di inclusione/esclusione che proprio su tale competenza opera uno Stato-Nazione. Nei campi di sterminio nazisti la privazione della Lingua Materna, e l’esposizione esclusiva a quella dei carcerieri ridotta a rozza lingua franca, erano fattori di precipitazione nel sottogruppo dei non umani, come riferirono Levi, Amery, Celan.

Se è sempre presente il rischio di precipitare nel limbo del non umano, tale limite deve essere continuamente istituito [9]. E’ un tratto culturale da difendere perché sempre provvisorio. Una perplessità che spesso manifestavano i teorici dello schiavismo americano scaturiva dalla constatazione che l’uomo ridotto in schiavitù metteva in atto due tentativi per sottrarsi alla sua condizione: la fuga e la pratica della parola, nella forma della conservazione della lingua materna, del canto, della invenzione dei pidgin, della capacità di apprendere a leggere e a scrivere. Come potevano gli schiavi essere così simili al padrone nell’anelito alla libertà e nel desiderio di usare la Lingua?

Ai giorni nostri, occorre modificare la nozione stessa di homo sacer, il separato dal consorzio sociale, guardando alle odierne proscrizioni contro i migranti. Lo straniero non rappresenta la nuda vita biologica (come nel tentativo nazista e totalitario in genere), ma è la sua fisica presenza nelle nostre strade e nei luoghi di lavoro, a fare problema: egli è in stato di spossessamento altamente giuridificato, dice la Butler, vale a dire che, proprio la proibizione giuridica a far parte di una comunità definisce, nomina, l’appartenenza all’umano. Il paradosso si manifesta quando sentendo parlare di DU per le donne e per i migranti “siamo posti a confronto con una strana vicinanza fra universale e particolare, che non li riunisce in una sintesi, né li tiene separati” [10]. La contraddizione e le aporie culturali segnano dunque la nozione storica di DU, soprattutto per la difficoltà a trattare il rapporto natura e cultura, umanità e ferinità, diritti e pratiche sociali.

Il performativo attraverso il quale si esprime la titolarità di un diritto produce un errore difficilmente emendabile: un diritto non si ha (forma del verbo avere), in una posizione proprietaria del singolo soggetto o dello Stato, ma si esercita in pratiche sociali, nella provvisorietà delle situazioni specifiche. Ma come salvarsi dalla proliferazione differenziata dei contesti e dunque dalla babele dei linguaggi giuridici? E’ opportuna la critica politica alle iniziative intraprese sotto l’egida dei DU, definita “neocoloniale”?

Nell’indeterminatezza si generano altri paradossi. Il rischio di depotenziare le nicchie storico-sociali in un processo di universalizzazione dei bisogni e delle risposte culturali ad essi, anche mediante uno schiacciamento sui paradigmi occidentali, è stato di recente oggetto di un aspro dibattito a proposito degli aiuti umanitari prestati dal primo mondo al terzo e al quarto. I danni, le speculazioni economiche, legati alla presenza delle ONG nei paesi del terzo e quarto mondo, sono decisamente superiori ai benefici.

Thomas Sankara, da Presidente del Burkina Faso [11], chiese espressamente agli occidentali di iniziare a considerare adulti gli africani, evitando forme malcelate di colonialismo nel dispensare aiuti economici e tecnologia, sotto la veste dell’aiuto umanitario.

Nel merito dell’intervento umanitario nella ex Jugoslavia, come in altre strategiche zone del mondo, scrive Žižek: “ Una vera e propria critica della falsa universalità non la si mette in dubbio a partire dal punto fermo del particolarismo pre-universale, ma si deve far esplodere la tensione interna all’universalità stessa, la tensione tra…l’universalità morta, astratta…e l’universalità concreta…processo permanente di interrogazione e di negoziazione…” [12].

Citazione che serve anche a riarticolare il confronto fra nazionalismi, culture e lingue nazionali, difesi a filo di spada non solo come propri, ma come superiori, e i processi di omogeneizzazione e di omologazione tipici della cultura capitalista. Del resto, il pericolo che lo svelamento dell’uso ipocrita del corpus dei DU (dopo l’11 settembre, con quel che ne è seguito) travolga il portato rivoluzionario ereditato dall’Epoca dei Lumi, trascini con sé l’idea di democrazia e di giustizia sociale, occulti il dialogo fra differenza e uguaglianza, preoccupa la sinistra europea e le avanguardie culturali americane, come si evince dall’insistenza degli interventi in proposito [13]. Tornando ai fatti italiani, la provocazione di Žižek, mi pare portare con sé elementi di analisi importantissimi, atti a far intravvedere il rischio di annientamento di ogni critica al nostrano miscuglio di universalismi e particolarismi, giustificazione nemmeno troppo sofisticata per l’assimilazione come unica via diversa dalla esclusione [14].Ci tornerò a proposito della Lingua (sul prossimo numero, ndr).

Una questione non marginale, anzi direi prioritaria rispetto a qualsiasi ragionamento sui DU, è la posizione della donna. Mentre le nostre contraddizioni occidentali, sotto la veste teorica della Fine del Patriarcato, proclamato negli anni ’90 dal femminismo [15] sono di quotidiana evidenza, si è aperta la questione femminile nei paesi terzi e quarti, soprattutto in quelli sotto l’egida delle religioni dell’Islam. Troppo superficiale, produttiva di effetti più nefasti che favorevoli, è l’attenzione da noi rivolta alla condizione della donne sotto l’Islam: dal burka, al velo, come segni di mancata emancipazione e offesa pubblica al diritto di uguaglianza, in Francia, ad esempio.

Anche il paternalismo neocoloniale con cui si è affrontata la pratica delle mutilazioni genitali ha generato diffidenza, tanto che molte donne africane hanno chiesto di poter trovare da sole una soluzione [16], senza protezioni occidentali, né maschili né femminili. Se un nuovo ordine simbolico ha preso corpo, i suoi effetti sono stati enfatizzati dal vizio narcisista di molto femminismo nostrano, nonché occultati da un dibattito di stampo maschilista sui sistemi di protezione delle minoranze. Fra il 1998 e il 2000, in alcuni incontri sul tema dei DU e sulla impostazione di genere del Diritto Internazionale [17], si ribadì l’effetto di discriminazione insito nella considerazione della donna come soggetto debole, ma anche, in un paradosso non facilmente risolvibile, si segnalò come questa attenzione rappresentasse un segno di svolta nella crescita di civiltà. La distinzione operata dalla dottrina giuridica fra diritti deboli e diritti forti, i primi norme e principi di ordine morale, i secondi sistemi di norme positive, viene complicata dalla ulteriore distinzione fra paesi che includono i primi nei testi costituzionali, e dunque li considerano vincolanti, e paesi che li rimandano a generiche indicazioni di comportamento individuale. La problematica di genere entra in questa seconda categoria in moltissimi stati, come del resto ho già fatto notare a proposito delle adesioni solo formali ai testi sui DU anche in paesi firmatari di atti per la loro salvaguardia.

Un cammino lungo, irto di ostacoli, proprio se prestiamo attenzione, quando ci appelliamo al corpo dei DU, alle diverse sfaccettature che lo attraversano e che implicano una riflessione non generica, soprattutto da parte degli educatori e di quanti sono consapevoli che il problema delle migrazioni è fonte di interrogazioni politicamente ineludibili.

 

Note:

 

[1] Si tratta in realtà della “carta” per i soggiornanti di lungo periodo ma, colloquialmente e sulla stampa, si parla genericamente di permesso; non è un caso: si tratta infatti di permettere, consentire e non di garantire.

[2] E. González Ferrín Historia general de Al Ándalus Almuzara, Madrid, 2006.

[3] J.Butler ;E. Laclau.; S. Žižek Dialoghi sulla sinistra.Contingenza, egemonia,universalità Laterza, Roma-Bari, 2010; S. Žižek La nuova lotta di classe. Dai rifugiati al terrorismo Ponte delle Grazie, Firenze, 2016.

[4] R. Esposito Immunitas Einaudi Torino, 2002.

[5] A. Mathiez.; G. Lefebvre La rivoluzione francese Einaudi, Torino, 1975. L’Epoca dei Lumi come ispiratrice di molti principi mantenutesi nel corso della contemporaneità in A. Mattelart Storia dell’utopia planetaria Einaudi, Torino, 2003.

[6] La formula ha continuato ad essere in uso: in Argentina, durante il regime militare, l’habeas corpus, comprato o ottenuto con una raccomandazione eccellente, consentiva di far emergere dall’oblio un desaparecido, dotandolo nuovamente dello status di cittadino, soggetto ad una inchiesta e ad un processo regolari, almeno nella forma.

[7] Interessante la discussione che precedette ed accompagnò la Dichiarazione, oscillante nei riferimenti fra gli estimatori del modello americano e coloro che invece consideravano gli esiti della rivoluzione d’oltreoceano troppo localista e dunque poco universalista. Sull’aggettivo “naturale” ci si attestò nel definirlo “ciò che è proprio della Natura prima delle modifiche subite in questa o in quella società” . Mirabeau sollevò il problema - attualissimo –dell’esercizio della tolleranza in campo religioso, ritenendolo insufficiente a garantire il diritto a professare un qualsiasi credo perché il tollerare è atto contingente: chi tollera può anche non farlo. A.Mattelart Storia dell’utopia planetaria, cit.

[8] G. Chamayou Le cacce all’uomo manifesto libri, Roma, 2010.

[9] G. Deleuze Istinti e Istituzioni Mimesis, Milano-Udine, 2014.

[10] J. Butler et alii Dialoghi sulla sinistra, cit

[11] C. Batà L’Africa di Thomas Sankara. Le idee non si possono uccidere Achab, Verona, 2004.

[12] S. Žižek et alii Dialoghi sulla sinistra…cit.

[13] Il dibattito sulle prospettive di uscita dal capitalismo è costantemente intrecciato a questi temi sempre in J. Butler et alii Dialogo sulla sinistra, cit . Molto prudente mi è apparsa la posizione espressa da Z. Sternhell La società dei nemici dei Lumi, Le Monde Diplomatique, dicembre 2010.

[14] L’atteggiamento provocatorio del filosofo sloveno viene sottolineato da Benedetto Vecchi a proposito del recente libro, citato qui alla nota 3 (il manifesto, 12 maggio 2016).

[15] E’ accaduto non per caso Libreria delle Donne di Milano, Sottosopra gennaio 1996.

[16] Illuminante al proposito il film di Sembéne Ousmane Moolaadé (Senegal, 2004 ) che racconta di come le donne di un piccolo villaggio trovino le energie per eliminare le pratiche rituali della escissione e della infibulazione.

[17]A cura di F. Declich Sul genere dei Diritti Umani. Perché Leonardo lo fece Maschio? Supplemento al 9/10 del 2001 del Paese delle Donne.

21/05/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renata Puleo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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