Dai diritti formali ai bisogni reali

Al pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’uomo subentra la modesta Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge, la quale chiarisce finalmente quando finisce il tempo venduto dal lavoratore salariato e quando comincia il tempo che gli appartiene.


Dai diritti formali ai bisogni reali

Il pensiero politico contemporaneo assegna ampio rilievo ai diritti umani quale fondamento d’una convivenza pacifica fra diversi popoli e Stati-nazione. I diritti umani costituirebbero l’essenza, il fondamento della persona, della sua dignità, “in un’epoca in cui la coscienza dell’umanità cerca di fondare, se non una vera riconciliazione fra i popoli, per lo meno la loro elementare coabitazione, sotto l’affermazione universale dei diritti dell’individuo” [1]. 

D’altra parte, la stessa definizione dei diritti umani risulta quanto meno problematica. Per quanto concerne il contenuto è arduo stabilirne un fondamento unitario. Tanto più è determinato, quanto più appare partigiano, difficilmente riconoscibile dalle diverse culture nazionali. Non ci s’intende su ciò che costituisce il valore fondamentale della vita umana: libertà o sicurezza? Dignità o felicità? Diritto o pace?

Semplificando, nel dibattito sui diritti umani possono essere individuate almeno due posizioni principali. La prima, egemone quanto meno nel mondo occidentale, ne ricerca il fondamento nei diritti innati dell’individuo, in primo luogo nella libertà formale e negativa del soggetto all’autodeterminazione. Nella tradizione filosofica moderna occidentale “i diritti dell’uomo nascono come attributi dell’individuo separato dalla società, dell’individuo indipendente, isolato, presociale. E quella attribuzione connota il potenziamento a valore di tale individuo originario, facendone – nel suo modello più classico e completo – la persona, un centro etico-giuridico primario portatore di valori autonomi destinati a modellare la vita di relazione” [2]. In tale prospettiva la libertà negativa della persona giuridica è intesa quale presupposto dello stato di diritto, mentre le sue determinazioni sociali, la giustizia distributiva è abbandonata alla differenza storica, al positivo affermarsi dei diversi gruppi d’interesse sociale. “I diritti sociali (o diritti-credito secondo i liberali) hanno solo un ruolo subalterno, con il pretesto che la loro messa in discussione, che, secondo Lefort, neppure la Thatcher e Reagan avrebbero operato «in via di principio», non equivale a una soppressione della democrazia e non ha perciò carattere irreversibile (contrariamente alla soppressione delle libertà negative)” [3].

La seconda posizione muove dalla necessità d’integrare la libertà formale con una libertà reale o concreta. In tal caso, nella versione più moderata, s’intende completare i “diritti libertà” con “diritti credito”, volti a riformare le differenze sociali mediante una più equa distribuzione delle risorse; nella versione più radicale le disuguaglianze economiche assumono valenza politica e la necessità di salvaguardare l’eguaglianza sociale sin dalla sfera produttiva è posta a fondamento d’ogni determinazione formale del diritto. In tale dibattito è facile riconoscere il conflitto fra liberalismo e socialismo.

Vista la difficoltà a trovare una soluzione a questo conflitto fondamentale, alcuni hanno cercato di trovare un punto di vista generalmente condiviso limitandosi alla determinazione formale dei diritti umani, lasciando da parte il loro contenuto. Tuttavia, più è formale la concezione dei diritti umani e più nella sua determinazione reale finisce per recuperare l’esistente, ovvero i rapporti di forza fra le differenti tradizioni nazionali. Né appare risolutivo aggirare la problematica del fondamento stilando un catalogo di diritti. In tal caso, o si ricade nella difficoltà precedente d’assumere una misura esteriore atta a sancire quale diritto debba esser incluso nel canone, o si soggiace all’empiria dei rapporti di forza fra gli Stati, perdendo la possibilità di regolarne i conflitti sulla base d’un fondamento [4].

Egualmente complessa appare la questione della realizzazione pratica del loro concetto. I diritti umani sono da considerare il presupposto della convivenza civile fra gli uomini o sono il prodotto dell’autonomo sviluppo storico-politico dei differenti Stati-nazione [5]? Quanto è lecito spingersi in avanti per ridurre a tale universale le differenti determinazioni storiche e nazionali restie a riconoscervisi? Le crescenti difficoltà pratiche nella soluzione di tali problemi rischiano di svalutare i diritti umani sino a farli apparire un mero dover essere, incapace d’incidere sull’autonomia del politico e dell’elemento nazionale, o peggio la veste ideologica che assumono i reali rapporti di forza fra gli Stati, la cattiva universalità dietro cui si cela il dominio anche ideologico dell’occidente liberale.

Il tentativo d’indagare il concetto dei diritti umani per risolverne le difficoltà storico-politiche ha senso unicamente in una prospettiva critica, dal momento che le difficoltà pratiche sono manifestazione fenomenica di carenze concettuali [6]. Per tale motivo non è privo d’interesse ricostruire l’analisi di tale problematica in un autore cui si rifanno, anche inconsapevolmente, diversi critici contemporanei del cattivo universalismo dei diritti umani: Karl Marx.

L’interesse di tale ricostruzione è legato al fatto che è assente negli scritti di Marx una trattazione sistematica della questione, cui si accenna in modo più o meno diretto dagli scritti filosofici giovanili, alle trattazioni economiche e storico-politiche della maturità [7]. Ciò rende necessaria una tara critica delle riflessioni marxiane, spesso condizionate dalla necessità pratico-politica di mettere in discussione una determinata posizione, tanto da apparire persino contraddittorie [8]. Né ci pare sufficiente per sciogliere tale problematicità, come troppo avviene, il riferimento a La questione ebraica, scritto in cui Marx si confronta in modo più esteso con i diritti umani

Tale trattazione non ci pare risolutiva per tre motivi: in primo luogo trattasi d’uno scritto giovanile, non rappresentativo dell’evoluzione storica della riflessione marxiana sui diritti umani; in secondo luogo anche esso va tarato dalla forte vis polemica nei confronti di Bruno Bauer e della sinistra hegeliana: in terzo luogo nello scritto l’analisi non verte sulla problematica dei diritti umani come tale, ma in riferimento alla critica dei limiti dell’emancipazione politica. Nella Questione ebraica la riflessione politica sottesa all’analisi marxiana dei diritti umani, ovvero il complesso rapporto dialettico fra l’autonomia organizzativa del partito dei lavoratori e la necessità di costruire un blocco sociale, ovvero la politica delle alleanze, si fonde con l’esigenza di fare i conti con la riflessione della sinistra hegeliana, cioè con la propria antecedente elaborazione filosofica. Tale svolta teorica ha un risvolto politico, la violenta critica ai limiti della posizione radical-democratica della sinistra hegeliana necessaria alla definizione della nuova posizione umanistico-sociale in elaborazione. Gli evidenti limiti di essa sono riconducibili al tentativo non ancora adeguato di togliere-superare la tradizione liberal-democratica hegeliana, l’umanesimo feuerbachiano [9], il socialismo utopista. In ogni primo sforzo d’Aufhebung il momento della negazione semplice è preponderante sulla necessaria tesaurizzazione del tolto su di un piano superiore non pienamente definito. Ciò consente di comprendere i toni unilateralmente critici nei riguardi dei diritti umani, ancora presenti nella Sacra famiglia e nell’Ideologia tedesca, in seguito attenuati.

 

Note:

[1] Bourgeois, Bernard, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 5.

[2] Cerroni, Umberto, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 238. Così, per esempio, “avendo posto la struttura dell’uomo nella sua presociale dignità di persona, Kant deve poi tutelarla contro la società per garantire che l’ingresso in società sia transito verso il ritorno al valore supremo della separazioneivi, p. 258.

[3] Kouvélakis, Eustache, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in “Marxismo Oggi” 1, Milano 2005, pp. 45-78, p. 56.

[4] Come è stato osservato a tal proposito: “si possono far consistere in una molteplicità di diritti, senza risalire al loro principio – un’idea dell’uomo –, e dunque facendo astrazione di ciò che potrebbe compromettere un accordo sotto degli obiettivi determinati? Se sì, allora bisogna impegnarsi a stabilire – è uno degli aspetti del dibattito all’UNESCO – un catalogo dei diritti umani. – Ma il loro contenuto non può esser determinato se non in relazione con la varietà degli uomini o dei gruppi umani, l’accordo e l’unità delle loro rivendicazioni non possono ottenersi se non a livello del loro principio, dell’idea dell’uomo, la quale comanda necessariamente – come idea pratica – la sua realizzazione determinata” Bourgeois, Bernard, Philosophie et droits…, op. cit., p. 7.

[5] Anche qui abbiamo la preminente contrapposizione fra le concezioni di Kant e Fichte e quelle di Hegel e Marx: “un grande divario oppone alle teorie che fanno dell’affermazione teorica dei diritti delle persone il principio dell’edificazione e dell’organizzazione volontarista della loro comunità [posizione di Kant e Fichte], a quelle che fanno dello sviluppo storico della nazione, dello Stato o della società, il garante della realizzazione pratica di tali diritti [posizione di Hegel e Marx]” ivi, p. 131.

[6] “Tale interrogativo filosofico non può esser in nessun modo giustificato se non apparisse che il movimento politico dei diritti dell’uomo incontra difficoltà pratiche la cui soppressione esige in primo luogo la delucidazione teorica delle loro ragioni” ivi, p. 7. Una carenza pratica, rinvia dunque a una difficoltà teorica, se la sua realizzazione pratica genera delle crescenti difficoltà, ciò è almeno in parte dovuto alle contraddizioni presenti nel suo stesso concetto. Tutte queste questioni, che traducono la contraddizione multiforme che rallenta, ovvero paralizza, la realizzazione delle rivendicazioni dei diritti umani chiama in causa la riflessione filosofica.

[7] Ci proponiamo di analizzare le variegate riflessioni di Marx sui diritti dell’uomo, al fine di indagarne una possibile concezione unitaria, interrogarne la validità o meno rispetto all’epoca in cui furono concepite e l’attualità per il nostro tempo. Al di là della trattazione, assai dibattuta, che Marx ne dà in Sulla questione ebraica, considerazioni o accenni su tale questione si trovano in scritti giovanili a essa precedenti – in particolare nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico – e seguenti, quali La sacra famiglia e L’ideologia tedesca. Infine, la problematica dei “diritti umani” è affrontata, seppur in maniera indiretta, in testi della maturità – dal Manifesto del partito comunista agli scritti storici e politici – e si affaccia in alcune pagine de Il capitale e dei Grundrisse.

[8] Si passa da vere e proprie liquidazioni della problematica come meramente ideologica all’appello ai diritti dell’uomo. Come cercheremo di mostrare si tratta in entrambi gli estremi di posizioni occasionali, esteriori, incapaci di dare conto della complessità e problematicità della riflessione marxiana sulla questione.

[9] L’influenza, a tratti nefasta del pensiero feuerbachiano, porta il giovane Marx a polemizzare con Stato, diritto e politica in maniera, a tratti, poco critica. Il che non toglie nulla alla profondità e all’attualità che conserva la mordace critica marxiana delle forme universaliste che assume il dominio materiale della società civile borghese.

 

28/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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