I flussi mondiali di investimenti: un’istantanea del capitalismo contemporaneo

I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione.


I flussi mondiali di investimenti: un’istantanea del capitalismo contemporaneo

I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione, che comporta anche un cambiamento degli equilibri geoeconomici e, quindi, geopolitici, con tutte le contraddizioni che ne possono emergere, ma anche un peso sempre più dominante ed incontrollato delle multinazionali. Rispetto a questi fenomeni appare velleitario e forse un po’ nostalgico il richiamo ad un multilateralismo sovranazionale che aveva svolto un ruolo sicuramente importante in una fase storica differente, oggi difficilmente ripetibile, almeno nel contesto attuale.

di Ferdinando Gueli

Introduzione

Il Rapporto annuale dell’UNCTAD “World Investment Report – WIR 2015” rappresenta un’utile istantanea delle attuali dinamiche del capitale mondiale. Il Rapporto non si occupa degli investimenti di portafoglio, cioè dei movimenti finanziari di natura speculativa, ma si concentra invece sui flussi internazionali di investimenti diretti esteri (IDE), cioè sostanzialmente sull’esportazione ed importazione di capitali nei vari paesi.

Da una lettura del Rapporto emergono alcuni dati interessanti che offrono spunti di riflessione dal punto di vista dell’analisi critica delle dinamiche del capitalismo contemporaneo.

Cominciamo con il dire che il volume globale di investimenti in entrata ha subito, nel 2014, una contrazione del 16% rispetto al 2013, attestandosi a 1.230 miliardi di dollari USA. Questo conferma sostanzialmente il quadro di crisi globale che, nonostante i proclami, gli annunci e le stime artificialmente ottimistiche diffuse dalle istituzioni economiche e finanziarie dominanti, non accenna a risolversi.

Il protagonismo crescente delle economie emergenti, Cina e BRICS in particolare

Visti a livello globale i flussi di IDE confermano tuttavia, qualora ce ne fosse stato bisogno, anche i grandi cambiamenti geopolitici in atto negli ultimi anni ed in particolare il ruolo crescente di alcuni paesi ed aree economiche che continuano ad essere classificate come “in via di sviluppo” nonostante abbiamo già raggiunto un livello tale da potersi ormai accomodare nel novero delle grandi potenze economiche.

Complessivamente, il fronte delle economie definite “sviluppate” (cioè sostanzialmente Nord America, Europa e altri paesi Ocse) perde progressivamente terreno rispetto alle cosiddette economie “emergenti” che ormai intercettano oltre il 55% del flusso globale di IDE in entrata, con la parte del leone (o sarebbe meglio dire del…dragone!) giocata dall’Asia, e quindi, principalmente, dalla Cina.

La Cina infatti, nel 2014, ha superato gli Stati Uniti divenendo il più grande paese importatore di capitali con un flusso di 129 miliardi di dollari Usa nel 2014, mentre nello stesso anno gli Stati Uniti sono scesi da 231 a 92 miliardi di dollari.

La Cina, come noto, da qualche anno sta cercando di sostanziare il suo ruolo di grande potenza economica mondiale, dando vita ad un sistema di relazioni internazionali alternativo a quello dominato dall’imperialismo degli USA ed imperniato ancora, nonostante le apparenze, sull’asse atlantico che li lega strettamente all’Unione Europea.

Uno dei perni della strategia cinese è rappresentato dal gruppo dei BRICS. Vediamo quali sono le performance degli altri paesi alleati in materia di IDE: Brasile e India risalgono posizioni rispetto al 2013, collocandosi rispettivamente al 6° posto ed al 9° posto tra i paesi attrattori, con 62 e 34 miliardi di dollari; la Russia invece, per evidenti ragioni legate al conflitto in Ucraina, registra un consistente calo degli IDE in entrata, scendendo dal 5° al 16° posto e da 69 a 21 miliardi. Modesto il ruolo del Sudafrica, con poco più di 5 miliardi in entrata, in calo di circa il 30% rispetto al 2013, rimanendo comunque il primo paese del continente africano come recettore di investimenti diretti esteri.

Da questi dati tuttavia non si può immediatamente passare a considerare il blocco dei paesi BRICS come un blocco realmente alternativo ai poli imperialistici oggi dominanti, perché ciò dipende dal loro grado di integrazione economica e finanziaria, ma questo è oggetto di un’analisi che è già stata avviata su queste pagine de La Città Futura da Ascanio Bernardeschi e che verrà ulteriormente approfondita, per quanto riguarda questi aspetti specifici, nei prossimi numeri.

Più in generale, comunque, cresce il ruolo delle economie emergenti anche dal punto di vista degli IDE sia in entrata, con una quota sul totale che ha raggiunto nel 2014 il 55% per un flusso complessivo di 681 miliardi di dollari USA, sia in uscita, con una quota in crescita costante dal 2010 e che nel 2014 ha raggiunto il 35% del totale con oltre 468 miliardi di dollari USA. Tra i primi 10 paesi attrattori di IDE, cinque sono emergenti (Cina al 1° posto, Hong Kong al 2°, Singapore al 5°, Brasile 6° e India 9°). Tra i primi 10 paesi originatori di IDE figurano ancora una volta Hong Kong, Cina e Singapore, fortemente integrate dal punto di vista dei movimenti di capitali, e rispettivamente al 2°, 3° e 10° posto, alle quali, tra le economie emergenti, si aggiunge anche la Russia al 6° posto.

Il declino dell’area TTIP ed il ruolo dominante delle multinazionali

Un altro dato interessante, da contrapporre alla crescita delle economie emergenti, è il progressivo declino del gruppo dei paesi coinvolti dal TTIP, cioè sostanzialmente Stati Uniti e Unione Europea, che hanno visto ridursi in un solo anno, dal 2013 al 2014, ridurre la loro quota sul totale dei flussi di IDE globali in entrata di ben 10 punti passando dal 38% del 2013 al 28% nel 2014. Questo forse spiega la maggiore insistenza con cui determinate lobby economiche delle due aree interessate spingono per la chiusura dell’accordo, che assicurerebbe ai loro capitali un “terreno di caccia” più vantaggioso, in termini di minori vincoli sociali e ambientali e più protetto, rispetto alla concorrenza dei capitali provenienti da altre aree geografiche (ad esempio paesi arabi e potenze economiche emergenti).

Dal rapporto WIR emerge inoltre con chiarezza il ruolo crescente delle multinazionali che assicurano una quota crescente di investimenti diretti. La novità più importante degli ultimi anni è sicuramente rappresentata dalla presenza sempre più significativa delle multinazionali dei paesi emergenti, anche in questo caso con quelle cinesi che primeggiano su tutti.

In particolare le multinazionali rappresentano gli attori più dinamici nella generazione dei flussi di IDE a livello internazionale, gli unici che hanno registrato un miglioramento della performance finanziaria (leggasi profitti) con un tasso di ritorno dagli investimenti diretti che dal 6,1% del 2013 è passato al 6,4% del 2014. Allo stesso tempo il Rapporto UNCTAD fornisce un altro dato molto significativo: dall’inizio della crisi (2008-2009) al 2014 si stima, su un campione di circa 5.000 multinazionali, che le riserve di liquidità sono cresciute di ben il 40% attestandosi ad uno stock complessivo di circa 4,4 trilioni di dollari USA. Segnale chiaro ed incontrovertibile che le multinazionali giocano un ruolo sempre più dominante a livello mondiale nel determinare le scelte di investimento ed i movimenti di capitali, tenendo quindi immobilizzate importanti risorse finanziarie ed influendo così pesantemente sul mancato sviluppo economico e sociale di intere aree del pianeta in base alle loro valutazioni arbitrarie e legate esclusivamente alla logica del profitto.

Le multinazionali dei paesi emergenti si inseriscono in questa logica e si sta profilando una sorta di divisione dei ruoli tra le due categorie: le multinazionali delle economie mature (o sviluppate) generano circa l’80% dei loro IDE tramite il reinvestimento dei profitti realizzati nei paesi esteri, mentre sono soprattutto le multinazionali delle economie emergenti ad esportate capitali “freschi”, cioè ad immettere nel circuito internazionale capitali generati nei paesi di origine che rappresentano il 55% del totale dei loro IDE.

Un ultimo dato che conferma la tendenza alla concentrazione ed alla centralizzazione dei capitali è quello delle fusioni ed acquisizioni (M&A) transnazionali che hanno registrato infatti un incremento nel 2014 attestandosi a complessivi 200 miliardi di dollari USA.

La governance internazionale degli investimenti e l’incerto rilancio del multilateralismo

Il Rapporto WIR è stata anche un’occasione, da parte dell’UNCTAD, di rilanciare il tema della governance internazionale degli investimenti, ma sarebbe più opportuno parlare di difesa, perché il termine governance appare sproporzionato rispetto alle proposte avanzare dagli esperti dell’organizzazione. I quali, se da una parte puntano il dito sulla c.d. spaghetti bowl , ad indicare la matassa sempre più inestricabile di accordi bilaterali e regionali sul commercio e gli investimenti, dall’altra offrono timidamente la soluzione di un meccanismo sovranazionale che possa gestire la materia sempre più delicata degli ISDS (Investor-State Dispute Settlement), cioè i contenziosi legali tra investitori privati e singoli stati: una sorte di corte civile internazionale alla quale, sempre su base volontaria, dovrebbe essere conferito un ruolo arbitrale “super partes”, e questo per cercare di rassicurare l’opinione pubblica rispetto all’attuale tendenza a ricorrere con sempre maggiore frequenza, negli accordi internazionali, al deferimento dei contenziosi tra investitori e stati a organi arbitrali assolutamente privati, come avviene nella contrattualistica internazionale tra soggetti privati.

Altro argomento sollevato nel Rapporto sono le pratiche di elusione ed evasione fiscale, i cui principali protagonisti sono proprio le multinazionali i cui profitti pesano ormai, in media, per il 23% del gettito fiscale complessivo dei paesi ospiti. E’ evidente l’impatto negativo che queste pratiche, sempre più diffuse e sofisticate, hanno sulle finanze pubbliche e sugli investimenti, in particolare sui cosiddetti Sustainable Development Goals cioè gli obiettivi di sviluppo sostenibile voluti dall’agenda delle Nazioni Unite per il secolo XXI. E’ chiaro infatti che gli erari pubblici, quindi statali, vedono ridurre le proprie entrate proprio dalle imprese più internazionalizzate e che, come visto sopra, stanno traendo vantaggio in termini di profitti, nonostante, la crisi prolungata a livello internazionale, anzi proprio grazie a questa.

Di fronte a tutte queste sfide di portata veramente storica e globale le ricette proposte da UNCTAD appaiono incerte e parziali. Si auspica un rilancio del multilateralismo, forse per ambizione autoreferenziale, visto che l’organizzazione, come tante appartenenti al sistema delle Nazioni Unite, non gode del prestigio di un tempo, essendo stata scavalcata da WTO da una parte e dall’OCSE dall’altra. Ma non vengono forniti indirizzi politici precisi e circostanziati per dare sostanza a questo auspicio. La subalternità al potere decisionale sempre più incontrastato del grande capitale internazionale non viene messa in discussione ma appare piuttosto assunta come un dato “naturale” con cui bisogna in ogni caso fare i conti.

Conclusioni

Da un’Agenzia delle Nazioni Unite non ci si poteva forse attendere un approccio antagonista, eppure i dati del Rapporto WIR di quest’anno ci forniscono alcuni utili elementi per una lettura critica condotta dal punto di vista dell’analisi economica marxiana.

I dati e le analisi dell’UNCTAD confermano le tendenze più recenti del capitalismo globale, e, pur lasciandone intravedere alcune contraddizioni ed alcuni sintomi di crisi irreversibile, l’analisi non viene condotta fino in fondo, rimanendo quindi sempre alla ricerca di “pannicelli caldi” e non soluzioni più radicali, nel senso che le soluzioni sono tali solo se risolvono i problemi alla radice. In questo caso alla radice ci stanno sempre le leggi economiche del sistema capitalista che portano in sostanza ad un quadro sempre più monopolistico e ad una concentrazione e centralizzazione del capitale sempre più spinte, man mano che il processo di globalizzazione dell’economia procede in avanti.

La crisi globale svolge, in questo scenario, un ruolo funzionale decisivo perché consente di rafforzare le tendenze del sistema alla concentrazione ed alla centralizzazione del capitale, indebolendo o rimuovendo del tutto quegli ostacoli che, nei periodi di crescita e prosperità, quali quelli verificatisi nei decenni ’50 e ’60 del secolo scorso, avevano cercato di contenere questa evoluzione naturale del capitalismo: il welfare, il ruolo dell’economia pubblica negli investimenti, l’affermazione di ambiti di democrazia e diritti a favore delle classi lavoratrici nelle economie sviluppate e i fenomeni, purtroppo spesso non portati a termine, di decolonizzazione nei paesi in via di sviluppo.

L’opzione riformista che emerse in quegli anni (’60 e ’70) , e che trovò poi nel multilateralismo la sua espressione in termini di approccio alle relazioni internazionali, poteva forse avere uno spazio d’azione in quell’epoca, quando la ridefinizione degli equilibri geopolitici e, soprattutto geoeconomici tra le principali potenze capitaliste (crescita di influenza dell’imperialismo USA e ridimensionamento di quello europeo, in particolare franco-britannico) e la fase di crescita economica rendevano la situazione più fluida.

Tale opzione risulta difficilmente ripercorribile nel quadro geoeconomico attuale, caratterizzato da una fase recessiva prolungata, dal dominio delle politiche neoliberiste nelle aree dell’imperialismo ancora dominante (USA, UE e altri paesi allineati) e da una crescente tendenza al conflitto interimperialista con le altre potenze emergenti (Russia, Cina in primis).

Sarà quindi prima necessario che si determino nuovi rapporti di forza tali che possano imporre un nuovo schema di relazioni internazionali sul piano storico reale, che poi si possa riverberare in un’eventuale riforma del sistema delle Nazioni Unite. Solo a quel punto l’UNCTAD sarà in grado di rilanciare una reale opzione multilaterale per quanto riguarda la governance degli investimenti internazionali. Per il momento non gli resta invece che svolgere la funzione di punto di osservazione privilegiato delle dinamiche della fase globale del capitalismo, con l’economia mondiale divenuta ormai terreno aperto per le scorribande delle multinazionali figlie del capitale finanziario.

20/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Ferdinando Gueli

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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