La nuova politica commerciale USA e i nuovi scenari della globalizzazione

I primi provvedimenti di Trump: protezionismo contro liberismo? O piuttosto una variante tattica per conservare l'egemonia dell’imperialismo americano?


La nuova politica commerciale USA e i nuovi scenari della globalizzazione Credits: Da wiki commons

Uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del neo eletto Presidente Trump era stata la difesa dell’industria nazionale e dei posti di lavoro in patria, con la promessa di contrastare sia le delocalizzazioni all’estero delle produzioni manifatturiere sia l’apertura del mercato interno alle merci estere, soprattutto quelle provenienti dai paesi considerati maggiormente minacciosi per l’economia statunitense. I due paesi presi simbolicamente a bersaglio da Trump erano, e sono, il Messico nel primo caso, e la Cina nel secondo.

La decodifica mediatica e accademica, di queste parole d’ordine portano a formulare immediatamente l’accusa di protezionismo, dipinto come atteggiamento di politica commerciale antitetico al liberismo, di cui il liberoscambismo è ritenuto un corollario irrinunciabile.

Dopo le promesse elettorali, il nuovo governo Trump si è trovato a dover dimostrare di fare sul serio, soprattutto per dare in pasto ai media qualche misura che confermasse queste intenzioni affinché ne amplificassero la visibilità presso il proprio elettorato.

Uno dei primi provvedimenti sottoposti dalla nuova amministrazione federale all’approvazione del Congresso è stata la cosiddetta border adjustment tax (letteralmente “tassa di aggiustamento doganale”) che, nonostante la definizione, non rappresenta un dazio, bensì uno strumento fiscale che interviene sull’imposta di valore aggiunto (VAT, la nostra IVA), riducendo le esenzioni sulle merci in entrata ed aumentandole invece sulle merci in uscita.

Un provvedimento che ha ricevuto un’accoglienza molto critica da parte di vasti settori, in quanto va a colpire una serie di interessi di gruppi e aziende in quei rami produttivi che beneficiano maggiormente delle importazioni di semilavorati e prodotti finiti, mentre viene visto con maggior favore da chi ha opposti interessi. Tra i primi vi sono in tutti i gruppi della grande distribuzione e le industrie ad essi strettamente legate, come quelle del tessile-abbigliamento, dell’elettronica di consumo, dei beni di consumo di massa in generale, che dipendono in maniera decisiva dalle merci importate dalla Cina o da altri paesi con manodopera a basso costo.

Secondo i dati appena usciti, la bilancia commerciale americana ha registrato nel 2016 un deficit verso l’estero di oltre 735 miliardi di dollari USA. In particolare l’esposizione più elevata è proprio quella con la Cina, che, con un saldo negativo di 347 miliardi di dollari, è responsabile di circa la metà del totale deficit di bilancia commerciale USA. Saldi negativi sono registrati anche con Giappone (-132 miliardi di dollari), Germania (-114 miliardi) e Messico (-63 miliardi). Nel caso dei paesi NAFTA il deficit complessivo per gli USA è di 75 miliardi di dollari. Ben più pesante invece è il deficit che gli USA hanno con l’Unione Europea, pari a 146 miliardi. Il deficit di bilancia commerciale interessa ben 15 dei suoi 20 principali paesi partner, con l’unica eccezione di Regno Unito, Brasile, Belgio, Singapore e Hong Kong. In questa “classifica” l’Italia si posizione all’11° posto tra i partner degli USA, con un saldo negativo per gli USA di oltre 28 miliardi di dollari.

Non è quindi un caso che, oltre alla border adjustment tax, uno dei primi atti dell’amministrazione Trump sia stato il ritiro del trattato TPP, stipulato dall’amministrazione Obama con alcuni paesi dell’area del Pacifico e che era in attesa di ratifica da parte del Senato. Allo stesso tempo il governo Trump ha annunciato la volontà di uscire dall’accordo NAFTA, in vigore da circa un ventennio, che, con l’area di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico, aveva favorito la delocalizzazione manifatturiera dagli USA verso il Messico, soprattutto in settori come l’industria automobilistica e altri beni di consumo durevoli. Sarà comunque un processo non semplice da attuare. Al momento invece nessuna presa di posizione ufficiale sul proseguimento dei negoziati TTIP con l’Unione Europea.

Ciononostante, a seguito di queste prime mosse del nuovo governo federale, si è subito scatenata una battaglia tra diverse lobby economiche che, secondo gli sviluppi degli ultimi giorni, vedrebbe al momento prevalere i settori sfavorevoli al provvedimento, che avrebbero ottenuto sponda in Senato, anche presso una buona parte di senatori repubblicani. Negli ultimi giorni il Segretario designato da Trump al Dipartimento del Commercio, Wilbur Ross, prendendo atto delle difficoltà di approvazione della manovra, ha avanzato una nuova misura, questa volta ancora più esplicitamente rivolta contro la Cina, che prevede risposte a eventuali svalutazioni del tasso di cambio, ritenute dagli USA un sussidio all’export, operate dalle autorità cinesi (o di altri paesi). L' interpretazione svalutazione=sussidio consentirebbe, ai sensi delle regole del WTO, l’adozione di una misura sanzionatoria in forna di imposta aggiuntiva. Rispetto alla border adjustement tax, che piaceva di più nella cerchia vicina al Presidente Trump, la nuova norma sarebbe più selettiva e non generalizzata. Per applicarla andrebbe comunque dimostrata l’esistenza di una misura suscettibile di alterare la “libera concorrenza” internazionale. Analogamente a queste, le autorità americane stanno studiando anche un rafforzamento delle misure antidumping, peraltro mai venute meno, che continuano a colpire da decenni anche alcuni settori produttivi italiani, in particolare l’industria alimentare e quella delle componenti meccaniche.

In questa sede rinunciamo a entrare nel dettaglio dei singoli provvedimenti adottati, che tengono conto della dialettica politica tipica del sistema statunitense, tra governo federale, lobby economiche e equilibri interni al Congresso, non sempre coincidenti con le posizioni dei due principali partiti. Ciò che invece appare rilevante, da un punto di vista politico più generale e della politica internazionale, è comprendere se, come da più parti si tende a sottolineare, siamo di fronte ad una svolta epocale nella politica commerciale degli USA.

Il dibattito manicheo tra protezionismo e liberoscambismo sembrerebbe dare ragione a questa interpretazione. Tuttavia, un esame più attento del reale andamento della politica commerciale USA degli ultimi decenni, o anche più indietro nel tempo, e il suo confronto con questi primi segnali dell’amministrazione Trump, portano a riflessioni in parte divergenti.

Lasciando da parte le dichiarazioni di principio, bisogna piuttosto rifarsi alla storica tendenza protezionistica della politica commerciale USA dal secondo dopoguerra ad oggi. Se, da un lato, i suoi partner erano spinti ad aperture verso gli scambi con l’estero, di cui hanno beneficiato in primo luogo i prodotti delle grandi multinazionali statunitensi, dall’altro la penetrazione commerciale di prodotti esteri negli USA era ostacolata da un protezionismo di fatto. La progressiva rimozione di dazi e altre barriere tariffarie veniva infatti compensata, sotto la spinta di altrettanto potenti lobby economiche, con il rafforzamento e l’ampliamento delle cosiddette barriere non tariffarie, cioè certificazioni, standard tecnici, misure di sicurezza, sanitarie e di ordine pubblico.

La vicenda storica della politica commerciale USA degli ultimi settant’anni rappresenta quindi un ottimo esempio di come funziona l’imperialismo, al di là dell’opposizione ideologica di protezionismo contro liberismo. Causa ed insieme effetto di questa politica è stato uno squilibrio sempre più accentuato, sul piano economico internazionale, tra le grandi multinazionali e le piccole e medie imprese esportatrici. Le prime non soltanto hanno beneficiato della rimozione di dazi e barriere tariffare, ma sono sempre riuscite a scavalcare anche le barriere non tariffarie sia per il loro potere di influenza sul governo federale e su quelli nazionali, sia contando su un processo di produzione esteso a livello globale, che consente di presidiare i mercati senza dover esportare, ma producendo e distribuendo all’interno degli stessi. Cioè la globalizzazione, di cui sono state protagoniste fino a potersi oggi definire imprese transnazionali e non più semplicemente multinazionali.

I paesi che invece hanno mantenuto una struttura prevalente di PMI, e in particolare l’Italia, sono quelli che hanno sofferto maggiormente di un protezionismo de facto che controbilanciava le apparenti aperture liberoscambiste via via imposte a livello internazionale.

La costituzione del WTO non ha sostanzialmente cambiato i termini della questione, Semmai ciò che oggi appare mutato, rispetto ai decenni precedenti, è la trasformazione del sistema capitalista mondiale, ormai entrato a pieno titolo, attraverso il compimento della globalizzazione, nella sua fase transnazionale, caratterizzata da una catena del valore, e quindi della produzione, sempre più segmentata a livello internazionale, e dove risulta sempre più difficile, se non impossibile, ridurre a livello nazionale l’immenso intreccio di interessi economici e commerciali di gruppi finanziari, industriali e della grande distribuzione, sempre più attori globali e sempre meno legati alle politiche di un determinato paese. Questa trasformazione vale per tutti i paesi, anche per gli USA, ed influisce pesantemente sulla strategia imperialista delle principali potenze economiche.

In realtà i principii ideologici che vengono continuamente sbandierati, come il liberismo, la libera concorrenza sui mercati internazionali, la libertà di movimenti dei capitali, la rimozione degli ostacoli al commercio e agli investimenti, sono stati strumentali all’instaurazione di un ordine economico globale che ha sancito la definitiva affermazione del grande capitale transnazionale. L’imperialismo USA si deve districare tra tendenze e interessi che risulta sempre più difficile comporre in una strategia coerente. E ciò si riflette anche nella sua politica commerciale che è uno degli strumenti dell’imperialismo.

L’essersi attribuiti, per ragioni economiche e storiche, un ruolo di potenza globale, comporta per tutte le amministrazioni federali USA, sia prima che dopo Trump, la necessità di confrontarsi con una contraddizione di fondo: da una parte farsi potenza garante di una globalizzazione sempre più spinta, dall’altra dover rispondere a settori del grande capitale tra loro in contrasto e sempre meno legati al contesto nazionale. Infine i governi devono fronteggiare un elettorato che non riesce più, come poteva accadere fino agli anni ’80, ad identificare il proprio benessere con l’apertura internazionale dell’economia americana.

Per orientarsi in questo contesto sempre più complesso e contraddittorio, è utile provare a distinguere tra provvedimenti a breve termine e provvedimenti a medio-lungo termine. Nella fase attuale, ciò che appare caratterizzare i primi passi dell’amministrazione Trump in materia di politica commerciale è soprattutto un approccio di breve termine, la necessità di ottenere alcuni risultati immediati che consentano di dimostrare il mantenimento delle promesse elettorali, possibilmente senza entrare troppo in conflitto con i grandi interessi consolidati e aggiustando progressivamente il tiro se le reazioni del grande capitale dovessero rischiare di delegittimare il ruolo del governo.

Un caso emblematico è quello dell’industria automobilistica: con alcuni provvedimenti protezionisti, la messa in discussione del NAFTA e l’adozione di incentivi fiscali sul rimpatrio dei capitali, l’interesse principale è quello di indurre i grandi gruppi e le imprese dell’indotto a reinvestire negli USA, soprattutto negli stati del MidWest, tradizionalmente il baricentro di questa industria, e dove Trump ha fatto il pieno di voti. Il fenomeno è definito “reshoring” (rimpatrio) ed è in realtà già in atto da alcuni anni, grazie ad una serie di misure e incentivi all’innovazione manifatturiera adottate dall’amministrazione Obama all’indomani della crisi del 2008-09. Tale politica ha già dato dei risultati significativi, ma essendo incentrata principalmente sui segmenti più innovativi dell’industria manifatturiera, non ha dato molti benefici in termini occupazionali. Le misure più aggressive studiate dall’entourage di Trump, con politiche fiscali ben più spinte, soprattutto per il rimpatrio di capitali, potrebbero generare risultati più evidenti. Ad ogni modo ciò che appare interessare la nuova amministrazione è soprattutto un ritorno nel medio periodo in termini di consenso politico, di nuovo senza alienarsi o confliggere con il grande capitale.

Lungi dall’adottare crociate ideologiche in difesa del liberismo, il pragmatismo sembra l’unica strategia in grado di portare avanti l’egemonia imperialista USA in tempi meno favorevoli rispetto agli anni ’90, quando il crollo del sistema bipolare delle relazioni internazionali, pareva invece consentire un atteggiamento più arrogante e, allo stesso tempo, più universale nell’affermazione di principi, salvo poi adattarli alla dialettica delle forze in campo e al peso specifico di influenza dei diversi settori del grande capitale.

Analogamente, questo atteggiamento sfocia in modo ineluttabile in un più spinto ed esplicito bilateralismo nelle relazioni economiche internazionali, Da qui la perdita di centralità dei grandi trattati multilaterali (NAFTA, TPP, TTIP, ecc.), che finiscono con il porre ulteriori vincoli a uno stato nazionale che cerca di perseguire una strategia imperialistica globale in una fase di crescente debolezza rispetto al grande capitale transnazionale.

Qualche osservatore già intravede all’orizzonte, negli USA, una lotta tra due principali fazioni del grande capitale che potrebbe spaccare il paese in due: da una parte il vecchio complesso militar-industriale, con baricentro nel Nord-Est e nel Mid-West, che si fa portatore degli interessi dell’industria manifatturiera più tradizionale, ma non per questo meno globalizzata, e che sembrerebbe essere a fianco di Trump; dall’altro il polo dei grandi colossi della internet economy (i vari Google, Microsoft, Apple, Facebook, Amazon, ecc. ecc.), collocati tutti nella West Coast, che fin qui hanno preso le maggiori distanze dalla nuova amministrazione. Torneremo certamente su questo tema.

Nel frattempo sarà interessante vedere, nei prossimi mesi e anni, come l’amministrazione Trump si saprà districare tatticamente tra le forze centripete e centrifughe che esistono all’interno del grande capitale, che sono espressione di settori in lotta tra loro in una fase di equilibri variabili sia a livello interno che a livello internazionale.


Note:

Le fonti utilizzate per i dati e le informazioni contenute in questo articolo sono le seguenti:
The Wall Street Journal;
Roubini Global Economics;
Bloomberg;
World Trade Atlas;
Il Sole 24 Ore;
Rapporto Prometeia;
U.S. Department of Commerce;
Bureau of Economic Analysis – BEA;
Council of Foreign Relations;
CEPR;
WTO.

25/02/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Zosimo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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