VII lezione del corso di filosofia: la Metafisica di Aristotele

Mercoledì 13 ottobre dalle ore 18 alle 20,15, settima lezione del corso: “Controstoria della filosofia” (II ciclo), tenuto dal professor Renato Caputo per l’Università popolare Antonio Gramsci. La lezione (che si terrà in videoconferenza per gli iscritti all’Università popolare Antonio Gramsci e in diretta facebook al link https://www.facebook.com/unigramsci/) affronterà – in un’ottica marxista – la metafisica di Aristotele.


VII lezione del corso di filosofia: la Metafisica di Aristotele

Mercoledì 13 ottobre dalle ore 18 (puntuali) avrà luogo la settima lezione del corso di filosofia – tenuto dal professor Renato Caputo – intitolato “Controstoria della filosofia da un punto di vista marxista”, secondo ciclo: “dal comunismo utopistico di Platone al realismo immanente di Aristotele”.

La metafisica

La critica più radicale di Aristotele a Platone riguarda la trascendenza: Platone separa l’essenza (la forma, il principio delle cose) dall’esistenza, ponendola nel mondo della idee e fa ciò per risolvere il problema del divenire e della molteplicità. Ad esempio Pericle è sempre Pericle sia da bambino che da anziano, anche se tutto muta in lui: deve esistere qualcosa che permane nel cambiamento, qualcosa di non visibile che non muta, la sua essenza appunto – l’idea di uomo. Inoltre, ad esempio, Pericle, Alcibiade e Temistocle sono diversi, ma c’è qualcosa che li accomuna, qualcosa che è identico in ognuno di loro, la loro essenza (l’idea di uomo) che è trascendente e non cambia, cambiano solo gli uomini sensibili.

La sostanza

Per Aristotele non ha senso cercare il principio delle cose al di fuori delle cose stesse, le idee platoniche sono ai suoi occhi degli inutili doppioni: ad esempio Pericle è sempre Pericle perché al di là dei cambiamenti visibili, c’è in lui qualcosa che permane, una sostanza (“ciò che sta sotto”), che a differenza dell’idea platonica è individuale e può, quindi, spiegare ontologicamente il singolo individuo, il suo permanere identico a se stesso nel divenire. La sostanza è un’unione indissolubile, un sinolo, di materia e forma. Ad esempio Pericle è caratterizzato dall’avere una forma specifica, quella di “uomo”, che organizza la materia (la carne e le ossa) in un modo determinato. Mentre la forma è comune a tutti gli altri uomini, quella particolare organizzazione, quel rapporto unico tra la forma e la materia determinata, caratterizza Pericle come individuo. La forma è propriamente l’essenza, non più trascendente come in Platone, ma immanente, è l’elemento attivo, determinante, ciò che caratterizza l’ente e lo distingue da un altro; la materia è l’esistenza, l’elemento passivo.

Gli enti hanno in sé la propria ragione di essere

Da ciò si sviluppa una differenza essenziale della filosofia aristotelica rispetto alla platonica: per Aristotele 1) gli enti hanno in sé la loro essenza, possiedono la propria ragion d’essere. Il mondo “visibile” viene quindi rivalutato, ha un proprio fondamento ontologico; 2) per la stessa ragione il mondo dell’esperienza ha una propria razionalità e può essere oggetto di conoscenza scientifica, anche se in ogni caso è necessario andare oltre le apparenze (i fenomeni) per individuarne le essenze. Si pensi, ad esempio, ai gesti opposti che caratterizzano i due filosofi nella Scuola di Atene di Raffaello.

L’accidente

Non tutto ciò che esiste ha secondo Aristotele una spiegazione razionale e necessaria. A tale proposito Aristotele distingue la sostanza dagli accidenti. Mentre la sostanza è necessaria, in quanto rappresenta la struttura, ciò che caratterizza un ente (ad esempio “Pericle è un uomo”), l’accidente è una qualità, una caratteristica casuale (ad esempio Pericle è triste, Pericle indossa un determinato vestito, si trova in un determinato luogo, ecc.). L’accidente rientra nelle definizioni di “essere”, ma non esprime la razionalità della cosa, la sua ragion d’essere, né ne può dare una spiegazione scientifica. Il piano della razionalità dell’esistente, che per Platone era l’idea, per Aristotele è la forma: conoscendo la forma conosciamo l’universale che è l’oggetto della scienza.

Le sostanze prime e le sostanze seconde

Oggetto della scienza, di ogni scienza, è la sostanza. In senso stretto esistono solo le sostanze prime (i singoli individui concreti) che non possono predicarsi di alcuna cosa, non posso dire ad esempio “x è Pericle”. Le sostanze seconde sono i generi e le specie (ad esempio animale o uomo), che non esistono concretamente, ma solo come proprietà delle sostanze prime.

La filosofia prima studia l’essere in quanto tale

L’essere inteso come sostanza – per Aristotele ci sono infatti diversi modi di intendere l’essere – è trattato da Aristotele nella Metafisica che lo stagirita chiamava Filosofia prima, il cui ambito è lo studio dell’essere in quanto essere (ontologia), delle cause prime e di Dio (teologia). Mentre le diverse scienze studiano l’essere determinato, ossia considerato in relazione a un certo predicato (l’essere in movimento o l’essere vivente, ecc.) la filosofia prima studia l’essere in quanto tale, ponendosi la domanda sul significato ultimo della realtà, sui princìpi che regolano il reale nel suo insieme. 

Le cause prime

Oltre all’essere come sostanza nella Metafisica Aristotele studia le cause prime delle cose, che per lo stagirita costituiscono il punto di partenza dell’indagine sul mondo fisico e sono quattro:

1. la causa materiale, la materia di cui è fatto un ente, ad esempio la statua è fatta di bronzo;

2. la causa formale, che dà ordine alla materia secondo un modello determinato, nel caso del nostro esempio il modello, il progetto della statua;

3. la causa efficiente, quella da cui ha inizio il movimento, ciò che dà origine alla cosa, nel caso del nostro esempio: l’artista;

4. la causa finale, ossia il fine per cui qualche cosa è fatta, nel caso del nostro esempio il compenso o la gloria dell’artista.

Le cause sono immanenti negli esseri naturali

Mentre negli esseri artificiali la cause sono distinte da essi, negli esseri naturali sono immanenti: una ghianda assimila la materia e la trasforma, è causa efficiente di questo processo, ha in sé la forma che la guida e si realizzerà divenendo quercia. Le quattro cause sono unite nell’uomo che è forma, causa efficiente e finale del bambino.

La causa principale è la finale

Tra tutte le cause la più importante è per Aristotele la finale. Tutto in natura avviene, infatti, per Aristotele secondo un fine e nulla è dovuto al caso. Ad esempio un ghianda può accidentalmente produrre una quercia con un tronco ricurvo o dritto, ma ciò non cambia la sostanza della quercia, per cui la quercia non può divenire un ciliegio.

Il divenire: potenza e atto

Il concetto aristotelico di sostanza risolve il problema del divenire, costituendo ciò che rimane stabile nel cambiamento. Ma come e perché avviene il cambiamento? Per Aristotele non è casuale, ma è sempre indirizzato verso un fine preciso: una ghianda, ad esempio, diviene quercia e non potrà mai diventare ciliegio. Il processo di trasformazione è, quindi, guidato dalla forma, la quale plasma la materia per sua natura informe (una pianticella di grano e una di orzo, ad esempio, assorbono dal terreno la stessa materia ma la organizzano in modo diverso). Il divenire è quindi teleologicamente orientato, indirizzato verso un fine, è per Aristotele passaggio dalla potenza all’atto. La potenza è la possibilità della materia di assumere una determinata forma (ad esempio il pulcino è una gallina in potenza), l’atto (ossia l’entelechia, la realizzazione, il compimento) è invece espressione della forma ed è la realizzazione di una finalità specifica (la gallina, ad esempio, è pulcino in atto), nell’atto la cosa raggiunge la perfezione della propria natura. Nello sviluppo biologico ogni stadio è atto rispetto al precedente e potenza rispetto al successivo: il pulcino, per tornare al nostro esempio, è atto rispetto all’uovo, ma potenza rispetto al gallo.

Come avviene il passaggio dalla potenza all’atto

Ma perché avviene il passaggio dalla potenza all’atto? In quanto alla potenza è sempre connessa una privazione, una mancanza. Quindi il divenire ha origine da una mancanza, dalla privazione e si manifesta con il passaggio dalla potenza all’atto, secondo un percorso già tracciato (la potenza è intesa come necessità, come possibilità a senso unico: dal seme, ad esempio, necessariamente nascerà la pianta, da una ghianda una quercia).

Priorità temporale e priorità logica

Anche se cronologicamente la potenza precede l’atto, l’atto è secondo Aristotele prioritario dal punto di vista metafisico e logico-concettuale, perché l’atto costituisce la ragion d’essere dell’intero processo e in quanto noi definiamo la potenza a partire dall’atto: chiamiamo ad esempio costruttore colui che ha la capacità di costruire. Se cronologicamente la potenza precede l’atto, in ogni caso ogni essere in potenza deriva da un essere in atto: ad esempio un seme (potenza) precede la pianta (atto), ma il seme deriva da un pianta in atto. Inoltre l’atto precede la potenza perché costituisce la causa finale del divenire di ciò che è in potenza e, quindi, deve già esistere per dare una direzione al movimento, al divenire. Per queste ragioni l’atto è secondo Aristotele superiore alla potenza: l’atto è perfezione e la potenza è imperfezione e tutto ciò che è necessariamente ed eternamente deve essere in atto.

L’idea come forma immanente di ogni cosa

Strutturalmente il divenire è spiegato in modo simile a Platone per il quale rappresentava la tendenza dell’esistente ad avvicinarsi al proprio modello, l’idea. In Aristotele l’idea diviene immanente, diviene forma della cosa, ma continua a rappresentare la causa finale del processo. Comune con Platone è quindi la spiegazione della realtà in senso teleologico. La differenza principale è che per Aristotele ogni essere può realizzare la propria natura con il passaggio dalla potenza all’atto, mentre per Platone ogni essere tende alla perfezione dell’idea senza poterla mai realizzare. Per Aristotele il divenire non è il passaggio dall’essere al non essere (per questo il divenire era ritenuto impensabile da Parmenide), ma il passaggio da un certo tipo di essere (la potenza, ad esempio i pulcini) a un altro tipo di essere (l’atto, ad esempio la gallina).

La materia prima e la forma pura

Ora, se tutti i movimenti vanno da una materia a una forma, questa catena presuppone due termini estremi: da un lato la materia pura, priva di determinazioni, che non coincide neanche con i quattro elementi, ma è una sorta di materia madre, di cui aveva già parlato Platone nel Timeo. Essendo la materia prima assolutamente indeterminata è, secondo Aristotele, una pura nozione teorica, un concetto-limite che noi ammettiamo come base o sostrato di ogni divenire; d’altra parte il divenire presuppone una forma pura o atto puro, cioè una perfezione completamente realizzata. Questa forma pura costituisce, secondo Aristotele, la sostanza più alta dell’universo, la sostanza immobile e divina, che è oggetto della teologia.

La concezione aristotelica di dio

Nella metafisica (e nella fisica) Aristotele fornisce una celebre prova dell’esistenza di dio che avrà molta fortuna nei secoli, essa è tratta dalla cinematica, ossia dalla teoria generale del movimento. Aristotele afferma che tutto ciò che è in moto è necessariamente mosso da altro. In questo processo di rimandi non è possibile risalire all’infinito, poiché rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale: ci deve per forza essere un principio primo e immobile, causa iniziale di ogni movimento possibile. Si noti come per Aristotele rimanga valida la concezione di Platone per cui la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento, secondo un punto di vista opposto a quello di Democrito.

Il motore immobile

Aristotele identifica il motore immobile con dio e gli riferisce una serie di attributi: dio è: atto puro, ovvero privo di potenza, poiché la potenza è possibilità di movimento, mentre dio è immobile e non è soggetto al divenire;

1. dio è pura forma o sostanza incorporea, poiché non può contenere in sé alcuna materia che è potenza;

2. dio è essere eterno, causa del movimento dell’universo;

3. dio è causa finale, infatti come può muovere un motore che è immobile? Non può essere causa efficiente, ma è appunto causa finale, cioè oggetto d’amore, come l’amato pur rimanendo fermo attira il movimento dell’amante verso di sé (come una sorta di calamita);

4. dio è perfezione, che attrae verso di sé la materia: l’universo è considerato da Aristotele come lo sforzo della materia verso dio, desiderio di prendere forma. Quindi non è tanto dio che ordina o forma il mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a dio, si auto-ordina e si auto-determina, assumendo le varie forme delle cose. L’essere è dunque per Aristotele un processo eterno verso la forma, un processo che non si esaurisce mai, perché la materia non può mai risolversi nella forma pura;

5. dio è pensiero di pensiero. Essendo perfezione massima, atto puro, non è secondo Aristotele materiale, quindi è pura intelligenza, puro pensiero. Ma cosa pensa dio? Essendo perfetto non può che pensare la perfezione ossia se medesimo (pensare ad altro, implicherebbe la potenzialità di conoscere, ma in dio non vi è alcuna potenzialità).

Le sfere celesti

Questa sostanza non è però unica: dio nella Fisica aristotelica è il motore del primo cielo, gli altri cieli presuppongono altri motori immobili, sicché le sostanze immobili saranno tante quante le sfere celesti. Si tratta di una concezione monoteista o politeista? si domandano ancora oggi gli interpreti.

Differenze della concezione aristotelica della divinità rispetto alla cristiana

Le più significative differenze rispetto al dio cristiano sono:

- il dio di Aristotele non crea il mondo dal nulla, ma si limita a ordinarlo; Il dio di Aristotele non conosce e non ama il mondo, è solo l’amato e non l’amante (l’amante, come sosteneva già Platone, desidera ciò di cui è privo);

- Il dio di Aristotele non è provvidenza e non si cura degli esseri, è statica perfezione che si bea per l’eternità di se medesima.

08/10/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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