La comunità cinese oltre il sentito dire (seconda parte)

Da dove proviene la maggior parte dei cinesi che vivono in Italia? Come sono organizzati, dove lavorano, come interagiscono con gli italiani?Prosegue il viaggio, al di là dei i luoghi comuni, alla scoperta della comunità straniera più antica d’Italia.


La comunità cinese oltre il sentito dire (seconda parte) Credits: foto di Marco Casini

Da dove proviene la maggior parte dei cinesi che vivono in Italia? Come sono organizzati, dove lavorano, come interagiscono con gli italiani?Prosegue il viaggio, al di là dei i luoghi comuni, alla scoperta della comunità straniera più antica d’Italia.

di Simone Pavesi

Se in ogni leggenda, come insegnano a scuola, c’è un fondo di verità, probabilmente anche nel caso del sentito dire sui cinesi d’Italia ritroviamo il procedimento mitico della trasfigurazione del reale. Sono almeno due le caratteristiche della migrazione cinese, accennate in precedenza, che hanno fornito materiale all’immaginario collettivo, ovvero la disponibilità economica e la coesione del gruppo.

In altri termini, i luoghi comuni danno, a modo loro, una risposta a certi interrogativi visibili ma non meglio precisati: i cinesi dove trovano i soldi per aprire le attività? Che cosa si nasconde dietro l’appartata e chiusa comunità cinese? Da queste domande si è generato un numero altissimo di racconti alla Saviano, classificabili per generi letterari, dal giallo al fantasy, dalle storie di mafia a quelle che vedono i cinesi come dei moderni alchimisti in possesso della formula dell’immortalità. Naturalmente ci sono anche delle spiegazioni razionali, ne forniremo qualcuna.

E’ necessario precisare che non tutti i flussi migratori sono originati da situazioni di estrema povertà e sottosviluppo, perchè le motivazioni di chi abbandona il proprio Paese non sono determinate solo da fattori di spinta (push factors) ma anche da fattori di attrazione (pull factors). Si pensi che i cinesi d’Italia provengono dalla provincia più ricca della Cina, che in patria molti di loro, già benestanti, lavoravano come artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e insegnanti.

Ma i cinesi di queste zone hanno storicamente coltivato maggiori ambizioni, fino al punto di essere definiti ai tempi della collettivizzazione delle terre come dei “capitalisti irriducibili”.

Questa tendenza è tuttora presente nella mentalità dei cinesi che arrivano in Italia per inseguire il successo professionale, sottoponendosi volontariamente a duri sacrifici in prospettiva del traguardo finale - quello di gestire una propria attività - che si ottiene grazie all’ appoggio dei legami comunitari.

C’è, infatti, una nozione in cinese che spiega questo insieme di relazioni che unisce il singolo al gruppo (familiari, soci, colleghi, amici), permettendo inizialmente l’inserimento dei suoi membri all’interno di un circuito privilegiato, che accoglie i nuovi arrivati facilitandone l’inserimento sociale e lavorativo:

Guān xì ha vari significati: relazione, vincolo, rapporto, importanza, significato, causa, motivo. Guanxi in cinese significa anche amicizia, ma entrare nella guanxi di un cinese è come entrare a far parte di una famiglia allargata, dentro la quale l’abnegazione alla “causa comune” è totale, così come la condivisione dei beni immateriali e materiali. Chi è dentro la guanxi è come un fratello, una sorella o addirittura può essere un secondo padre, una seconda madre. Entrare in una guanxi è impegnativo, ma rimanevi è ancora più impegnativo. Un solo sbaglio e si rischia di uscirne per sempre. Rientrarci diventa poi impossibile, perché l’errore è la prova della inadeguatezza a ricevere questo onore. In Cina la parola onore ha un significato profondo. E’ un valore che si porta dentro per sempre. Per questo motivo si può essere certi della fedeltà e dell’onestà di un cinese nella sua guanxi.” (1)

Questo sistema di relazioni si basa soprattutto su prestiti. Il lavoratore alimenta la propria guanxi, versandole oltre il 50% del suo salario e, dopo qualche anno, in procinto di diventare il futuro gestore di un’impresa, potrà chiedere alla rete un sostanzioso finanziamento.

Il secondo flusso migratorio presenta perciò una configurazione decisamente più dinamica e complessa rispetto a quella del nucleo originario cinese. In particolare, per gli aspetti comunitari e identitari del gruppo, l’acculturazione non sembra verosimile in termini di “assimilazione”, come per i primi arrivati, ma è auspicabile in termini di “integrazione”, a partire dall’integrazione linguistica. Non è una considerazione ovvia, perché i processi comunitari che si propagano verso l’esterno, riguardanti l’interazione con i nativi, sono perlopiù rapporti di tipo lavorativo, tra fornitori di servizi e clienti. Questi rapporti si inseriscono all’interno delle comuni prospettive di ascesa economica sostenuta dalla guanxi, che però richiede ai suoi membri ritmi di lavoro molto elevati. Ad ogni modo, parafrasando Bauman, la comunità è percepita da chi ne fa parte come un luogo «caldo», che infonde sicurezza, dove la comprensione reciproca è garantita.

Inevitabilmente, la sicurezza garantita dalla forte coesione del gruppo porta alla delimitazione di confini che non sono specificatamente geografici ma sociali e culturali e consistono nell’accettazione di norme e valori comuni, tra cui il mantenimento della lingua materna e una conseguente distanza dal gruppo dei nativi.

I cinesi che decidono di emigrare per perseguire il successo economico, già prima di partire per l’Italia, entrano a far parte di una strutturata rete di relazioni che intercorrono in primo luogo tra lavoratori, gli organizzatori del viaggio e i laoban ovvero i datori di lavoro:

“Esiste in Cina un’organizzazione che provvede a rifornire di manodopera i numerosi piccoli imprenditori cinesi residenti in Europa, i quali, in combutta con l’organizzazione criminale, trattengono l’ingente spesa del viaggio dallo stipendio dei lavoratori per versarlo poi all’organizzazione, tenendoli in una sorta di schiavitù fino a esaurimento del debito” (2).

La gestione dell’immigrato clandestino continua in Italia, per almeno due anni, il tempo necessario per il lavoratore di liberarsi dal vincolo economico che lo lega all’organizzazione.

Una tendenza confermata dal “Rapporto” del Ministero dell’Interno sulla criminalità in Italia che ha messo in luce la gestione del traffico di clandestini come la principale attività illecita perseguita dai cinesi, insieme alla contraffazione. Dagli studi condotti risulta che le organizzazioni criminali sfruttano la disperazione dei connazionali o il desiderio di affermazione in un Paese straniero per imporre condizioni svantaggiose a prezzi smisurati. Un dato emerso riguarda le spese di trasporto in Italia, che possono arrivare a costare ventimila euro.

Gli studi nell’ambito delle scienze criminali hanno insistito anche sullo sfruttamento della manodopera malpagata, riscontrando rapporti di lavoro assimilabili a quelli tra schiavo e padrone; ma un’analisi che evidenzia un problema solo in termini di devianza sociale è in realtà molto lontana dalla percezione che hanno di sé i cinesi e dai risultati delle ricerche di alcuni sinologi, come Rastrelli, che rivelano da un’altra angolazione aspetti diversi della stessa realtà:

“Pensiamo invece che nella maggioranza dei casi si formino fra imprenditori e operai accordi, improntati ad una estrema flessibilità ma che sono accordi reciprocamente riconosciuti. Il dipendente sa che emigrando ha contratto un debito che deve restituire lavorando. Molti cinesi da noi interpellati ci hanno confermato che in due o tre anni di lavoro riescono a ripagare i loro debiti per essere poi in grado di avviare una propria attività, scopo ultimo del loro progetto migratorio. L'operaio inoltre non è legato esclusivamente ad un solo laoban; il suo rapporto con lui è elastico e viene quasi sempre rinegoziato più volte l'anno. Il lavoratore dipendente, una volta adempiuto ai patti stipulati, è libero di ricercare altrove condizioni di lavoro più favorevoli. Inoltre, proprio per l'estrema flessibilità del lavoro nelle ditte cinesi, gli operai passano da un'impresa all'altra anche nel giro di pochi giorni, a seconda delle necessità della produzione” (3).

Questa visione è stata riaffermata in seguito all’incendio di una fabbrica tessile a Prato, nel dicembre 2013, che è balzata alle cronache italiane per via delle discutibili condizioni lavorative degli operai. Una pronta risposta alle polemiche sollevate in merito alla questione è stata pubblicata dal settimanale Panorama:“Non chiamateci schiavi, stiamo cercando il riscatto sociale (e voi non ci aiutate)”. Nell’articolo, scritto da una giovane giornalista cinese di seconda generazione, si spiega l’uso improprio del termine “schiavo” per quei cinesi che liberamente accettano le offerte di lavoro dei connazionali, i quali si fanno carico delle spese di vitto e alloggio, oltre alle spese per i visti di soggiorno.

I cinesi sono consapevoli che il lavoro massacrante presso un l non è altro che il passo iniziale verso l’ascesa sociale che si costruisce attraverso la guanxi. Una volta che il dipendente abbandona il lavoro, per mettersi in proprio o per sposarsi, riceverà dallo stesso l una buonuscita in denaro, a cui seguiranno i finanziamenti degli altri componenti della guanxi. E’ il volto solidale degli immigrati cinesi ed è la maniera più tangibile per rafforzare i legami.

In qualunque modo si voglia interpretare questo scenario, in bilico tra libertà di scelta e sfruttamento, una conseguenza di simili ritmi lavorativi è il ritardo acquisizionale dei cinesi. La scarsa conoscenza della lingua italiana interessa soprattutto i primi anni di soggiorno, in cui i nuovi arrivati lavorano esclusivamente per ripagare i debiti di viaggio. Lo studio della lingua non segue, quindi, un percorso lineare, come osserva anche Giacalone Ramat: “accade frequentemente coi cinesi che l’inizio dell’apprendimento non coincida con l’inizio del soggiorno, ma sia dilazionato”(4). Ma anche quando il debito è stato saldato, il lavoro occupa sempre un posto di primo piano nella scala dei valori cinesi e la forte mobilità dei lavoratori, che si spostano di frequente da una città all’altra, o da un Paese all’altro, non fa rientrare l’acquisizione dell’italiano tra i propri obiettivi.

La difficoltà comunicativa rappresenta la causa fondamentale della mancata integrazione delle comunità cinesi presenti in Italia, la cui strutturazione non espone i suoi membri (o li espone il meno possibile) a intrecciare rapporti con il gruppo nativo “esterno”:

“I nuovi arrivati si sono inseriti in comunità già organizzate, all’interno delle quali ognuno ha compiti ben precisi, fra cui quello che potremmo definire delle «public relations». Ci sono «addetti» alle comunicazioni con l’esterno che nel caso dei laboratori si occupano di tutte le questioni finanziarie, burocratiche, di acquisto delle materie prime o di vendita di prodotti finiti; nel caso dei ristoranti o di attività affini, curano soprattutto i rapporti con gli apparati burocratici e con i fornitori italiani. […] All’interno della comunità si crea dunque una situazione per cui vi è un piccolo numero di cinesi che conoscono bene l’italiano e gestiscono la maggior parte dei rapporti con l’esterno, e la maggior parte dei membri della comunità che intrattiene quasi esclusivamente relazioni intracomunitarie e risulta così piuttosto isolato rispetto alla società italiana in cui pur si trova a vivere.” (5)

Sicuramente le dinamiche comunitarie della collettività cinese, con i suoi retroterra culturali che possono apparire molto distanti dalla mentalità nostrana, non sono sempre facili da comprendere, non solo per il gruista del porto di Napoli ma anche per gli stessi studiosi. D’altra parte la scarsa italianizzazione dei cinesi di prima generazione non ha permesso un vero e proprio confronto o, per meglio dire, una difesa dei soggetti coinvolti a ben altre dinamiche giornalistiche che hanno alimentato, per usare un’espressione tanto cara a Saviano, “la macchina del fango” del sentito dire.

Da una decina di anni le seconde generazioni cinesi si stanno mobilitando, attraverso il sito di Associna, a sfatare certi luoghi comuni e a promuovere la conoscenza della Cina e dei cinesi d’Italia. Non sempre, però, i media hanno concesso a questi ragazzi il giusto spazio, preferendo quelle altre “voci” che richiamano il lapsus in prima pagina del Foglio perchè, in maniera sommaria e fantasiosa, parlano male della Cina e dei cinesi.

Note

  1. G.V. Travaini, Criminalità organizzata e nuova immigrazione in Italia, 2008.
  2. Ministero degli Interni, 2008
  3. R. Rastrelli, Immigrazione cinese e criminalità. Analisi e riflessione metodologiche, 2000. (http://www.tuttocina.it/mondo_cinese/105/105_rast.htm#.VAyJDfl_tTo.
  4. Giacalone Ramat, L'acquisizione della morfologia di italiano: difficoltà e strategie di sinofonia, 2003
  5. S. Galli, Le comunità cinesi in Italia, 1994.

28/06/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: foto di Marco Casini

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L'Autore

Simone Pavesi

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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