La fine delle ideologie

Dopo la fine della Guerra fredda, l’ideologia dominante è divenuta la “fine delle ideologie”.


La fine delle ideologie

La sconfitta nella Guerra fredda ha portato con sé una vera e propria disfatta nella decisiva lotta di classe a livello delle sovrastrutture, al punto che si è affermato un pensiero unico dominante, espressione della classe dominante, che si fonda sulla pretesa fine delle ideologie. Con il termine ideologia in questo caso si intende la possibilità stessa di una visione del mondo alternativa all’ideologia dominante quale espressione, appunto, dell’ideologia della classe dominante, ovvero del capitale finanziario transnazionale. Così, con la fine dell’ideologia, sarebbe venuto meno lo stesso spirito dell’utopia, lo stesso principio di speranza in un mondo più giusto e razionale, la stessa possibilità di un’alternativa di sistema. Si è così imposto il TINA, ovvero il there is no alternative al pensiero unico dominante. In tal modo quel modello neoliberista elaborato dai Chicago Boys - che, per essere per la prima volta sperimentato, ossia imposto alla popolazione, si era dovuto ricorrere alla dittatura militare totalitaria di Pinochet - è stato naturalizzato, come se non fosse più plausibile metterne in questione i fondamenti.

Si è così affermata la concezione per cui la libertà economica tende a coincidere con la libertà tout court. Una concezione egualmente unica della libertà, che non può che essere declinata al singolare e in termini puramente negativi. Tale libertà quindi non può essere intesa, ad esempio, come libertà dal bisogno, ma non può che riguardare la persona come singola, dotata di una sfera privata intorno a sé che gli altri non debbono violare. La libertà è, dunque, assenza di interferenze o coercizioni esterne. Per cui l’individuo che segue le direttive di un governo, per quanto eletto democraticamente, non è libero. Dunque la libertà non potrebbe che essere intesa come libertà individuale quale protezione mediante la legge da ogni coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno a partecipare, ad esempio, alla determinazione della forma di governo (freedom to).

Come appare evidente tale concezione della libertà, propria dell’ideologia liberista dominante, è in stridente contrasto con la stessa democrazia, ma anche in tal caso il pensiero unico dominante impone di considerare democratico il solo regime liberal-liberista, mentre qualsiasi governo interessato a una libertà positiva come quella dal bisogno non può che essere considerato, nel caso migliore, populista, se non un residuo storico ancorato a quel mondo, ormai per sempre passato, in cui era ancora possibile un confronto sul piano delle idee.

Discorso analogo vale per la concezione dello Stato. La stessa idea di un Welfare State, di uno Stato sociale, rischia di apparire ideologica, visto che la concezione di Stato prodotta dalla fine delle ideologie è quella dello stato ridotto a mero guardiano notturno della proprietà privata. Uno Stato che non può che avere un ruolo secondario e negativo, che deve intervenire il meno possibile nella sfera dell’autonomia individuale e, anzi, deve limitarsi a garantire con le leggi il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solidi steccati alla difesa degli individui e, ça va sans dire, delle loro proprietà private. La proprietà privata, nell’attuale mondo post-ideologico, è considerata il fondamento naturale di ogni civiltà evoluta. Proprio perciò legge, libertà e proprietà rappresentano ormai una sacra trinità inseparabile.

Da ciò ne deriva un altro assioma della concezione neoliberista, altrettanto naturalizzato nella società post-ideologica, ossia la contrapposizione tra la vera Legge, con la L maiuscola, che ha carattere universale, tanto da non dover nemmeno essere scritta, ovvero la legge naturale del mercato, dalla legislazione ossia dalle singole norme che possono essere introdotte da governi democraticamente eletti che, nel momento in cui si discostano dalla Legge, non possono che perseguire interessi specifici e, dunque, essere faziose, populiste, in una parola ideologiche.

Dunque la Legge universale non si deve confondere con la legislazione particolare dei governi che, dunque, per quanto democraticamente eletti, non possono nemmeno osare metterla in discussione. La Legge è, infatti, necessariamente – in un’ottica non vetero-ideologica – da considerarsi indipendente dai governi particolari scelti dagli elettori e anzi costituisce il limite invalicabile oltre cui la legislazione dei governi non può ardire spingersi, altrimenti oserebbe porre in discussione lo stesso rule of Law (il governo della legge), sulla base di interessi particolaristici, anche se si trattasse degli interessi espressi democraticamente dalla grande maggioranza della popolazione.

Da questo punto di vista esemplare è la vicenda del governo greco di Syriza che, nonostante la netta affermazione elettorale, ribadita persino da un referendum popolare, sulla base di una piattaforma decisamente anti-liberista, non ha potuto mettere in discussione il rule of Law, ossia le ricette neoliberiste imposte dai poteri forti.

Tale scenario domina, in una forma certo decisamente meno drammatica, la vita politica italiana anche dopo le recenti elezioni politiche, nonostante che queste ultime hanno visto la netta sconfitta proprio di quelle forze politiche che si erano presentate come garanti del rule of Law, di contro a ogni tentazione populista di una legislazione che avrebbe l’ardire di considerare sovrana l’assemblea legislativa democraticamente eletta. Così mentre i giornalisti si perdono e/o lasciano perdersi gli incauti lettori dietro il teatrino della politica, cercando di individuare grazie a una qualche alchimia elettorale la forma del prossimo governo, ai contenuti ci pensa chi muove i fili dietro le quinte, ovvero le istituzioni del capitale finanziario transnazionale che, a partire dalla BCE ricorda che, dopo la breve vacanza populista delle elezioni, è ormai ora di tornare al lavoro, ossia all’introduzione di quelle riforme volte a portare a compimento il passaggio dalla prima repubblica democratica nata dalla Resistenza, alla seconda neoliberista sorta dalla fine delle ideologie.

Tra i tanti aspiranti a entrare a far parte del comitato d’affari della borghesia che gestirà gli affari correnti per conto dei poteri forti economici, spiccano – sforzandosi di essere sempre più realisti del re – gli esponenti del Partito Democratico, subito pronti a realizzare l’ultimo tassello del piano della P2, ossia il presidenzialismo, ispirandosi al sistema francese, dimenticando che esso fu il frutto di un golpe soft dinanzi alla concreta minaccia di un colpo di stato. Il Pd, che nel teatrino della politica rappresenta la parte della sinistra moderata, anche in politica estera non perde l’occasione di dimostrarsi il più ligio agli ordini dell’imperialismo transnazionale che ha ripreso a bombardare, senza nemmeno la copertura dell’Onu o una dichiarazione di guerra, uno degli ultimi paesi laici del mondo arabo che ancora si oppone allo strapotere del fondamentalismo islamico.

Tale solerzia sembra diretta a far dimenticare la totale incapacità di questa componente del ceto politico di mantenere l’egemonia sull’elettorato nonostante controllasse il governo e avesse dalla propria parte le quasi totalità dei poteri forti e di conseguenza dei mezzi di comunicazione, e abbia avuto nuovamente la possibilità di cambiare le regole elettorali alla vigilia delle elezioni politiche, per tentare di distorcere ancora una volta quella che era la manifesta volontà della maggioranza dell’elettorato.

I Pierini del Pd sono così stati capaci di farsi sconfiggere, pure nelle più sicure roccaforti elettorali, da una banda di dilettanti populisti alle prime armi, senza arte né parte, se non quella di portare alla guida delle istituzioni l’uomo qualunque senza qualità.

Per quanto alla prime armi, i rappresentanti del M5S sembrano aver presto imparato la lezione che una cosa è il populismo necessario a parlare alla pancia dell’elettorato, altra cosa è governare interpretando il copione già scritto della forza politica affidabile di governo. Tanto che lo stesso Di Maio non si è stancato di sottolineare che i programmi elettorali hanno scarso rilievo, essendo per altro sostanzialmente identici – tanto che ci si accusa costantemente di aver operato con il copia e incolla – mentre ciò che conta è chi li interpreta. E proprio grazie a questo gli adepti di un comico di second’ordine hanno dimostrato di avere le carte in regola, semplicemente mostrando la loro coscienza pulita di principianti, non ancora bruciati dalla necessità di portare avanti quella politica di austerità volta a far pagare i costi della crisi, prodotti dalla classe dominante, ai subalterni.

Del resto, al di là delle apparenze, sotto diversi aspetti è proprio il M5S il più fedele interprete dell’ideologia dominante, a partire proprio dalla pretesa fine delle ideologie. Sono infatti proprio i grillini a insistere sul fatto che non abbia più alcun senso distinguersi ideologicamente, nemmeno al livello base, della distinzione fra destra e sinistra. Non essendoci più nemmeno la possibilità di un dibattito ideologico tra visioni del mondo alternative – fondamento di ogni democrazia – ciò che conta non è più schierarsi con una certa concezione politica, tanto meno con una certa classe sociale, ma si tratta solo di governare bene, ossia di interpretare al meglio una parte già scritta. Da qui tutta la retorica antipolitica e antisindacale così cara all’ideologia neoliberista, da qui la ripresa del vecchio adagio positivista, altrettanto caro al neoliberismo, del governo dei tecnici al posto dei vecchi e ideologici politici.

Discorso analogo vale per la stessa ciliegina sulla torta che avrebbe consentito ai grillini di guadagnare voti tra le classi sociali e l’elettorato tradizionalmente di sinistra, ovvero il reddito minimo di sopravvivenza garantito. Anche in questo caso siamo pienamente all’interno delle concezioni neoliberiste che, proprio perché si oppongono a ogni legislazione in materia di giustizia sociale – in quanto modifica la posizione economico-sociale delle persone, favorendo, ad esempio con la tassazione, le più svantaggiate (non a caso Grillo ha recentemente proposto di sostituire la tassazione diretta con quella indiretta) – devono ricorrere all’assistenza sociale per garantire la sopravvivenza a un esercito industriale di riserva sempre più ampio, indispensabile a ricattare gli occupati, mantenendo a livello più basso la loro retribuzione.

21/04/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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