Carol, l’emancipazione sessuale nella società borghese

Una magnifica prospettiva di emancipazione proiettata sulla parete della caverna di Platone.


Carol, l’emancipazione sessuale nella società borghese

Una magnifica prospettiva di emancipazione proiettata sulla parete della caverna di Platone. Per i critici ormai assuefatti al clima asfittico della caverna del celebre mito platonico si tratta indubbiamente di un capolavoro. Tale giudizio sarà certamente condiviso dal benpensante della “sinistra” borghese. Chi proverà a uscire dal coro denunciando la “tolleranza repressiva” del politically correct?

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Carol, l’ultimo film di Todd Haynes, melodrammone stile Douglas Sirk, accolto perlopiù da recensioni entusiaste, finisce con il deludere.

Il film affronta con garbo, eleganza e raffinatezza un amour fou e impossibile tra due donne, ben interpretate da Cate Blanchett e Rooney Mara, in un’America bigotta dove impazza la caccia alle streghe che rischia continuamente di divenire una caccia al diverso come tale. La storia ha una sua morale: la forza di un sentimento in grado di affermarsi nella sua purezza al di là di tutti i pregiudizi, i ricatti e gli ostacoli che gli interpone una società che ancora non riesce a tollerare l’emancipazione femminile, la possibilità della donna di sottrarsi alla servitù domestica e di seguire il proprio cuore rompendo con le convenzioni sociali che la relegano in un ruolo subordinato.

Si tratta, tuttavia, di un motivo visto e rivisto, essendo la tematica di fondo di tutta l’arte romantica nel senso lato del termine. Un motivo che ha le sue origini addirittura nel Medioevo e testimonia l’emergere dell’individualità, che si emancipa da una tradizione che la vuole sottoposta ai costumi ancestrali, secondo i quali i figli sono essenzialmente proprietà del padre, che ne dispone al punto di combinare i rapporti fra i sessi considerandoli una mera merce di scambio.

A questa tematica si aggiunge la questione altrettanto essenziale, ma al contempo altrettanto indagata, dell’emancipazione femminile. La donna è considerata tradizionalmente un’appendice dell’uomo, come nel noto mito della Genesi, e come un essere debole, facile preda dei propri istinti e principale responsabile delle stesse azioni ingiuste dell’uomo, secondo il modello biblico di Adamo ed Eva. Ciò ha portato da sempre – fino a che domina la visione del mondo tradizionale, mitologico religiosa – a demonizzare la sfera istintuale femminile, le sue passioni e i suoi desideri, in quanto la donna deve rimanere oggetto dei desideri e delle passioni dell’uomo e, al contempo, una madre pura da ogni sentimento che la possa distrarre dalla sua funzione subalterna all’interno della famiglia.

Così nel film la protagonista cerca di sottrarsi alla schiavitù domestica, a un rapporto in cui è vittima di un marito tutto preso unicamente dal suo successo nella società civile e che la trascura. Nel momento in cui la donna intende liberarsi da questa situazione oppressiva e sviluppare liberamente la propria sfera sentimentale, ricercando una relazione – scevra dall’oppressione così a lungo subita dal domino maschile – con un’altra donna, fragile, dolce e delicata, viene subito demonizzata da una società machista, tradizionalista, bigotta e classista che la bolla come “moralmente indegna”. L’unico rapporto d’amore che aveva conosciuto all’interno di quella sfera oppressiva che è la famiglia borghese, con l’amatissima figlia, gli viene sottratto, a meno che non si sottoponga alle cure di uno psicoterapeuta che la porti a reprimere la propria sessualità, i propri sentimenti e la propria stessa individualità.

Altro tema affrontato è quindi la demonizzazione delle pulsioni e dei sentimenti omosessuali come qualcosa di innaturale, frutto della perversione o quantomeno di una malattia psichica da curare. Secondo la visione del mondo mitologico religiosa, l’uomo e la donna sarebbero stati creati dalla divinità per unirsi in un rapporto gerarchico all’interno del nucleo familiare, finalizzato alla riproduzione. Per cui solo all’interno di questo rapporto la sessualità, la passione e il sentimento è lecito e sano, all’esterno è necessariamente, malato, peccaminoso e innaturale, nonostante che non solo la storia mostri come tali rapporti omosessuali siano ben documentati e presenti sin dall’antichità, e in taluni casi considerati superiori e più puri di quelli eterosessuali unicamente finalizzati alla funzione animale della riproduzione della specie.

Anche da questo punto di vista il film è certamente efficace, mostrando un rapporto omosessuale in tutta la sua naturalezza, nella sua purezza, nella sua raffinatezza decisamente più sano, morale e sensato di un rapporto eterosessuale all’interno di un nucleo familiare in cui la donna non è amata né riconosciuta in un rapporto paritario, ma dominata con la violenza e non conquistata con l’amore.

Certo tutte queste tematiche, la strumentalizzazione dei figli, l’oppressione della donna, la demonizzazione della sessualità e più in generale della sfera passionale, la lotta contro la discriminazione degli omosessuali erano certamente molto più sovversive e rivoluzionarie nell’America degli anni Cinquanta quando il romanzo da cui è tratto il film è stato scritto. Non a caso mentre il romanzo di Patricia Highsmith fu immediatamente censurato, oggi il film a esso ispirato ha ricevuto molteplici premi a livello internazionale, è osannato dalla critica e ha un notevole successo di pubblico, in tutti e tre i casi ha un successo presumibilmente superiore al suo valore reale.

Fortunatamente la poderosa rivoluzione del Sessantotto non è stata ancora cancellata dall’attuale fase di restaurazione. Almeno su questo fronte, nonostante i continui attacchi e la costante demonizzazione degli apologeti della tradizione, della visione del mondo mitologico-religiosa e nonostante l’incredibile arretramento delle forze progressiste, non si sono fatti significativi passi indietro, persino negli Stati Uniti. Unica eccezione, forse, il nostro disgraziato Paese, dove l’urgenza di rinnegare le proprie origini progressiste ha portato anche su questo fronte a dei vergognosi cedimenti ai sostenitori della tradizione religiosa.

Del resto Herbert Marcuse negli anni Cinquanta aveva denunciato il surplus di rimozione reso necessario allo sviluppo della società capitalista. Quest’ultima è completamente asservita al principio di prestazione, ossia alla direttiva di impiegare tutte le energie psicofisiche dell’individuo per scopi lavorativi e produttivi. Ciò ha represso tutte le richieste umane di felicità e piacere, portando alla “diserotizzazione” del corpo umano e alla “tirannide genitale”, cioè alla riduzione dell’atto sessuale a puro fatto genitale e procreativo.

D’altra parte è lo stesso Marcuse a denunciare, già nel decennio successivo, come le forme pluralistiche e democratiche si siano rivelate illusorie, poiché le decisioni fondamentali nelle società a capitalismo avanzato sono sempre nelle mani di pochi, al punto che il filosofo tedesco ha coniato il concetto di “tolleranza repressiva”. In altri termini, nelle società a capitalismo avanzato il permissivismo funziona solo per ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Anche la liberazione sessuale, essenziale risultato del movimento emancipatorio degli anni Sessanta, rischia così di essere ridotta a un inganno. Marcuse parla a tale proposito di desublimazione repressiva, ossia in apparenza nelle società occidentali post sessantottine non ci sono più tabù, in realtà si ha solo una semplice liberalizzazione “amministrata” e commercialmente redditizia del sesso. Questa società nega di fatto solo ad alcuni gruppi l’appagamento dei bisogni primari e stordisce il resto della popolazione con l’esaudimento di bisogni fittizi.

Tale excursus filosofico ci permette di comprendere meglio i limiti del film, anche rispetto al romanzo decisamente più significativo cui si è ispirato. Isolando la sfera degli affetti dai rapporti di proprietà che dominano nella società civile e dall’alienazione del lavoro salariato, il film nasconde in primo luogo come la liberazione sessuale sia possibile e realizzabile quasi esclusivamente per le classi sociali dominanti. In secondo luogo il film, mirando ad ammaliare lo spettatore facendolo impersonare con le protagoniste, impedisce alla maggioranza del pubblico una fruizione critica dei problemi sollevati dalla pellicola. Si perde di vista, in effetti, la differenza fra la portata rivoluzionaria di questa storia d’amore negli anni Cinquanta rispetto ai nostri giorni, in cui, l’emancipazione è comunque tollerata, anche se nel senso in cui diceva Marcuse, ovvero in quelle sfere e per quei ceti sociali che non mettono in discussione il sistema nei suoi meccanismi essenziali. Anzi, tale forma di emancipazione in qualche modo rafforzano il sistema dominante, mostrandolo capace di ricomprendere al proprio interno anche le contraddizioni e le devianze non essenziali.

La sottolineatissima accuratezza formale del film, che tanto appaga il gusto formalistico della critica borghese, è in realtà un altro aspetto che delude. Questo costante ammirarsi, “guardarsi la lingua” direbbe Gramsci, di questa pellicola – dalla fotografia, alla musica, alla direzione degli attori – non può che irritare chi lo fruisce da un punto di vista critico non omologato e riconciliato con l’esistente.

Resta, infine, da sottolineare il limite strutturale che finisce per annoiare la parte del pubblico non ancora completamente anestetizzata dall’ideologia neo-romantica dominante. Quest’ultima tende ad astrarre completamente la sfera dei sentimenti e dell’amore dal contesto storico, politico e sociale, come se la liberazione ed emancipazione si realizzasse nel principio soggettivistico e individualistico di andare dove ti porta il cuore. Così i personaggi del film, lo stesso regista e con lui tutta la critica dominante finiscono per concentrare tutta la propria attenzione sull’emancipazione sessuale di queste due donne, non tenendo minimamente conto di tutto il resto, come se si trattasse di un contesto inessenziale.

Eppure siamo in pieno maccartismo, ossia in un periodo storico tragico, in cui le forze progressiste che avevano avuto un po’ di spazio negli anni precedenti, a causa dell’alleanza tattica con l’Unione Sovietica, vengono spazzate via senza pietà. In tal modo tutti gli intellettuali democratici vengono accusati di favorire il comunismo e messi a tacere e le organizzazioni dei lavoratori vengono private di tutte le avanguardie e poste spesso sotto il controllo della malavita. Si viene a creare un clima in cui rischiano seriamente di affermarsi i dottor “Stranamore” pronti a scatenare una guerra termonucleare, pur di arrestare il processo di emancipazione innescatosi dopo la sconfitta dal nazi-fascismo.

Tutto ciò diviene nel film un dettaglio inessenziale, visto che tutto il centro della scena è occupato dai sentimenti del singolo individuo, bianco e borghese, come se sia possibile l’emancipazione prescindendo completamente dal piano del conflitto sociale e della politica internazionale. Non a caso è proprio quello che ci vuol far credere l’attuale opposizione di sua maestà, la “sinistra” liberal, che si concentra unicamente sui diritti civili, portando avanti sugli altri piani la stessa politica della destra conservatrice, lasciando così sempre più spazio alla destra populista e reazionaria che, in maniera demagogica, si appropria per i propri fini de-emancipatori di quelle battaglie politiche e sociali abbandonate dalla sinistra mainstream.

15/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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