La cultura fa paura: per i cento anni di Orson Welles (prima parte)

Come in tutte le società finora esistite anche nella capitalistica, a un certo grado del suo sviluppo, i rapporti di proprietà entrano in contraddizione con le forze produttive. Ciò vale dal punto di vista strutturale e, di conseguenza, dal punto di vista sovrastrutturale. In altri termini a essere ostacolato non è solo lo sviluppo della produzione materiale, ma anche culturale. Un esemplare controprova di ciò è la parabola di quello che è stato uno dei più eccelsi artisti del cinema e, più in generale, dello spettacolo: Orson Welles. 


La cultura fa paura: per i cento anni di Orson Welles (prima parte)

Come in tutte le società finora esistite anche nella capitalistica, a un certo grado del suo sviluppo, i rapporti di proprietà entrano in contraddizione con le forze produttive. Ciò vale dal punto di vista strutturale e, di conseguenza, dal punto di vista sovrastrutturale. In altri termini a essere ostacolato non è solo lo sviluppo della produzione materiale, ma anche culturale. Un esemplare controprova di ciò è la parabola di quello che è stato uno dei più eccelsi artisti del cinema e, più in generale, dello spettacolo: Orson Welles.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Ripercorrere la carriera artistica di Orson Welles, è l’occasione non solo per celebrare uno dei maggiori registi cinematografici e teatrali del Novecento nel centenario della sua nascita, ma anche per riflettere sulla libertà di espressione nei paesi capitalisti, in primo luogo negli Stati Uniti, paese spesso considerato un modello di democrazia e di salvaguardia delle libertà individuali. 

La carriera di Welles inizia dal teatro: siamo negli anni Trenta, gli anni del New Deal e nel teatro si sperimentano nuove strade: nasce il teatro marxista, il teatro di sinistra e il teatro riformista come il Federal Theatre dove lavora anche Welles fino alla sua soppressione da parte del governo. Morto il Federal Welles insieme a Houseman fonda il Mercury Theatre, dove inizia a lavorare come regista e si distingue per le messe in scena estremamente innovative e provocatorie. 

Ma la notorietà arriva grazie alla radio. Nel ’38 Welles insieme ai suoi amici del Mercury trasmette alla CBS una volta a settimana un adattamento di un classico della letteratura. Il libero adattamento de La guerra dei mondi di H.G. Wells getta l’america nel panico: la cronaca realistica dello sbarco dei marziani nel New Jersey spinge migliaia di cittadini statunitensi alla fuga. Oltre alle querele, questo “scherzo” apre a Welles la strada di Hollywood. A soli 23 anni strappa un contratto unico all’RKO: avrebbe fatto un film l’anno ottenendo in cambio la libertà assoluta, mai concessa a nessun regista dalle grandi corporation. 

Il primo risultato di tale inedita libertà di creazione è Quarto potere (Citizen Kane) che esce nel 1941 [1]: sarà l’unico film fatto a Hollywood in cui Welles avrà il pieno controllo del montaggio. Il film scatena polemiche ancora prima dell’uscita: Kane ricorda da vicino la vita di W.R. Hearst, tra i più influenti magnati della stampa, che «tenta di impedire (addirittura vorrebbe organizzare un consorzio per comprare il negativo del film e distruggerlo) l’uscita del film che “dovrebbe” riguardarlo e che, forse, in verità non è poi così lontano da lui» [cfr. Il Castoro: 28]. La critica considera il film, che non avrà un grande successo di pubblico, un capolavoro: ancora oggi Quarto potere si trova al top delle classifiche dei migliori film di tutti i tempi. Già con questa prima pellicola, dunque, Welles si colloca al vertice del cinema mondiale.

Alla forma rivoluzionaria del film, sia nella costruzione narrativa (ad esempio l’uso ripetuto del flashback), sia nella sua realizzazione cinematografica, fa riscontro un contenuto rivoluzionario: il tema è quello dell’enorme potere che il controllo dei grandi mezzi di comunicazione ha sull’opinione pubblica, che è poi uno dei principali strumenti di egemonia della classe dominante. 

Il personaggio principale del film, Charles F. Kane, interpretato magistralmente dallo stesso Welles, colpisce per il suo realismo, per la sua tipicità e, soprattutto per la sua complessità dialettica, genialmente ricostruita dal montaggio dei diversi punti di vista che hanno su di lui gli uomini e le donne che lo hanno conosciuto. Gli aspetti barocchi delle riprese, genialmente realizzati, non sono antirealisti, né sono un vezzo formale, ma riproducono gli aspetti barocchi della sfrenata volontà di potenza di Kane, la sua mancanza di misura e di gusto. 

Kane, direttore e proprietario dell’Iquirer, aspira a fama e ricchezza ma nello stesso tempo è connotato, almeno all’inizio, da una coscienza sociale. Nel riformismo di Kane emergono tutti i limiti del contesto storico, ovvero della democrazia e del New Deal degli Stati Uniti. Il limite è la mancanza di iniziativa storica da parte delle masse e, in particolare della classe operaia che resta fuori scena o gioca tutt’al più il ruolo di comparsa. Il riformismo dall’alto, il dispotismo illuminato che poi sfocia nel populismo rispecchia, in effetti, un elemento reale e tragico della storia degli Usa in questo periodo storico. Welles tuttavia non ne coglie, se non in modo del tutto indiretto il portato tragico, né fa emergere le forze che hanno schiacciato sul sorgere ogni tentativo di rivalsa delle masse subalterne [2]. Il limite del contesto storico è quindi anche un limite del film, visto che il democratico Welles non va oltre il riformismo del New Deal, rimanendo spesso ostaggio di una prospettiva individualistica. Nel film non è infatti indicata la possibilità di un superamento, di un altro mondo possibile, che non sia il regresso alla purezza dell’infanzia.

La celebrità che Welles raggiunge con Quarto potere gli conferma il pieno sostegno del direttore democratico della RKO. Ciò, unito alla congiuntura politica favorevole del governo rooseveltiano, in cui è presente una componente democratica di sinistra, consente a Welles, come mai in seguito, di avere gli strumenti per realizzare la sua eccezionale vena creativa. Così, oltre a lavorare al suo nuovo capolavoro: L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons), a produrre e poi inevitabilmente a partecipare alla realizzazione di Terrore nel Mar nero (Journey into fear), film dal chiaro intento antifascista, Welles si dedica allo sviluppo del cinema documentaristico. Nasce così il progetto del film a episodi It’s all true, che Welles produce e supervisiona. I primi due episodi previsti si basano su due soggetti di quell’eccezionale pioniere del genere documentarista: Robert J. Flaherty.

Nel frattempo la situazione precipita, la crisi economica non è affatto superata; i metodi keynesiani civili, introdotti con il New Deal, si rivelano palliativi se non connessi con il loro lato oscuro, il keynesismo militare. Ma anche lo sviluppo del settore militare oltre a rifornire i paesi in guerra, rischia di essere arrestato dalla sovrapproduzione. L’espansionismo giapponese nel Pacifico, che minaccia gli interessi economici statunitensi, consente al governo rooseveltiano di individuare una soluzione: accentuare la tensione con l’imperialismo giapponese per il controllo del Pacifico. Tale crescente contrasto esplode con l’attacco di Pearl Harbour, previsto se non voluto dall’amministrazione come casus belli, dinanzi a un’opinione pubblica dominata dalle posizioni isolazioniste quando non filo-fasciste. 

L’effetto a sorpresa dell’attacco, il cui effetto è enormemente aumentato dall’establishment, grazie ai grandi mezzi di comunicazione ha il suo effetto sulla popolazione civile, che si trova impreparata e impotente. Lo stesso Orson Welles è spiazzato e, tuttavia, la sua coscienza democratica e antifascista lo porta a sostenere lo sforzo bellico contro l’aggressivo imperialismo giapponese alleato di ferro del nazi- fascismo. 

Di ciò intende approfittare il grande capitale finanziario, nella persona di Rockefeller che vuole utilizzare Welles come ambasciatore culturale nel principale paese dell’America Latina, il Brasile. Il regime populista di Getulio Vergas, come quello di Peron in Argentina, cercava fra le due guerre una terza via fra capitalismo e socialismo e ciò lo portava a guardare con interesse ad alcuni aspetti della rivoluzione passiva fascista. L’obiettivo di Rockefeller e del governo americano era quello di far schierare il Brasile e, di conseguenza l’America Latina, al fianco degli Stati Uniti. Welles ha il compito di girare un film sull’aspetto più significativo e più facilmente vendibile del folklore brasiliano, il carnevale, anche per sviluppare il turismo statunitense nel paese. 

Così Welles non può concludere e montare L’orgoglio degli Amberson per poter giungere in tempo in Brasile a filmare il carnevale. L’idea di Welles è di utilizzare le riprese del carnevale come primo episodio di It’all true. Welles però non è interessato agli aspetti folkloristici utili al turismo, indaga invece le radici popolari e sociali del carnevale nelle scuole di Samba e nel suo rapporto con le tradizioni popolari degli ex schiavi neri. Welles si rende conto di come il carnevale, quale momento di autoespressione delle masse, sia sotto il governo Vargas controllato dall’alto, al fine di impedirne qualsiasi protagonismo popolare. 

Welles si interessa, inoltre, alla storia di alcuni pescatori che, guidati da un sindacalista, avevano compiuto una grande impresa: con una zattera avevano navigato, senza bussola, per oltre due mesi fino a Rio de Janeiro per portare lì le rivendicazioni dei lavoratori del poverissimo nord-est, dove vi era uno sfruttamento ancora feudale della manodopera. Il governo populista è costretto ad accoglierli nel palazzo, ma in realtà non è intenzionato a mettere in discussione la struttura sociale del paese. Questo produce una frizione fra il sindacalista e il governo, in cui si introduce Orson Welles con il suo progetto di ricostruire tale impresa e inserirla insieme al carnevale e a un altro episodio legato sempre alla cultura popolare, in It’s All True

Ciò porta il regista a entrare in rotta di collisione con il governo brasiliano, che lo considera filo comunista, e con la nuova direzione della RKO. Il nuovo direttore, interessato unicamente al profitto, è assolutamente contrario alla mano libera lasciata a Welles, che deve tornare a essere un semplice lavoratore salariato. Dopo aver visionato il lavoro sul Carnevale, dove si vedono tranquillamente ballare e festeggiare insieme uomini delle più diverse razze, con addirittura protagonisti i neri, cosa impensabile per il sistema di apartheid degli Stati uniti, il neo direttore dell’RKO decide di bloccare il progetto, richiamare la troupe e cancellare i finanziamenti. Orson Welles tenta disperatamente di proseguire da solo, a sue spese. L’RKO si vendica togliendogli il controllo del montaggio de L’orgoglio degli Amberson. Il film viene massacrato e quasi dimezzato. La produzione aggiunge, inoltre, un improbabile lieto fine, che porta Welles a non riconoscerlo più come suo. 

L’RKO così licenzia Welles e denuncia il regista per aver sperperato enormi risorse senza aver concluso nulla. Welles è costretto a rientrare negli Stati uniti e a cominciare a lavorare come attore in film anche scadenti, pur di avere le risorse per portare avanti i suoi progetti, che sono sempre più boicottati dalle grandi compagnie monopolistiche che controllano l’industria cinematografica. 

Il girato di It’s All True è stato riscoperto solo dopo la morte di Welles, ed è stato montato all’interno di un film documentario che ricostruisce il contesto che ha portato al fallimento del progetto. Di quanto resta del film colpisce da una parte la grandissima perizia tecnica, che porta Welles a costruire con mezzi di fortuna e improvvisati delle inquadrature di eccezionale livello, ad esempio scavando buche nel terreno per poter riprendere dal basso i pescatori. Inoltre vi è un significativo tentativo di costruire, per la prima e purtroppo unica volta, un film in cui protagonisti sono le masse popolari, un protagonista collettivo di diseredati di origine non bianca e di lavoratori sfruttati. Welles in tal modo aveva oltrepassato la linea rossa, bruciandosi la possibilità, nonostante le sue eccezionali capacità e l’enorme notorietà conquistata con Quarto potere, di lavorare per l’industria cinematografica. 

L’Orgoglio degli Amberson (1942), secondo film di Welles, nonostante la terribile mutilazione subita e l’aggiunta posticcia di un lieto fine hollywoodiano, è indubbiamente un capolavoro. L’opera è l’equivalente filmico del grande capolavoro di T. Mann i Buddenbrook. Anche esso rappresenta in modo mirabile il tragico declino storico dell’aristocrazia e la conquista del potere da parte della classe borghese. La trattazione di una tematica così sostanziale fa di quest’opera indubbiamente un capolavoro. Di tale grande cambiamento epocale si colgono dialetticamente gli aspetti positivi e i limiti storici. Ciò che è andato perduto non sono, infatti, solo gli aspetti negativi della vecchia società, momento certamente preponderante, ma anche alcune caratteristiche significative, di cui si avverte elegiacamente la mancanza nell’utilitaristica società borghese e che sono indizio di un superamento non del tutto in grado di ricomprendere in sé gli elementi significativi della fase precedente.

L’Orgoglio degli Amberson sarà il primo di una lunga serie di opere di Welles pesantissimamente condizionate dalla censura della produzione. Welles, licenziato dall’RKO e boicottato dalle Corporation, nonostante la sua indiscutibile genialità, non riesce più a farsi produrre i suoi progetti di film. La sua storia ricorda quella di Galileo, solo che la censura che subisce Welles è una censura moderna, che non appare come quella patita dal grande scienziato, perché celata dietro l’apparente legalità delle leggi del mercato, che nascondono lo sfruttamento e l’alienazione di ogni forma di lavoro salariato. La sua storia è la dimostrazione che il modo di produzione capitalistico, da un certo momento in poi, impedisce lo sviluppo delle forze produttive, anche intellettuali, dell’arte e della creatività quando mettono anche nel modo più indiretto in discussione i rapporti di proprietà. Il monopolio privato dei grandi mezzi di produzione e una società unicamente orientata alla ricerca del profitto non favorisce in nessun modo la qualità della produzione, tantomeno dal punto di vista culturale. Tuttavia la battaglia che Welles conduce contro la mercificazione, la censura e la società dello spettacolo è una guerra solitaria, da intellettuale statunitense che nel proprio individualismo non riesce a trovare di punti di contatto con gli altri lavoratori, in particolare con il mondo del lavoro manuale che rimane anche nei suoi migliori film troppo sullo sfondo. 

Note

[1] Prima di Quarto potere Welles aveva fatto già delle esperienze di regia cinematografica, in particolare realizzando il cortometraggio del ’34 The Hearts of age e Too Much Johnson del ’38, che doveva essere inserito nell’omonima farsa di W. Gillette. Entrambi sembravano perduti e sono stati, l’ultimo recentissimamente, ritrovati. In entrambi i casi si tratta di sperimentazioni giovanili. Il secondo in particolare perde moltissimo del suo significato al di fuori del contesto sperimentale dell’opera teatrale cui faceva da sfondo. Proprio per questo ci pare chiaro segno della crisi anche culturale del nostro paese il fatto che persino in un “quotidiano comunista” si sia ricordato Orson Welles nel centenario della sua morte parlando proprio di questa pellicola. Il suo autore si rivolterebbe certamente nella tomba se avesse modo di sapere di essere ricordato proprio per questo lavoro del tutto secondario rispetto al resto della sua importantissima produzione.

[2] Questo aspetto emerge invece nel capolavoro di John Ford Furore.

[3] Sarebbe molto interessante analizzare il rapporto fra intellettuale e potere, fra artista ed esigenze socio-economiche dei diversi modi di produzione mettendo a confronto l’esperienza di tre grandissimi intellettuali che hanno operato più o meno nello stesso periodo storico: Orson Welles, Bertolt Brecht e Sergei Eisenstein. Da tale comparazione emergerebbe in modo evidente come i grandi artisti critici dei paesi a capitalismo avanzato hanno avuto molte più difficoltà a realizzare i propri progetti degli artisti nei paesi in transizione al socialismo, per quanto in questi ultimi si vivesse in un costante stato di emergenza a causa dello stato di assedio imposto dalle potenze imperialiste. Questo permetterebbe di mettere in questione uno dei tanti odierni luoghi comuni per cui le società in transizione al socialismo sarebbero più egualitarie, ma meno libere delle società liberal-democratiche. 

27/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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