Classici del cinema sul grande schermo

Tornano restaurati nelle sale due grandi classi del cinema, Ladri di biciclette e Schindler’s List


Classici del cinema sul grande schermo

Ladri di biciclette, sorto nello spirito progressista che si era affermato grazie alla resistenza, in primo luogo comunista, al progetto neo-schiavista nazifascista. Schindler’s List, è al contrario prodotto dell’ideologia della fine della storia divenuta dominante dopo l’affermazione delle forze contro-rivoluzionari nei paesi del blocco sovietico.

Tra i capolavori assoluti del cinema italiano,Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (1948) è uno dei modelli più alti del neorealismo e assicura ancora oggi un notevole godimento estetico, lasciando al contempo molto su cui riflettere allo spettatore. Ripresentato meritoriamente nelle sale in una versione restaurata, il film sembra incarnare in modo emblematico la concezione nazional-popolare dell’arte elaborata da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, che proprio allora cominciavano a essere pubblicati su incarico di Palmiro Togliatti. Il film è un’emblematica testimonianza della grande maturazione degli intellettuali italiani, auspicata da Gramsci, e realizzatasi grazie alla profonda volontà di una trasformazione radicale del paese, alla cui base vi era l’essenziale esperienza della resistenza partigiana contro la belva nazi-fascista, che non a caso aveva in buona parte visto protagonisti i comunisti.

Si è trattato di un decisivo processo rivoluzionario interrotto e solo parzialmente realizzato, a causa dei delicati equilibri internazionali determinati dai tre grandi “alleati” tattici nella conferenza di Yalta, che assegnavano il nostro paese, nonostante il contributo determinante alla sua liberazione dato da comunisti e socialisti, all’area di influenza anglo-americana. Sulla base del relativo equilibrio delle forze in campo si realizza un compromesso fra le forze radicali social-comuniste e le forze centriste liberal-democratiche che porta alla realizzazione di una Repubblica democratica, che diverrà borghese quando, con lo scoppio della guerra fredda, proprio nel 1948 il delicato equilibrio salta e l’Italia finisce con l’essere integrata nella Nato, nonostante la presenza del più forte e influente partito comunista del mondo occidentale.

Proprio questo avanzato compromesso, prodotto di un processo rivoluzionario per quanto incompiuto, ha prodotto dei risultati molto significativi, che restano sino ai nostri giorni i fiori all’occhiello progressisti del nostro paese: dalla Costituzione più avanzata e democratica realizzata in un paese capitalista, alla rivoluzione, anch’essa non compiutamente realizzata, al livello delle sovrastrutture artistiche rappresentata dal neorealismo, che ha prodotto rilevanti risultati oltre che nel cinema, in letteratura e in pittura. Ladri di biciclette insieme a Roma città aperta di Rossellini, alla Terra trema, Bellissima e Senso di Luchino Visconti, a Riso amaro, Caccia tragica e Roma ore 11 di Giuseppe De Santis e a Umberto D e Sciuscià ancora di De Sica-Zavattini rappresentano le massime espressioni del cinema neorealista italiano, che si è affermato a livello internazionale influenzando profondamente alcuni dei registi stranieri maggiormente significativi.

L’arte neorealista riesce per la prima volta a superare il grande limite dell’arte italiana, denunciato da Antonio Gramsci, che – per la prospettiva cosmopolita tradizionalmente dominante fra i suoi intellettuali – non ha mai realizzato una cultura genuinamente nazional-popolare. Poiché i suoi artisti, persino quelli di maggior spessore come Manzoni o Foscolo o hanno mantenuto uno sguardo paternalista sui personaggi popolari, o hanno composto opere d’élite destinate a rimanere estranee alle masse.

In Ladri di biciclette, anche grazie all’essenziale contributo del grande sceneggiatore Cesare Zavattini, vi è un pieno riconoscimento fra gli interpreti proletari e gli artisti borghesi che hanno diretto il film, portando anche il pubblico a impersonarsi compiutamente nelle tragiche vicissitudini dei suoi protagonisti, tipiche espressioni della masse popolari prive di coscienza di classe del tempo e per questo apparentemente incapaci di emanciparsi dalle tenebra del quotidiano. In realtà tale tenebra è in parte illuminata dall’epica lotta di una semplice famiglia proletaria alle prese con il difficilissimo compito di riprodursi in una società come quella capitalista in cui le masse popolari sono state espropriate dei mezzi di produzione e con essi dei mezzi di sostentamento e sono, perciò, costrette con le unghie e con i denti a trovare qualcuno disponibile ad acquistarne la loro forza lavoro come merce, per poterla sfruttare.

Certo, e qui facciamo i conti con i limiti di questo grande film e più in generale della cultura neorealista, non solo il protagonista risulta privo di una reale coscienza di classe, ma di questo limite gravido di tragiche conseguenze non è portato a prendere adeguatamente coscienza lo spettatore, per il carente uso dell’effetto di straniamento, dovuto al fatto che lo sceneggiatorie, cristiano di sinistra, tende a identificarsi pienamente negli umiliati e offesi protagonisti del film. Tanto più che la santificazione e relativa naturalizzazione della povertà da parte dell’ideologia cristiana, fa sì che il film risulti sostanzialmente privo di una prospettiva almeno potenzialmente rivoluzionaria, dal momento che la catarsi non fa che riconfermare i valori della vita etica, messi alla prova nelle drammatiche vicende del film, ma che alla fine sembrano costituire l’unico approdo sicuro, nell’eticità naturale della famiglia, nel mondo grande e terribile della società civile capitalistica, dominata dalla precarietà dell’occupazione, che minaccia costantemente il proletario di precipitare nel sottoproletariato, e dalla concorrenza e dall’individualismo più sfrenati. In tal modo il protagonista, con cui siamo portati troppo acriticamente a impersonarci, non riesce ad andare al di là della vita etica collettiva e immediata della famiglia e dell’etica del lavoro propria della atomistica società civile borghese, dominio incontrastato dell’utilitarismo individualista. Anche perché nello Stato, per quanto formalmente repubblicano e democratico, il proletario è impossibilitato a riconoscersi, perché non potendo assicurarsi per suo mezzo neppure della soddisfazione dei bisogni primari socio-economici, nonostante si impegni al massimo dando il meglio di sé come lavoratore, non può che rimanere, in quanto privo di coscienza di classe, un tipico esponente della nuova plebe disinteressata alla conservazione di tale società.

Questo sovversivismo spontaneo rimane privo di una direzione consapevole, in quanto la carenza di coscienza di classe impedisce al protagonista di trovare una soluzione adeguata al proprio dramma individuale, che corrisponde a quello della massa dei subalterni, nella dimensione collettiva del conflitto sociale, che può esser condotto efficacemente solo mediante gli strumenti organizzativi della classe proletaria, ovvero il sindacato e il partito, per altro tornati da poco legali e impegnati, proprio allora, in una lotta per la vita e per la morte contro le forze della conservazione e della reazione. Di tale imponente scontro in atto sul piano nazionale e internazionale, non c’è sostanziale traccia nel film, tanto che la nostra famiglia proletaria priva di coscienza di classe vive nell’eterna immediatezza di un mondo essenzialmente astorico e, sostanzialmente, apolitico, tanto che il protagonista è in fin dei conti privo non solo di alte ambizioni, ma anche del necessario principio speranza da cui sorge lo spirito dell’utopia, al di là della speranza di potersi riprodurre vendendo e facendo sfruttare la propria forza-lavoro.

Infine, è quanto mai illuminante che la condizione socio-economica del protagonista sia essenzialmente identica a quella degli attuali ciclo-fattorini, che vengono presentati dall’ideologia dominante – egemone anche nella (a)-sinistra radical – come i prototipi degli sfruttati della nostra epoca, a opera di una sedicente nuova economia definita gig economy, proprio per occultare, anche con il consueto anglismo, le invarianti caratteristiche del capitalismo, in particolare quando si trova davanti lavoratori generalmente privi di coscienza di classe, che hanno come unico e inconsapevole obiettivo quello di farsi sfruttare.

Schindler's ListLa Lista di Schindler (1993), di Steven Spielberg è un ottimo film che dimostra la capacità di egemonia dell’industria culturale statunitense capace di una netta denuncia della barbarie nazista, senza metterne in discussione la causa, ovvero il modo capitalistico di produzione. Spielberg è certamente un grande regista capace, in opere come questa, di mettere in scena film storici su questioni sostanziali garantendo godimento estetico allo spettatore, pur trattando di eventi storici particolarmente nefasti. In particolare quest’opera dà molto da riflettere su un tema generalmente tabù, ovvero sul rapporto fra il regime nazionalsocialista e il modo di produzione capitalistico.

Inizialmente Schindler ci appare come un personaggio tipico del modo di produzione capitalistico che, con assoluta spietatezza, intuisce quanto il regime nazionalsocialista con la sua politica antiproletaria e guerrafondaia fornisca l’occasione di enormi extra-profitti per chi sarà così abilmente cinico da sfruttare a proprio vantaggio la tragica situazione.

Schindler si conquista la fiducia dei dirigenti del partito nazional-socialista e in particolare delle SS, mostrando un’adesione completa al nuovo regime e corrompendo a piene mani la nuova classe dirigente, sfruttando senza nessuno scrupolo la prostituzione. Inoltre, essendo pienamente consapevole della spaventosa persecuzione che si sta abbattendo sugli ebrei, sfrutta senza ritegno, privo com’è di qualsiasi principio etico e morale, la loro tragica situazione speculandoci spietatamente sopra. In primo luogo si serve della tragica situazione dei mercanti ebrei per potersi rifornire di merci di lusso al mercato nero a prezzi stracciati con cui porta avanti la propria opera di sistematica corruzione dei gerarchi nazisti, di cui si conquista stima e amicizia. Poi, con il precipitare della persecuzione alla vigilia della guerra, ricatta – anche in questo caso nel modo più cinico – capitalisti ebrei che rischierebbero di perdere i loro capitali per farsi dare i soldi necessari a rilevare un’impresa costretta a chiudere in quanto proprietà di un ebreo. Schindler ristruttura l’impresa puntando sulla guerra e sugli extra-profitti che garantisce a chi produce per il regime in sua funzione. Infine seleziona la manodopera più qualificata fra i perseguitati ebrei, sfruttando a proprio personale vantaggio la politica neo-schiavista portata avanti dal regime nazista. In tal modo si dota, prima a suo vantaggio e poi anche per meglio corrompere le SS posti alla guida dei campi di sterminio, di un gran numero di schiave sessuali.

Del resto Schindler, con il suo spirito capitalistico, fiuta e sfrutta a proprio vantaggio la stessa spaventosa tragedia dei campi di sterminio, avendo a disposizione non solo una manodopera generalmente qualificata ridotta in una situazione di schiavitù, ma pronta a eseguire qualsiasi ordine del padrone, visto che l’alternativa è lo sterminio.

D’altra parte l’inaspettata sconfitta della Germania nazista e dei suoi alleati fascisti da parte dell’armata rossa sovietica e della resistenza, in buona parte egemonizzata dai comunisti, rende sempre più difficile per Schindler continuare a fare eccezionali profitti con i nazisti e con lo sfruttamento degli internati nei campi di sterminio. La progressiva sconfitta porta i nazisti a cercare di farne ricadere su un capro espiatorio, ovvero sugli ebrei il cui spietato sfruttamento aveva fatto le fortune di Schindler. La crisi del regime nazista rende sempre più difficile e precaria l’impresa capitalistica di Schindler, interamente fondata sul cinico sfruttamento della tragica condizione degli ebrei. La violenza dei nazisti, progressivamente condannati a una certa sconfitta da parte dell’Urss, è sempre meno funzionale ai profitti di Schindler. Il quale, per altro, essendo pienamente inserito nella micidiale macchina di sfruttamento fino alla morte dei campi di sterminio rischia delle gravi conseguenze dopo la storica sconfitta del nazi-fascismo principalmente a opera dei comunisti sovietici e della resistenza.

Con un perfetto tempismo Schindler capisce quale è il momento di cambiare cavallo e cominciare a investire per assicurare la salvezza alla sua manodopera ebrea, unico strumento per non dover pagare il conto delle sue innumerevoli malefatte nel dopoguerra. Così, dopo essersi enormemente arricchito e aver avuto incredibili privilegi collaborando sin dall’inizio a pieno titolo alle malefatte naziste e sfruttando cinicamente la spaventosa persecuzione in particolare degli ebrei – che provocò milioni di vittime innocenti – riuscì nel dopoguerra a farsi considerare nei paesi imperialisti o a essi alleati addirittura un eroe, per aver contribuito a salvarne poco più di mille.

A questa vergognosa opera revisionista e rovescista, volta a lavare la coscienza a tutti i capitalisti che avevano favorito la presa del potere del nazismo e le loro spaventose gesta, con il fine di massimizzare i profitti, il film di Spielberg ha dato un contributo decisivo.

23/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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