Film e serie da vedere del 2021

Quartultima classifica con telegrafiche valutazioni di #classe dei film e delle serie che vale la pena vedere del 2021.


Film e serie da vedere del 2021

The Great è una serie televisiva britannica-australiana liberamente basata sull’ascesa al trono di Caterina II di Russia, voto 7. Lo sfondo storico e il realismo con cui è narrata la vicenda rendono avvincente, interessante e istruttiva la prima serie che si articola in dieci episodi. The Great tocca contenuti sostanziali, in primis la critica alla tirannide e alle vecchie tradizioni di aristocrazia e clero, contro cui si scontra la rivoluzionaria cultura illuminista, che porta l’oppressa zarina a ribellarsi e a conquistare il potere, liberando il paese da uno zar cui il dispotismo aveva dato evidentemente alla testa. Interessante anche il ruolo chiave svolto della servitrice di Caterina, che supera la padrona e gli indica la strada dell’emancipazione.

Come di consueto il secondo episodio segna una caduta di tono. Gli aspetti e i personaggi grotteschi rischiano di divenire inverosimili. Egualmente irrealistica è l’americanizzazione della vicenda. Anche se, rispetto alla maggior parte dei prodotti dell’industria culturale, siamo ancora a un discreto livello.

Con il terzo episodio la serie sembra rinunciare sempre di più all’ambizione di una realistica ricostruzione storica, con significativi aspetti sostanziali, per diventare sempre più la classica americanata, piacevole indubbiamente, ma non bella. Inoltre la storia viene eccessivamente diluita e finisce quasi per trovare un insano piacere nella rappresentazione sempre più grottesca della corte. Infine, si affacciano, al solito, i pregiudizi profondamente razzisti e sciovinisti che gli statunitensi hanno nei confronti dei russi.

Il quarto episodio conferma il trend declinante della serie in quanto gli aspetti universali sono sempre più sacrificati alle bassezze, generalmente grottesche e inverosimili, della corte dello zar. Peraltro i personaggi, tolta la protagonista, sono delle macchiette, adialettiche e scarsamente tipiche.

Per quanto la vicenda sia sempre più incentrata sugli intrighi di corte e le piccole ambizioni, dovute al profondo razzismo statunitense per cui – di fatto – tutti i russi sarebbero naturalmente dei mostri, la serie si riprende parzialmente nel quinto episodio, in quanto ricompaiono tra tante bassezze due questioni sostanziali come la guerra e la lotta per il potere. Il problema è che sono sempre rappresentati con gli stereotipi del politically correct dell’imperialismo occidentale, per cui abbiamo l’unico personaggio occidentale idealista e tutti i personaggi orientali inevitabilmente preda della barbarie.

Il sesto episodio recupera in parte il terreno perduto, trovando una valida mediazione fra le concessioni al piacevole per massimizzare il godimento estetico e le questioni sostanziali. Peraltro, emerge finalmente, in tutta la sua realtà reazionaria, il ruolo della chiesa, reso possibile dal fatto che si tratta della confessione ortodossa. Vi è anche un buon equilibrio fra la posizione da anima bella occidentale dell’imperatrice e le sue illusioni di poter portare il folle e reazionario zar Pietro sulla via del progresso. Naturalmente, come la storia non potrà che dimostrare, si tratta di pie illusioni, di chi ha in realtà ancora paura di prendere nelle proprie mani il proprio destino, accettando – fino in fondo – tutti i rischi e le scomodità che derivano dall’utilizzare fino in fondo la propria ragione.

Nel settimo episodio la serie riacquista stabilmente quota. Le riforme imposte dall’altro rischiano di essere controproducenti e di favorire, involontariamente, le forze della reazione se non si costruisce al contempo l’uomo nuovo. Inoltre emerge chiaramente come i privilegi, soprattutto secolari, faranno necessariamente blocco per evitare ogni riforma che li rimetta in questione. Appare perciò necessaria e indispensabile una rottura rivoluzionaria, in quanto, come si suol dire, certe teste non si cambiano, ma si tagliano.

Nell’ottavo episodio la serie si è ormai assestata su un buon livello. La modernizzazione e i tratti di fiction rendono la serie più fruibile e godibile, senza cadute significative nell’inverosimile. Interessante l’analisi psicologica di tutte le contraddizioni e le assurdità di un potere classista.

Nel nono episodio tutto comincia a precipitare verso la conclusione storicamente annunciata. Peccato che la volontà di far presa su un pubblico il più ampio possibile renda la vicenda sempre più inverosimile, sfiorando il grottesco. Decisamente più interessante è la vicenda di come la zarina Caterina si veda costretta a passare dal donchisciottesco uomo della virtù al realistico e machiavellico uomo del corso del mondo. Si tratta di un aspetto decisivo, di una contraddizione centrale, della tragedia chiave della vita di Caterina. Purtroppo nella serie l’aspetto comico prende il sopravvento sull’aspetto tragico e così questo così drammatico sviluppo sembra avvenire naturalmente, senza colpo ferire. Il che è decisamente inverosimile in quanto è inaccettabile mostrare come un’alta idealista, di punto in bianco, pur di conquistare il potere, si trasformi in una cinica donna del corso del mondo. Così assistiamo, un po’ allibiti, al subitaneo rovesciamento della kallipolis (la città ideale) nella sua forma degenerata, ovvero in una timocrazia (nel senso letterale e platonico del termine), come se fosse la cosa più semplice e scontata del mondo.

L’ultimo episodio, essendo già tutto costruito per lanciare la seconda stagione, non ha pesanti cadute, come avviene generalmente nelle serie che con esso si concludono. Anzi, finisce con l’essere un episodio interlocutorio, dove le spinte negative volte a farne una merce appetibile al grande pubblico dell’industria culturale e il suo proficuo rapporto con la storia, ossia con il substrato sostanziale, trovano un momentaneo equilibrio.

Mulholland Drive di David Lynch, drammatico, Francia e Usa 2001, nomination all’Oscar e premio miglior regia al festival di Cannes del 2001, voto: 7+; uno dei più riusciti film di Lynch, in cui il regista si dimostra capace di tenere insieme la tendenza intellettualistica del cinema d’autore europeo, con l’esigenza di garantire un certo godimento estetico, necessario per l’industria culturale a stelle e strisce. Mulholland Drive è assimilabile alle opere grandi borghesi della crisi del Novecento che non riescono a riprodurre che squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica. Dunque, pur esprimendo la crisi di un mondo giunto al suo tramonto, il film non è in grado di indicare nessuna prospettiva di superamento. Perciò Mulholland Drive è osannato dalla critica cinefila, al punto da essere addirittura considerato il migliore film del ventunesimo secolo.

La tigre bianca di Ramin Bahrani, drammatico, India-Usa 2021, voto 7; film indubbiamente ben fatto e ricco di spunti significativi sul rapporto servo padrone in India e sull’accumulazione primitiva, alla base del sogno indiano. Per quanto nel film vi sia un'indubbia capacità di sviluppare un sano effetto di straniamento nei riguardi della vicenda narrata in prima persona dal protagonista, nel film manca una reale alternativa, una qualche prospettiva di superamento della semplice riproposizione del rapporto signoria servitù. In effetti, non mettendo mai in discussione la prospettiva individualistica del protagonista, non può che apparire necessario il modo assolutamente spietato di far carriera del giovane pieno di piccole ambizioni personali. 

Succession 1X10 è una serie drammatica televisiva statunitense ideata da Jesse Armstrong, in Italia è stata trasmessa su Sky Atlantic. La serie ha ottenuto 3 candidature e vinto 2 Golden Globes, 4 candidature e vinto un premio agli Emmy Awards, 4 candidature e vinto 2 Critics Choice Award, 4 candidature e vinto 2 Writers Guild Awards, 2 candidature e vinto un premio ai Directors Guild e ha, infine, vinto un premio ai Producers Guild, 1 candidatura a Bafta TV Award e la serie è stata premiato a AFI Awards, voto: 7. Succession è incentrato su una famiglia di grandi imprenditori, con il padre che l’ha fondata e ha tutti i difetti del tipico self made man. I figli hanno tutti i difetti tipici degli eredi dei “grandi” imprenditori e ciò non può che rendere estremamente complicata la necessaria successione. Anche perché il mondo degli affari è popolato oltre che da figli di papà, di fatto inetti, anche da self made man che si comportano come veri e propri squali, dal momento che sembra essere l’unico modo per sopravvivere in un mondo del genere. Il tutto è rappresentato in modo decisamente realistico e, quindi, anche necessariamente molto critico. Purtroppo non ci si interroga su come è avvenuta l’accumulazione primitiva, né sui danni alla società prodotti dalle grandi imprese che, in particolare, si occupano di informazione e intrattenimento

Nel terzo episodio emerge, come spesso accade, che in realtà la grande azienda è segretamente pesantemente indebitata con una grande banca, anche perché il settore tradizionale dei media soffre molto lo sviluppo di internet. Se resta realistica la denuncia dell’incapacità dei figli degli squali d’impresa a divenire a loro volta squali – in quanto anche in questo caso ci vuole un’arte e una tecnica – lascia un po’ perplesso il fatto che non riescano a trovare qualche professionista che gli aiuti. Inoltre, se la denuncia di tutta la miseria morale del mondo delle grandi imprese è sicuramente importante e significativa, non essendoci un solo personaggio positivo, tutto finisce con l’apparire necessario, quasi naturale, tanto che si finisce per rischiare di cadere in un’apologia indiretta della società imperialista.

Il quarto episodio resta intenso e appassionante e alquanto realistico. Emerge sempre più evidentemente che la serie abbia preso come modello il grandissimo primo romanzo di Thomas Mann: I Buddenbrok. D’altra parte la grandezza della vecchia generazione, rispetto alla successiva, è così evidente che, non essendoci un solo personaggio che apra una prospettiva diversa, si finisce per mitizzare la vecchia guardia degli imprenditori dinanzi alla già avanzata fase di putrefazione della seconda generazione. D’altra parte, almeno sullo sfondo, appare un altro aspetto celato dell’accumulazione originaria, ovvero l’aver nascosto tutta una serie di delitti avvenuti durante le crociere organizzate dall’impresa di famiglia. 

Il quinto episodio resta nell’elevato standard di tutti i precedenti con una impeccabile analisi psicologica, politica e sociale del gruppo dirigente di una grandissima azienda. L’analisi decisamente realista mette in luce tutte le contraddizioni, ambiguità e ipocrisie di chi guida il capitalismo internazionale. A questi livelli anche chi vuole fare l’alternativo mette comunque in primo piano la lotta al comunismo. D’altra parte la caratterizzazione unilateralmente negativa di quasi tutti i personaggi, a eccezione forse della prima moglie, alle lunghe rischia di annoiare e di apparire anche unilaterale, in mancanza completa di una prospettiva di sviluppo e di un pur minimo spirito d’utopia e di principio speranza.

Nel sesto e settimo episodio si approfondisce il conflitto in famiglia e anche la crudele logica del nudo profitto che travolge ogni legame familiare tradizionale. Inoltre, anche se in modo molto indiretto, emerge come l’impero mediatico sia naturalmente orientato in senso decisamente conservatore se non addirittura reazionario. Tanto che il politicante al momento più orientato a sinistra vede in questo grande monopolio il peggior nemico da sconfiggere. Resta al solito il problema che anche l’antagonista di “sinistra” è presentato non come un idealista, ma come un politicante sostanzialmente senza scrupoli. Anche l’opposizione dal basso al grande monopolista – ispirato a Murdoch – sembra essere velleitaria e, di fatto, anarcoindividualista. Dunque, al solito, gli intellettuali statunitensi sembrano molto più coraggiosi nel denunciare gli aspetti decisamente negativi della loro classe dirigente e dominante, molto di più degli omologhi europei, ma sono del tutto incapaci di anche soltanto immaginare un'alternativa reale. Anche perché dal punto di vista storico, internazionale e dei “princìpi”, come per esempio il considerare il comunismo come l’impero del male, sono del tutto succubi dell’ideologia dominante.

Nell’ottavo episodio assistiamo sempre più alla decomposizione del tradizionale capitalismo familiare, dal momento che la sfera etica della famiglia deve completamente sottoporsi all’individualismo atomistico della società civile borghese. Per quanto efficace possa essere la rappresentazione sardonica della “grande” famiglia capitalista – che viene adeguatamente paragonata a Hitler, tanto che nessuna brava persona vorrebbe avere a che fare con essa – resta il fatto che più giù si scende nella scala sociale e più i personaggi “poveri” della famiglia allargata sono rappresentati in modo comico. Vi è, dunque, un aspetto di brescianesimo in questa rappresentazione in cui i vertici sono protagonisti di una tragedia e più si scende nella piramide sociale e più si passa a toni da commedia.

Nel nono episodio si assiste al compromesso storico fra il grande capitalista e il candidato della sinistra i quali, resisi conto che lo scontro reciproco li indebolisce, scendono a più miti consigli, aprendo così a un ricambio della classe dirigente che non tocchi i rapporti di proprietà e la classe dominante. Anche qui un’ennesima lezione di crudo realismo, ma che cancella la possibilità stessa che un altro mondo sia possibile. Alla fine se tutti sono eguali e ognuno segue solo le proprie piccole ambizioni non può che prevalere il più forte.

L’ultimo episodio non riserva particolari sorprese se non la scelta, molto discutibile, di mettere una pezza puritana a questa scellerata lotta all’interno della famiglia-azienda per la successione. Si scopre, del tutto gratuitamente, che i tre figli in maggiore rottura con il padre-padrone sono in realtà tutti adottati, il che, secondo questa logica ipocrita, potrebbe spiegare le altrimenti inaccettabili conflittualità fra consanguinei. Per il resto la serie segue fino alla fine la sua concezione di fondo, mostrando come il mondo dei potenti sia cinicamente del tutto insensibile alla stessa vita dei subalterni. Anche nel caso in cui i primi sono direttamente implicati nelle terribili disgrazie dei secondi. D’altra parte anche i subalterni sembrano seguire la stessa legge della giungla dell’homo homini lupus. A sottolineare ancora una volta che viviamo in una valle di lacrime, dove pare quasi naturale cercare di fare le scarpe al proprio prossimo.

800 eroi di Guan Hu, azione, drammatico e storico, Cina 2020, distribuito da Notorious Pictures giugno 2021, voto: 7; finalmente un film pubblico cinese dedicato a un grande tema storico, ossia come a partire dalla resistenza contro l’imperialismo giapponese la Cina sia riuscita a emanciparsi dal dominio quasi secolare del colonialismo e abbia gettato le basi per l’eccezionale sviluppo economico e sociale che ne ha fatto oggi la fabbrica del mondo. Peccato che nella Repubblica popolare cinese pubblico corrisponda ancora essenzialmente a Stato, a un sostanziale capitalismo di Stato e non a una socializzazione dei mezzi di produzione. Ne risente così anche il film che, nella prima parte, si limita a una descrizione del tutto naturalistica di uno scontro, per quanto esemplare, fra invasori giapponesi e esercito nazionale rivoluzionario cinese. Nella seconda parte emerge l’importanza di questo scontro e il film si fa decisamente più avvincente anche se rischia di scadere nella retorica.

House of Gucci di Ridley Scott, drammatico, Usa 2021, voto: 7-; film indubbiamente godibile, intrigante e interessante, che lascia alquanto riflettere gli spettatori sulla spietatezza della sete di successo della piccola borghesia e sul cieco cinismo dei “grandi” imprenditori. Se si considera la forma sostanzialmente realista del film, si comprende perché sia stato tanto ingiustamente bistrattato dalla critica cinefila.

I Croods 2 – Una nuova era di Joel Crawford, animazione, avventura, commedia, Usa 2020, voto: 7; bel film di animazione per grandi e piccini, godibile esteticamente e che lascia alquanto da riflettere sulla necessità di modificare le regole e le usanze del passato, per poter progredire. Se ne deduce che bisogna abbandonare la posizione conservatrice tradizionalista – che rimane prigioniera di vecchie regole, usanze e visioni del mondo – per aprirsi al nuovo e al progresso. Da questo punto di vista diviene determinante apprendere a pensare in modo creativo, con la propria testa. Il film ha ricevuto una meritata nomination come miglior film di animazione ai Golden Globe Awards 2021, forse i riconoscimenti cinematografici più attendibile e decisamente più sensati dei giudizi pesantemente viziati ideologicamente dei festival europei del cinema.

The United States vs. Billie Holliday di Lee Daniels, biografico, Usa 2021, voto: 7; film di denuncia della pratica del linciaggio degli afroamericani della cui condanna il senato discute per la prima volta solo nel 1937 sotto F.D. Roosevelt, ma la mozione di condanna viene rigettata. Sarà ripresa in discussione solo nel 2020, ma ancora oggi il senato non è riuscito a condannare tale pratica barbara, la cui tradizione, peraltro, è ai giorni nostri portata avanti dalla polizia. La grandissima cantante jazz Billie Holliday sarà lungo tutto la sua corriera osteggiata, controllata e messa in ogni modo sottopressione dall’Fbi per una sua sola canzone, Strange fruit che, denunciando la barbara pratica del linciaggio degli afroamericani, viene vista come una sfida al Ku Klux Kan. Interessante è anche la denuncia di come la presunta guerra alla droga sia stata utilizzata per mantenere in uno stato di sostanziale apartheid gli afroamericani. Peccato che, per il resto, il film non sia realmente all’altezza in quanto si dilunga troppo sulle vicende, non proprio rilevantissime, della biografia della cantante.

Due [Deux] regia di Filippo Meneghetti, Francia e Belgio 2019, voto: 7; considerato il miglior film francese dell’anno e fra i migliori film europei, anche quest’opera dimostra l’arretratezza anche del miglior cinema europeo rispetto allo statunitense. Mentre quest’ultimo, nelle sue opere più avanzate, affronta coraggiosamente questioni storiche sostanziali, come lo sterminio del movimento rivoluzionario negli Stati Uniti, il cinema europeo arriva al massimo a una critica dei costumi bigotti e cattolici che impediscono il libero amore fra due donne. Per cui la sinistra ha portato a termine la sua metamorfosi nell’ala sinistra dello schieramento borghese, che incentra il proprio impegno esclusivamente sulla lotta liberale per i diritti civili, lasciando completamente da parte la questione sociale. Tanto che la lavoratrice manuale che perde il lavoro viene vista, esclusivamente, come un possibile intralcio alla riconquista del libero amore fra le due protagoniste. Per il resto il film è certamente ben girato e ben interpretato, ma sostanzialmente incapace di andare al di là del piano etico della famiglia e delle contraddizioni fra la famiglia naturale e quella “spirituale”.

The Father – Nulla è come sembra, di Florian Zeller, Gran Bretagna 2020, voto: 7; film premiatissimo e fra i favoriti all'Oscar suscita elevate aspettative che certamente non soddisfa. The father non ha davvero nulla di straordinario, anche se, quantomeno, evita cadute ideologiche. Il film è certamente ben realizzato, ben recitato, ma anche in quest’ultimo caso nulla di eccezionale. Forse l’aspetto più significativo sono le musiche di Einaudi. Per il resto il film è quasi tutto nella trovata di intrecciare, se segnalarle, le sequenze in cui vediamo in soggettiva la visione del mondo di un malato di alzheimer e le scene in cui siamo posti nella prospettiva di chi cerca di prendersene cura. Peraltro, principale neo del film, restano del tutto ignorate le significative problematiche sociali che si presentano nel caso in cui il malato non provenga da una famiglia particolarmente benestante.

Qui rido io di Mario Martone, drammatico, Italia 2021 distribuito da 01 Distribution, voto 7-; film certamente godibile e ben realizzato, anche se privo colpevolmente di uno sfondo storico, politico e sociale che consenta di contestualizzarne la vicenda. Per il resto Qui rido io narra la interessante e avvincente biografia di Scarpetta, un tema in sé privo di valore sostanziale. Per dare spessore al film il regista si concentra sulla contraddittoria poligamia del comico e sulla causa per plagio contro la sua parodia di un’opera di D’Annunzio. In quest’ultimo tema vi sono alcuni spunti significativi, critici verso D’Annunzio e un regime che impediva la parodia di un poeta decisamente vicino alle forze conservatrici e reazionarie, sempre più forti in quegli anni in Italia.

Madre di Bong Joon-ho, drammatico, Corea del sud 2009, voto: 7; non c’è dubbio che Bong Joon-ho sappia davvero il fatto suo come regista. Anche questo film giovanile, uscito in versione italiana dopo il successo di Parasite, lo dimostra ampiamente. D’altra parte tutto questo talento rischia di andare perduto in quanto, per creare il colpo di scena finale, finisce con il limitarsi a far emergere in tutta la sua brutalità la cattiveria dei poveri, per usare un concetto caro a Brecht. D’altra parte, mentre nei drammi brechtiani erano evidenti le responsabilità sociali, economiche e politiche di questa cattiveria “seconda” – ossia quale conseguenza della cattiveria “prima” dei ricchi – ciò non è affatto chiaro nelle opere del regista coreano. Anzi la cattiveria dei poveri, per quanto realisticamente rappresentata, finisce quasi per giustificare quella dei ricchi. Tanto che – esattamente come in Parassite – la tragedia si volge in tragicommedia, in quanto si ritorna (in modo decisamente conservatore) al punto di partenza. Certo, visto che il povero è essenzialmente il sottoproletario tale conclusione potrebbe apparire tutto sommato necessaria. D’altra parte il problema di fondo di questa lettura, solo apparentemente radicale del conflitto sociale, dipende dalla nefasta influenza di Marcuse il quale riteneva che, nei paesi a capitalismo avanzato, la classe potenzialmente rivoluzionaria sarebbe rappresentata dai “grandi esclusi” e non dal proletariato, che resta il grande assente nei film di Bong Joon-ho.

Squid Game 1x9 di Hwang Dong-hyuk, azione, avventura e drammatico, Repubblica di Corea 2021, distribuito da Netflix, voto: 7; serie indubbiamente ben costruita e avvincente, pur riprendendo una idea di fondo già vista in altri film, la sviluppa in modo relativamente originale. Vi sono una serie di individui che si sono, colpevolmente, indebitati e che vivono una vita infernale, tanto da lasciarsi convincere a partecipare a un gioco al massacro, per soddisfare il desiderio di reality ultraviolenti di una élite. Inizialmente ignari del rischio di perdere la vita se non in grado di vincere il match, in un primo momento sfruttano la “democratica” possibilità che gli è lasciata di interrompere, a maggioranza, il gioco al massacro. D’altra parte non vi è una reale alternativa se non riprecipitare in una dimensione infernale della vita reale che non sembra lasciare possibilità di scampo. Sullo sfondo della serie vi sono una serie di elementi sostanziali, dalla critica alla ludo patia, alla critica al voyerismo estremo, dalla critica alla speculazione, alla critica a una società sempre più dominata da una spietata concorrenza, che finisce per portare gli uomini a comportarsi come dei lupi verso i propri simili. Peccato che si tenda a idealizzare, come perfette vittime, i profughi dalla Repubblica democratica popolare di Corea, a ulteriore dimostrazione dei pregiudizi di matrice imperialista ancora largamente diffusi anche fra gli intellettuali della sedicente Repubblica di Corea.

Il grande successo della serie è certamente dovuto al fatto che sembra rispettare tutto le indicazioni della Poetica aristotelica, dall’unità d’azione, alla verosimiglianza delle vicende narrate e alla medietà dei personaggi rappresentati, né troppo cattivi, né troppo buoni e perciò universalizzabili. In tal modo lo spettatore è portato a identificarsi con essi, ma anche a vedere da una prospettiva distaccata quei sentimenti di pietà e terrore che le vicende tragiche dei caratteri messi in scena inevitabilmente producono. D’altra parte il rischio evidente è quello di coinvolgere lo spettatore proprio nel voyerismo sadico che si pretenderebbe denunciare, rendendolo in qualche modo complice dello scempio che è messo in atto.

Il terzo episodio conferma il giudizio formulato sino a ora sulla serie, ossia non si comprendono né le ragioni di chi la esalta, né le ragioni di chi la critica aspramente. La serie resta avvincente, ha un significativo scavo psicologico dei personaggi, è una valida metafora della società civile borghese dove domina il principio mors tua vita mea. D’altra parte resta il bieco anticomunismo e lo sfruttare in modo piuttosto cinico il voyerismo sadico di una parte non indifferente di spettatori.

Nel quarto episodio si può constatare come la guerra fra poveri sia funzionale al domino dei più ricchi che, per tale motivo, fanno di tutto per aizzarla. Si vede anche bene come nella società capitalista l’unico dio resta il denaro, a cui l’uomo può sacrificare ogni cosa. Significativo anche il modo in cui è rappresentato il sottoproletariato malavitoso, che diviene uno strumento repressivo al servizio dell’oligarchia. Interessante, ma al contempo discutibile, l’individuare la possibile alternativa in un sottoproletario lavoratore, che riesce a mantenersi umano anche quando tende a riaffermarsi la mera legge della giungla. Ancora più discutibile è il prendere come eroe un guardiano dell’ordine costituito e una fiera anticomunista che insegue il sogno del capitalismo.

Nel quinto episodio emerge un terribile traffico degli organi dei concorrenti morti, la presenza di vip a godersi lo spettacolo sadico dei gladiatori del terzo millennio e un passato di operaio metalmeccanico del protagonista. Così il suo precipitare nel sottoproletariato viene spiegato per un improvviso licenziamento collettivo dell’impresa, che lo avrebbe lasciato pieno di debiti proprio nel momento in cui gli era nata la prima bambina. Emerge inoltre il sanguinoso scontro con la polizia a seguito dell’occupazione della fabbrica, in cui un operaio amico del protagonista cade colpito a morte dalle guardie mentre lottavano sulle barricate. In tal modo emerge, almeno sullo sfondo, l’importanza del conflitto sociale e di classe, generalmente del tutto omesso nei prodotti dell’industria culturale. Altro aspetto interessante è l’emergere, pur nel conclamato cinismo spietato del neoliberismo, di una sua eticità per quanto paradossale, fondata sull’equità di dare a tutti le stesse chances e di lasciare il diritto di voto a maggioranza come possibile via di uscita dal sanguinario gioco. Peccato che questi aspetti significativi tendano a rimanere sullo sfondo rispetto all’ambigua rappresentazione dei giochi sadici, per quanto anche qui vi sia un tentativo di mantenersi nel politically correct, per cui nella squadra del protagonista troviamo due donne, di cui una immigrata, un anziano e un immigrato sfruttato e non pagato dal padrone. Significativo il dialogo in cui la profuga dalla Repubblica democratica di Corea confessa di non saper rispondere al quesito: in quale delle due Coree si vive meglio?

Nel sesto episodio emerge più chiaramente il vero animo delle drammatis personae. Si va dalla spietatezza del fascista e dello speculatore finanziario, all’umanità e ingenuità del povero immigrato, alla saggezza e dignità dell’anziano, all’umanità dell’operaio licenziato e della giovane sottoproletaria. Nel settimo episodio emergono i vip, per il godimento dei quali tutto questo terribile spettacolo, degno della decadenza dell’impero roman, viene orchestrato.

Nel settimo episodio appare sempre più evidente, nella contrapposizione fra disperati giocatori e sadici guardiani e vip e nello scontro finale, la resa dei conti fra l’operaio licenziato e lo speculatore. Purtroppo questi aspetti preziosi, che richiamano il conflitto sociale, sono in parte oscurati dall’eroe poliziotto e dall’eroina esule dalla Repubblica democratica di Corea. L’ultimo episodio e più in generale la conclusione lascia molto a desiderare. Rimane la superiorità morale del proletario sullo speculatore, ma per il resto la tragedia appare priva di una catarsi dignitosa. Squid game resta sotto diversi aspetti una serie incompiuta e, quindi, carente.

Marx può aspettare di Marco Bellocchio, Italia 2021, voto: 7-; Bellocchio deve essere decisamente rivalutato come documentarista, mentre è stato clamorosamente e ingiustamente sopravvalutato come regista di fiction. Anche il suo penoso ritornare costantemente sui fatti privati della propria famiglia, in questo film di tono minore, finisce con assumere un certo senso. Il tutto è decisamente realista e i personaggi anche appaiono tipici. Resta il grande limite di una storia che, al di là del modo magistrale con cui è narrata e messa in scena, non ha proprio nulla di sostanziale da condividere con lo spettatore.

Ethos serie tv in 8 episodi, Turchia 2020, voto: 7-; il primo episodio lascia ben sperare, affrontando e problematizzando l’incontro-scontro fra due Turchie, quella modernista, laica, benestante e occidentalizzata e quella povera, di origine agricola, legata ai valori tradizionali e conservatori propri di un’etica religiosa e patriarcale. In realtà questi mondi, che appaiono paralleli e quindi destinati a non incontrarsi, tendono in realtà a intrecciarsi e a contaminarsi. Il riconoscimento, che in partenza pareva impossibile, comincia gradualmente ad affermarsi. Peraltro a facilitarlo vi è l’attitudine tendenzialmente egualmente patriarcale che hanno gli uomini delle due Turchie nei confronti delle donne. 

Purtroppo il secondo episodio non è all’altezza del primo e lascia intendere che, presumibilmente, nel suo sviluppo la serie non sarà all’altezza delle aspettative che ha suscitato. Anche se indubbiamente vi sono buone trovate formali, come la ronde che porta le storie dei personaggi a incrociarsi. D’alta parte vi è una certa tendenza a subire l’egemonia dei modelli irrazionalisti e postmoderni europei.

Il terzo episodio, come spesso accade, ridà un po’ di ritmo alla serie dopo il secondo episodio fiacco e, in generale, funzionale ad allungare il brodo. Prosegue e si arricchisce la ronde, emerge sempre più l’attitudine fascista dell’ex militare religioso, fra Erdogan e i Lupi grigi, ma anche il fascismo quotidiano pariolino della psichiatra occidentalizzata. Così come emerge il maschilismo del ricco Don Giovanni e l’uso strumentale che pretende di fare delle donne. Resta di fondo la subalternità di molti dei registi dei paesi in via di sviluppo che, per darsi un tono e conquistarsi una distribuzione di nicchia internazionale, riprendono aspetti postmoderni tipici del cinema continentale, anche se in questo caso mediati con gli aspetti culinari necessari a rendere profittevole la merce dell’industria culturale. D’altra parte si tratta di merce di qualità, congeniata in modo raffinato, con personaggi e dialoghi indubbiamente interessanti.

Il quarto e il quinto episodio allargano ulteriormente la ronde dei personaggi e sviluppano lo scavo psicologico dei protagonisti. Peraltro nel corso degli episodi si può cogliere, in particolare nella protagonista femminile, un significativo sviluppo grazie alle sedute con la psicoanalista occidentalizzata. È inoltre rappresentato in modo realistico il tipico esponente machista, ultraconservatore, che incarna in pieno il fascismo quotidiano e la schiavitù domestica che impone alle donne del proprio nucleo famigliare. La serie da una parte mostra la sua originalità e una significativa cura dei particolari, anche se talvolta annoia o perché allunga troppo il brodo o perché prova a darsi arie da film d’autore postmoderno europeo. Peccato che l’unica figura della serie con alcune caratteristiche rivoluzionarie non venga meglio approfondita e non occupi una funzione più centrale nella vicenda, anche se metterebbe a rischio la meticolosa rappresentazione dei diversi tipi sociali presenti nella contemporanea Turchia.

Il sesto episodio segna una profonda cesura nei rapporti fra i personaggi che avevamo visto costruirsi negli episodi precedenti. Si rimescolano le carte, anche se gli sviluppi non sono particolarmente significativi. Il settimo episodio è in parte noioso, per il vezzo autoriale unito al difetto delle serie di tirarla per le lunghe. Anche se vi sono due momenti significativi, il confronto fra la donna e il suo passato stupratore e lo scontro fra le due sorelle kurde. In quest’ultimo la sorella che ha sviluppato una coscienza per certi aspetti rivoluzionaria accusa l’altra, che ha seguito al contrario la strada dell’integralismo religioso, di essersi posta al servizio di coloro che hanno preso a calci la madre, quando era incinta, facendole partorire un bambino gravemente handicappato e hanno costretto la famiglia a trasferirsi in città. Anche se quest’ultima questione kurda, decisamente la più sostanziale della serie, continua a rimanere troppo sotto traccia.

Nel settimo episodio alcuni equilibri saltati si ricompongono, anche se in modo non del tutto soddisfacente, per quanto riguarda la vicenda dello stupro. Anche perché la ragione della sofferenza della donna non può essere legata esclusivamente alla volontà di vendetta per la violenza subita, quanto piuttosto al dover convivere con un uomo il cui agire, improntato al fascismo quotidiano, è di per sé violento.

L’ultimo episodio si chiude con una completa catarsi dei drammi in atto, quasi da commedia, in quanto la rottura è solo sfiorata, e si ricompone di fatto la situazione di partenza, anche se comunque a un livello superiore e di maggiore consapevolezza. D’altra parte questa compiuta conciliazione delle profonde contraddizioni è poco credibile e sembra il frutto di un mero idealismo soggettivo. Resta comunque il livello nel complesso alto di questa serie tv, decisamente superiore ai prodotti dell’industria culturale occidentale.

Seules les betes di Dominik Moll, Francia, Germania, thriller 2019, candidato a 2 Cesar, voto: 7-; ben costruito e certamente piacevole, il film riprende la celebre struttura formale della ronde, che consente di vedere la stessa storia dai diversi punti di vista soggettivi dei suoi personaggi. D’altra parte se il tema di fondo della Ronde è quello della commedia, in Seules les betes domina il tono tragico. Peccato che, come generalmente avviene nel cinema europeo, si tratta di una tragedia monca, priva della necessaria conclusione catartica. Un chiaro indizio del principio di morte che sembra attraversare una parte consistente della cultura “alta” europea. Si tratta di un chiaro indizio della decadenza della classe dirigente europea. I personaggi sono presentati in modo alquanto realistico anche se, come di consueto, mancando del tutto lo spirito d’utopia, nessuno di essi apre una possibile prospettiva. Infine, dopo troppi film che tendono a esaltare la vita rurale, qui viene al contrario presentata nei suoi aspetti più deteriori. D’altra parte, anche in questo caso, si finisce con l’avere un quadro poco dialettico, in quanto troppo unilaterale.

Dio è donna e si chiama Petrunya di Teona Strugar Mitevska, Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia, Francia 2019, voto: 7-; film che parte male, con una impostazione postmoderna, anche se a poco a poco finisce per affrontare questioni sostanziali in modo dignitoso. La denuncia del maschilismo, del tradizionalismo, del fondamentalismo religioso è netta anche se un po’ troppo unilaterale, riducendo i reprobi a macchiette. Complesso e a tratti contraddittorio, e indubbiamente realisti e in parte tipico è il personaggio principale su cui è incentrato il film. Un personaggio che, pur con i suoi indubbi limiti, è un personaggio positivo, indicando a ragione che volendo anche la realtà più degradata e provinciale si può, almeno in parte, modificare. Il limite del film è il suo essere un po’ troppo minimal, mentre il suo pregio è di essere un’opera tutto sommato impegnata, in primo luogo sul fronte dell’emancipazione della donna.

Tre piani di Nanni Moretti, drammatico, Italia 2021, distribuito al cinema da 01 Distribution, voto: 7; film indubbiamente ben realizzato, godibile, con dialoghi intelligenti, personaggi piuttosto realistici. Peccato che il film sia un po’ debole dal punto di vista dei contenuti sostanziali. I drammi, anche ben affrontati, riguardano sostanzialmente soltanto il piano etico immediato e naturale della famiglia. Mentre Tre piani non è in grado di dirci nulla di significativo sui piani etici più elevati del mondo economico e sociale e dei conflitti di classe.

I may destroy you serie televisiva drammatica britannica e statunitense di genere drammatico creata e scritta da Michaela Coel 1x12, inedita in Italia, anche se ha avuto molte nomination come miglior miniserie, voto: 7-; la serie è incentrata su una giovane scrittrice inglese di origine africana. Nel primo episodio ci viene presentato come un personaggio fuori dagli schemi, che vive una vita alternativa e poco disponibile a scendere a patti con la società capitalista. Peraltro subisce, nonostante la fama conseguita con la sua prima opera, discriminazione razziali. La serie pur presentandoci personaggi piuttosto fuori dagli schemi, sembra piuttosto povera di contenuti sostanziali

Negli episodi dal 2 al 5 emerge il tema sostanziale della serie, cioè il contrasto alla violenza sessuale e, più in generale, a machismo e maschilismo. È interessante apprendere come sia difficile, innanzitutto, essere consapevoli della violenza sessuale, della sua gravità, avere poi la forza di denunciarla e essere in grado di reggere alle conseguenze che ciò comporta, cioè il non essere creduti tanto dalle autorità competenti, quanto da altre vittime o potenziali tali. In tal modo la serie, pur non perdendo in ritmo, riesce ad acquisire maggiore interesse e spessore.

Il sesto episodio segna una caduta di tono, in quanto è quasi interamente impegnato in un lungo e prolisso detour su un personaggio secondario, che peraltro sembra sfruttare la piaga della violenza sessuale a proprio vantaggio, denunciando un falso stupro. Certamente, in particolare come nel caso in questione, l’accusa di una donna caucasica, in buona parte falsa, verso un afro discendente rende la problematica più complessa, ma al contempo indebolisce l’effetto denuncia che costituiva la tematica fondamentale della serie

Il settimo e ottavo episodio segnano una ripresa della serie. Emergono riflessioni importanti sul conflitto sociale, cioè il fatto che spesso le donne afro discendenti tendono a sottovalutare la questione dell’emancipazione femminile, concentrando la propria attenzione nella lotta contro le discriminazioni razziste ed economiche. Mentre emerge che la questione ambientale, come viene impostata dalla ideologia dominante, cioè tesa a limitare i consumi degli individui, non può trovare consensi fra i ceti sociali più poveri. 

Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi, drammatico, Italia 2020, voto: 7-; caso molto raro di film debitamente curato dal punto di vista del contenuto ed estremamente carente dal punto di vista formale. Dopo che con la guerra fredda si è affermato il formalismo come pensiero unico estetico dominante, in particolare nei paesi imperialisti e filo imperialisti, è davvero difficile imbattersi in film come questo, molto coraggiosi e avanzati nel denunciare gli strettissimi legami fra Democrazia cristiana, fascisti e mafiosi, mentre decisamente sciatto dal punto di vista formale. È, davvero, un peccato perché, come strumento di denuncia, peraltro molto ben documentata, risulta estremamente efficace e istruttivo

Babyteeth – Tutti i colori di Milla di Shannon Murphy, commedia, Australia, Usa 2019 distribuito da Movies Inspired. Il film è stato premiato al Festival di Venezia per il miglior attore esordiente, ha ottenuto 1 candidatura a BAFTA per la miglior regia ed è stato proclamato miglior film indipendente internazionale, voto: 7-. Il film – indubbiamente emozionante e coinvolgente – narra attraverso una storia d’amore a tratti romantica (ma del tutto fuori dagli schemi) fra una adolescente destinata a morire presto a causa di un tumore e un giovane tossicodipendente, che vive di espedienti. Piuttosto sofisticato nell’analisi dei personaggi, non tocca quasi per niente il piano della società civile e dello Stato.

Il metodo Kominsky, serie televisiva comica statunitense distribuita da netflix 2x8, voto: 7-; la serie è indubbiamente fatta nel migliore dei modi, è divertente e leggera, ma mai stupida o scontata. Si tratta di una commedia indubbiamente sofisticata e anche decisamente schierata contro i Repubblicani. Resta però prigioniera dei difetti strutturali della commedia moderna. Gli aspetti sostanziali della satira sociale, centrali nella commedia antica, restano troppo sullo sfondo, mentre in primo piano si presentano problematiche più o meno legate al regno animale dello spirito. Peraltro se nella prima serie la novità metteva particolarmente in risalto gli aspetti positivi, con la seconda la ripetizione un po' stantia di taluni schemi, che certo sono ben rodati e indubbiamente funzionano, accentuano quei limiti conservativi che sono una caratteristica in qualche modo strutturale della commedia moderna.

La serie è molto arguta e realistica nell’indagare psicologicamente i rapporti individuali e nell’ambito collettivo della famiglia. Tuttavia, finisce per rimanere prigioniera di quest’ambito etico ancora naturale, immediato, facendo scarse riflessioni sugli ambiti superiori della società civile e dello Stato, sul quale ci si limita ad argute battute antirepubblicane, anche se poi, come di consueto, non si mette in discussione, neanche nella forma della commedia, la politica estera imperialista bipartisan degli Stati Uniti.

Questa seconda stagione si avvia alla conclusione trattando con la solita raffinatezza il tema della vecchiaia, della malattia, del pensionamento, della perdita dell’indipendenza e del fantasma della morte. Anche in questo caso fa difetto la mancata contestualizzazione dal punto di vista storico e socio-economico.

Due estranei regia di Travon Free e Martin Desmond Roe, sci-fi/drammatico, Usa 2020, voto 7-; premiato come miglior cortometraggio, in parte controbilancia i mancati premi principali a Judas and the black Messiah, vincitore morale dei premi Oscar di quest’anno. Il film è una significativa, ma non del tutto riuscita, denuncia del continuo perpetuarsi del linciaggio degli afroamericani da parte degli apparati repressivi dello Stato per i più futili motivi o con l’unica ragione di mantenere il resto degli afro discendenti in posizione subalterna. Peccato che il cortometraggio, pur incentrato su una valida trovata, finisce con l’apparire un po’ troppo ripetitivo, anche per la sua eccessiva durata.

18/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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