Il cinema ai tempi della pandemia

Brevi recensioni ai più importanti film non ancora distribuiti in Italia a causa della pandemia, ma disponibili sul web


Il cinema ai tempi della pandemia

The Nightingale di Jennifer Kent, Australia 2018, voto: 8; film molto significativo di denuncia del completo sterminio della popolazione della Tasmania da parte dei colonialisti britannici europei, cristiani e liberali. Il film denuncia anche le condizioni di sostanziale schiavitù cui erano condannati i prigionieri deportati, naturalmente sempre esponenti delle classi subalterne e, in particolare, della colonia irlandese. Il film mostra anche la lotta condotta dai nativi e dagli irlandesi ridotti in uno stato di schiavitù contro il colonialismo. Da questo punto di vista il film è certamente istruttivo, mostrando – a ragione – come solo la lotta paghi. Significativa è, altresì, la denuncia del razzismo, dell’eurocentrismo e della assoluta incapacità di riconoscere l’altro da parte dei liberali inglesi. Il film, è inoltre significativo in quanto si tratta di uno dei molti genocidi degli europei, cristiani e liberali di cui non si parla praticamente mai. Il limite principale del film è che la lotta è incarnata essenzialmente da due individui e, a tratti, per quando giustificata, si presenta come una forma di vendetta quasi personale. Significativo è come anche gli schiavi irlandesi debbono superare i propri stessi pregiudizi cristiani ed eurocentrici, che non li portano a vedere negli aborigeni dei potenziali alleati contro i comuni oppressori.

Dragged Across Concrete di S. Craig Zahler, USA e Canada 2018, voto: 7+; film interessante, ben realizzato, che assicura un discreto godimento estetico e lascia alquanto da pensare allo spettatore. Vengono messi a confronto l’ambiente fascistoide, ma allo stesso tempo sottoposto alle rigide regole dello sfruttamento capitalistico, con la realtà ancora più tragica degli afroamericani, martoriati dalla marginalizzazione sociale, dalla diffusione sistematica delle droghe pesanti nei loro ghetti e dalla carcerazione di massa, che li costringe, una volta in libertà, a ricorrere al lavoro nero al servizio della criminalità organizzata. Il tutto fa da sfondo a un efficace thriller che, rompendo con gli stereotipi, si prende i giusti tempi per caratterizzare in modo dialettico e contraddittorio i diversi personaggi, dai poliziotti, agli afroamericani – ridotti a manovalanza dei veri criminali – alle vittime che lavorano per poter dare da mangiare ai proprio figli. Peccato che la caratterizzazione dei criminali sia del tutto a-dialettica e inverosimile e che manchi una reale prospettiva di superamento collettivo di questa drammatica situazione.

Corpus Christ di Jan Komasa, Polonia e Francia 2019, voto: 7; il film, meritevolmente realistico, mette il dito sulla piaga del conservatorismo e del comunitarismo reazionario della società polacca dominata dal cattolicesimo. La struttura comunitarista, sostenuta dai poteri forti – grande borghesia, classi dirigenti e clero – tende a escludere ogni forma di libero pensiero. Per rimetterla in discussione, relativamente, c’è bisogno di una situazione paradossale, ovvero che per un mero caso un galeotto in libertà vigilata assuma, per un certo tempo, il ruolo di parroco, sconquassando, per quanto gli è possibile, la rigida e ipocrita struttura comunitarista, solo grazie all’autorità che l’abito ecclesiastico gli conferisce. Nel film si denuncia poi la struttura profondamente ipocrita e corrotta del clero – con preti alcolisti o pedofili – e gli apparati repressivi della società polacca. Realisticamente, l’azione individualista e spontanea del protagonista non produce risultati rivoluzionari, anche se in qualche modo anche una lotta individuale lascia il segno. Purtroppo, manca del tutto la possibilità stessa di un’azione più organizzata e collettiva, in grado di incidere in maniera significativa sulla razionalizzazione dell’esistente.

Brexit. The Uncivil War di Toby Haynes, storico, Gran Bretagna 2019, voto: 7-; film intrigante e brillante con un ritmo frizzante, denuncia i sistemi fraudolenti con cui le destre radicali populiste riescono a vincere le votazioni. Il film è, indubbiamente, significativo anche per la denuncia del populismo e della demagogia con cui la destra radicale, con il finanziamento del grande capitale, sfrutta a beneficio di quest’ultimo il profondissimo disagio sociale presente nella plebe moderna. Interessante anche il modo in cui vengono mostrati i limiti della campagna pro remain, la sua scollatura dai problemi economico-sociali delle masse e l’aver concorso, con i membri dell’establishment che la guidano, a diffondere negli anni – per meri fini opportunistici – l’ideologia xenofoba, le critiche da destra alla Ue e, più in generale, al grande capitale, che hanno contribuito a produrre quel senso comune conservatore e/o reazionario su cui si basano le fortune del populismo di destra. Interessante anche la sostanziale assenza di una reale sinistra, in grado di farsi interprete del malcontento sacrosanto delle masse popolari e capace di sviluppare una doverosa critica da sinistra al grande capitale e all’Unione europea. Con Corbyn che, da parte sua, la avrebbe potuta incarnare, ma in quanto ostaggio del centro-destra della burocrazia del partito e del sindacato è stato costretto a cercare di scomparire, lasciando spazio all’opportunismo di Boris Johnson che, dopo aver sostenuto il remain, quando si rende conto della prateria che si apriva per le posizioni pro leave, è riuscito a cavalcarla. Significativa anche la maniera di rappresentare, nella loro grottesca natura, i leader politici della critica di destra all’Ue dell’UKIP, per anni partner in Europa dei grillini.

Decisamente inaccettabile è, invece, la sostanziale apologia che il film fa dello Steve Bannon, britannico, che ha diretto la spregiudicata campagna di destra per il leave, fino a divenire il principale consigliere di Boris Johnson. Tale fascinazione per il male è prodotto di una visione mitologica del mondo, che non tiene conto né di quanto sia resistibile l’ascesa della destra populista, né della banalità del male. Infine, il film finisce con il naturalizzare la passività e la completa manipolabilità delle masse popolari da parte degli ideologi della destra populista e degli algoritmi.  

Bacurau di Juliano Dornelles e Kleber Mendonça Filho, Brasile 2019, voto: 6,5; imponente metafora della drammatica situazione del Brasile e, più in generale, dell’America Latina in cui i gruppi dirigenti, quasi ovunque tornati sotto il controllo delle vecchie oligarchie, si servono delle pulsioni imperialiste e razziste degli Stati uniti per imporre, se necessario anche con la violenza, il loro potere tendenzialmente assolutistico. Il film offre, al contempo, una altrettanto valida metafora della resistenza popolare e della sua efficacia, che la rende in grado di sconfiggere, anche quando si impone un livello dello scontro particolarmente duro, le oligarchie locali e i loro alleati suprematisti yankee. Il limite del film è che si tratta appunto, per quanto significativa, di una metafora, con tutti i limiti che una rappresentazione di questo tipo comporta. Altro limite è il citazionismo, sostanzialmente postmoderno, del cinema brasiliano impegnato del passato.

Queen & Slim di Melina Matsoukas, drammatico, USA 2019, voto 6+; valido film di denuncia del profondo razzismo degli apparati repressivi statunitensi che tendono a considerare un afroamericano come un potenziale pericolo sociale e, quindi, nel dubbio sparano. Così il solito banale fermo di un’automobile con due afroamericani si risolve, a causa dei pregiudizi razzisti, in una tragedia. D’altra parte, al contrario di quanto succede normalmente, nel conflitto a fuoco finisce male il poliziotto assalitore e i due afroamericani iniziano una lunga fuga in auto attraverso gli Stati uniti, alla ricerca di un aereo che li porti nell’unico posto in cui si sentirebbero, a ragione, al sicuro, ovvero a Cuba. Interessante la grande solidarietà che incontrano nella maggior parte degli afroamericani che incontrano, che vi vedono i vendicatori dei continui soprusi subiti. D’altra parte, nel momento stesso in cui questa delega a due vittime del ruolo di vendicatori prova a svilupparsi in modo razionale in un movimento politico – anche se incentrato sulla rivendicazione spontaneista che ingiunge, agli apparati repressivi dello Stato, di non perseguire i due fuggitivi – ha luogo un evento decisamente irrealistico e inverosimile. Un giovanissimo afroamericano – che crede di poter entrare anche lui nella storia, come i due eroi per caso protagonisti del film – reagendo alla “normale” repressione della polizia, spara e uccide un poliziotto afroamericano che, per altro, cercava di convincerlo a tornare a casa. In tal modo, paradossalmente, proprio nel momento in cui uscendo dalla logica della vendetta individuale si passa alla protesta collettiva, subito si scade nell’avventurismo. Questo è certamente l’aspetto più negativo del film, anche se alla fine, si riporta a ragione l’attenzione sulla contraddizione principale, ossia sul razzismo sociale, quale forma della dittatura della borghesia negli Stati uniti che si impone attraverso la sistematica repressione del disagio sociale, dal suo stesso sistema provocato.

Un amico straordinario. A Beautiful Day in the Neighborhood di Marielle Heller, Usa 2019, voto: 6-; film decisamente melenso, sostanzialmente un’apologia di un personaggio televisivo statunitense. La pellicola, piuttosto noiosa e melodrammatica, offre comunque un messaggio positivo, ovvero che non esistono eroi, ma solo uomini che cercano di superare le proprie debolezze. L’aspetto negativo del film è che sparisce del tutto, in un melenso interclassismo, il motore dello sviluppo storico, ossia il conflitto sociale.

Mister Link di Chris Butler, animazione, Usa 2019, voto: 5,5; candidato ai premi Oscar come miglior film di animazione, Mister Link è indubbiamente ottimamente confezionato dal punto di vista formale. A tratti divertente, è brillante, autoironico e si sforza di mediare contenuti progressisti, ma rimane una merce di qualità dell’industria culturale, un’opera essenzialmente culinaria, d’evasione, sostanzialmente priva di contenuto sostanziale e che lascia ben poco su cui riflettere allo spettatore.

Zombi Child, diBertrand Bonello, Francia 2019, voto: 5; film scioccamente osannato da certa critica pseudo-comunista, può essere a pieno titolo inserito nel progetto di chi si batte contro l’emancipazione dell’umanità, rilanciando la visione del mondo mitologico-religiosa di contro alla concezione filosofico-scientifica. Così il film, nonostante utilizzi almeno in parte l’indagine scientifica dell’antropologia culturale, vuole dare credito a delle credenze, per altro particolarmente primitive, del fenomeno dello zombismo, invece di accreditare la evidente spiegazione dell’origine di tali credenze dal punto di vista del materialismo storico. In altri termini, gli schiavi neri a Haiti erano a tal punto sfruttati dai loro padroni da essere ridotti a morti viventi. Non riuscendo ancora a ribellarsi, con il mito dello zombi si immagina una vendetta personale del lavoratore ridotto a morto vivente contro il suo padrone. Si tratta di una vendetta che rimane sostanzialmente sterile, tanto che in seguito lo zombi andrebbe ad auto seppellirsi sotto terra, quale unico modo per sfuggire alla conseguente violentissima repressione.

17/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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